13 Aprile 2024
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Forconi e forchettoni

di Enrico Marino

Le manifestazioni spontanee di disagio sociale ai limiti dell’esasperazione che in questi giorni invadono le piazze e le strade del Paese sono state immediatamente percepite dal Potere come una minaccia diretta e un attentato alle istituzioni democratiche. Per questo il governo, per bocca del ministro degli Interni, s’è affrettato a bollarle di avventurismo e a evidenziarne le pericolose “infiltrazioni” operate da elementi di “estrema destra” che produrrebbero una radicalizzazione della protesta e la sua deviazione dagli originali obiettivi per convogliarla verso una deriva antisistema giudicata inaccettabile e destabilizzante.

Anche le parole di Berlusconi, che in un’intervista a una emittente francese ha parlato di rivoluzione, sono state bollate come incompatibili col lessico democratico perché in una fase di pesante crisi e di fermenti sociali getterebbero ulteriore benzina sul fuoco. La logica del politically correct mostra con questo atteggiamento tutta la propria nauseante ipocrisia la quale vorrebbe coprire a tutti costi con il sudario della legalità e della stabilità i veri drammi e le ingiustizie dell’attuale fase epocale. Una politica asserragliata nel Palazzo, insensibile alle reali esigenze del popolo e che pervicacemente persegue i suoi fini e il disegno di un nuovo ordine mondiale egemonizzato dalla finanza, dalla globalizzazione e da elitari centri di potere privi di qualunque legittimazione democratica, vuole ridurre ogni manifestazione di dissenso a un problema di ordine pubblico, senza confrontarsi coi reali problemi della gente, dei lavoratori e degli imprenditori. La vuota retorica istituzionale, che non garantisce neppure i diritti inalienabili dei cittadini, è il paravento dietro cui nascondere il fallimento di un progetto economico che sta gettando nella disperazione e la miseria milioni di europei per consegnarli al dominio di una governance anodina e apatride congeniale solo ad ambigui interessi di mercato e a logiche speculative. In quest’ottica assume un valore emblematico anche l’audizione tenuta il pomeriggio del 12 dicembre dal Governatore della Banca d’Italia, presso la sesta Commissione (Finanze e Tesoro) del Senato sul decreto legge (per molti versi probabilmente viziato di incostituzionalità!!) contenente norme relative al capitale della Banca.

La rivalutazione del valore delle quote di Banca d’Italia è una operazione “furba”. Può generare maggiori entrate tributarie. Ed essere impiegata dalle banche azioniste per rinforzare la patrimonializzazione. Il vantaggio rischia però di essere di breve periodo. La rivalutazione (non eccessiva, 5-7 mld di euro) del valore delle quote di Banca d’Italia e la contestuale revisione della governancee dell’assetto proprietario sembra un’operazione “furba”: le banche azioniste rinforzano la propria patrimonializzazione, utile ai fini della Asset Quality Review che la Bce effettuerà l’anno prossimo, e si generano maggiori entrate tributarie (per circa 1,5 mld). Ma come tutte le italiche “furbizie”, il vantaggio di breve periodo rischia di diventare una perdita nel lungo periodo.

Nel documento di valutazione dell’operazione, preparato dalla stessa Banca si riconosce l’importanza della “piena indipendenza”. Si menziona “la capacità di resistere alle pressioni politiche”, mentre l’influenza che può essere esercitata dagli azionisti privati viene relegata alla sfera dei problemi non di sostanza ma di “(erronea) percezione”. E, infatti, uno degli obiettivi della proposta di revisione degli assetti proprietari è proprio quella di “evitare che si dispieghino gli effetti negativi della legge n. 262 del 2005, mai attuata, che contempla un possibile trasferimento allo Stato della proprietà del capitale della Banca”.

Ora, se c’è una “azienda” in Italia che dovrebbe essere in mano pubblica questa è la Banca d’Italia. L’attività della regolamentazione, vigilanza, politica monetaria e così via richiede la massima indipendenza della banca centrale rispetto ai soggetti regolati. L’azionariato pubblico non è condizione necessaria affinché ciò accada e nemmeno sufficiente; però è sicuramente meglio di un azionariato privato, dove gli azionisti sono tra l’altro i soggetti controllati. È vero che anche la Federal Reserve (presa ad esempio nel documento) ha un azionariato privato, ma il Governatore rimane in carica per quattro anni, viene nominato dal Presidente degli Stati Uniti e il Senato lo deve confermare. Sul nome del candidato i partiti politici si scontrano apertamente (si veda il caso di Summers). Il candidato si sottopone alle domande dei senatori e, una volta eletto, dovrà tornare in Parlamento almeno due volte l’anno per testimoniare sulla conduzione della politica monetaria. Per questo, la Federal Reserve preferisce definirsi independent within the government piuttosto che independent of government. Le singole banche federali regionali sono incorporate come una società per azioni, ma le azioni in questione sono una sorta di biglietto di ingresso. Fruttano un dividendo fissato per legge al 6 per cento del valore nominale, ma non possono essere “sold, traded, or pledged as security for a loan”: non proprio il progetto italiano, che prevede invece che le quote siano “facilmente trasferibili e in grado di attrarre potenziali acquirenti”.

Nel documento si suggerisce che gli utili derivanti dal signoraggio, cioè l’emissione di banconote, non vengano distribuiti agli azionisti. Ma la politica monetaria si riduce all’emissione di banconote? Ad esempio, gli utili fatti comprando titoli (di Stato e non) in momenti di stress di mercato dove andrebbero a finire? Si tratta di operazioni che la Banca d’Italia, come qualsiasi altra banca centrale, può effettuare solo perché dietro c’è la garanzia dei contribuenti italiani, non certo quella degli azionisti. Facciamo sempre il paragone con la Fed, il cui obiettivo non è fare profitti ma quando ne fa (e ne sta facendo tantissimi), vengono redistribuiti al Tesoro, cioè ai contribuenti americani. Lo stesso in verità è accaduto in Italia, ma, accentuando la natura privata della Banca, potrà accadere anche in futuro?

Inoltre, nell’obiezione a un assetto proprietario privato della Banca d’Italia c’è anche un po’ di sano “nazionalismo”. La ricchezza accumulata dalla Banca d’Italia è degli Italiani: qualunque sia il suo valore effettivo, sta di fatto che una parte anche piccola del bene pubblico “Banca d’Italia” viene sottratto ai cittadini. Banche e assicurazioni sono private e la loro nazionalità non è più difendibile a priori: ha senso che la Banca d’Italia possa in futuro diventare a maggioranza di azionisti esteri? Ha senso che le banche possano vendere le quote ad azionisti “di lungo periodo”, i quali a loro volta potrebbero essere in futuro scalati da società straniere? Il fatto che fino ad oggi il Governo e il Parlamento italiano possano fare quello che vogliono con gli utili e il patrimonio di Banca d’Italia dipende in larga parte da due fattori: gli azionisti sono italiani e la Banca d’Italia è la loro autorità di vigilanza. Il valore di questa doppia combinazione non va sottovalutato. Spostiamo le lancette di una decina d’anni e chiediamoci cosa può accadere se l’azionariato della Banca d’Italia diventasse francese o tedesco, con la vigilanza oramai passata a Francoforte.

Con una maggioranza estera nella Banca d’Italia saremmo legati all’euro senza scampo, non conteremmo più nulla in sede Bce e non potremmo sganciarci dalla moneta unica neppure se lo volessimo, perché le nostre riserve auree valutarie sarebbero nel controllo di soggetti esteri che potrebbero rifiutarsi di emettere nuovamente lire garantite da quelle riserve. Una perdita totale di autonomia economica e di possibilità di recupero di una qualsiasi sovranità monetaria. L’espropriazione finale operata dalla finanza ai danni dello Stato e della comunità nazionale.


Questo il disegno portato avanti dalla Bce, da Saccomanni e dal governo delle larghe intese (e condiviso evidentemente dai vertici della Banca) per condurci verso un’Unione Europea sempre più lontana dai nostri interessi e da quell’idea di Europa dei popoli che tanti di noi avevano sognato.

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