10 Aprile 2024
Appunti di Storia Controstoria

Firenze Ottobre 1920: con un episodio di “Proto-Squadrismo”, a Montespertoli, il Fascismo “presenta i documenti” (prima parte) – Giacinto Reale

Con una rivoltella di numero che ci avete inviato ci si può appena suicidare… Io credo che la questione di quegli affarini sia vitale per noi.

(Il Segretario amm.vo del Fascio di Firenze scrive a Milano, il 24 agosto 1920)

 

“A chi l’ignoto? A noi!” La domanda che si porrà d’Annunzio al momento di lasciare Fiume, alla fine del 1920, accompagna, in effetti, per tutto l’anno, i primi fascisti, stretti tra la dominante azione avversaria e la propria riconosciuta incapacità a dare una risposta adeguata.

Anche nella sede ufficiale del Congresso Nazionale, a Milano, a maggio, il Segretario Pasella dovrà riconosce la situazione difficile. Rispetto al precedente congresso di Firenze, del novembre 1919, risulteranno costituiti 118 Fasci (erano 148), 22 Avanguardie Studentesche (prima assenti), con un totale di 27.430 aderenti ai primi (erano 42.836) e 3.700 alle seconde.

Inoltre, un centinaio di Fasci saranno definiti “in via di costituzione” (erano 68 l’anno prima), molti dei quali nell’Italia meridionale e con forti adesioni popolari, come – e l’oratore ci tiene ad evidenziarlo –  a Sperlinga, in provincia di Enna, dove il Fascio ha 100 soci, dei quali molti aderenti alla Lega dei contadini.

A questi dati puramente numerici, va aggiunto l’allontanamento dei futuristi, il diradamento dell’Associazione Arditi (lo stesso Ferruccio Vecchi se ne chiamerà fuori), l’assenza, in sede locale, di molti degli elementi più attivi, attratti dalla chimera fiumana, dove parecchi si recano in cerca di azione.

Modesta consolazione è l’assalto alla Camera del Lavoro bresciana, in occasione dello “scioperissimo” di luglio, organizzato dal diciottenne Alessandro Melchiori (che, per questo sarà costretto a mesi di latitanza in val Seriana), e la  – di poco precedente – manifestazione triestina conclusasi con l’incendio del Balkan.

Questa, comunque, più che un’azione squadrista in senso proprio, va considerata come il frutto di una iniziativa di popolo, di quel popolo triestino indignato per l’uccisione di quattro Italiani (due a Spalato il giorno 11 e due in piazza, in occasione della manifestazione) e vittima di un’offensiva slavista rinvigorita dalle difficoltà interne ed internazionali dell’Italia.

E’ folla senza distinzione di appartenenza quella che muove, dopo uccisione del giovane Ninni, da piazza Unità alla sede del Novorsti Dom, anche se in prima fila ci sono le squadre fasciste, da poco formate in città, su iniziativa del fiorentino Giuseppe Giunta, contro il nemico straniero arrembante e il tradizionale nemico interno costituito da un sovversivismo quanto mai insidioso.

Si può ben dire che la partenza da Firenze di un Capo carismatico che è anche “fascista d’azione” (come normalmente si dice) rappresenti una grave perdita per il capoluogo toscano, destinata ad avere conseguenze sullo stesso sviluppo del movimento mussoliniano in città.

In meno di due anni si alternano, alla guida del Fascio – in genere per brevi periodi –  ben otto segretari, “di fatto” o nominati secondo regole statutarie.

Alla brevissima (2 mesi) stagione del fondatore Gastone Gorrieri seguono quelle altrettanto evanescenti di Pietro Carrer, Eduardo Frosini, Fernando Agnoletti e Ezio Lascialfare, tutti personaggi che saranno ancora presenti, a diverso titolo, nel fascismo fiorentino, pure nei mesi successivi (e oltre: Gorrieri, per esempio, lo ritroveremo in RSI, Capo ufficio Stampa della “Muti”) ma che si dimostrano non in grado di “costruire” qualcosa di serio e di duraturo.

Ciò, mentre una, sia pur modesta, presenza in piazza è affidata a uomini capaci, la cui autorità è riconosciuta dalla base pre-squadrista, ma ai quali manca qualcosa per diventare veri Capi, con autorità anche all’esterno.

E’ il caso di Amerigo Dumini, “vero fondatore materiale del fascismo toscano”, secondo Umberto Banchelli, che gli sarà compagno fin dall’inizio, Bruno Frullini e Pirro Nenciolini (poi arriverà anche Tullio Tamburini) , ai quali, sia pure con alterne vicende, si contrappone Dino Perrone Compagni, capace, a differenza loro, di guadagnarsi la stima e la fiducia degli ambienti militari, medio-alto borghesi e anche aristocratici (che a Firenze sono una realtà che “conta”).

Di contro, la realtà variopinta dell’umanità che poi si organizzerà in squadre è fatta, in maggioranza, di gente minuta che lì si trova a suo agio, in nome di un naturale interclassismo e solidarismo ideale che ripete i moduli della comunità del fronte, soprattutto tra i Reparti Arditi della prima linea, dove raffinati intellettuali e politici come Mario Carli e Giuseppe Bottai convivevano con rudi “uomini d’arme” come Albino Volpi.

La testimonianza di Mario Piazzesi è, al solito, illuminante:

Abissi dovevano esistere, per esempio, tra “Il Pascià” e Francesco che pure discutevano fitto fitto nell’angolo. Abissi morali, abissi di educazione, di ambiente, eppure la violenza fatta persona dell’uno, tozzo, sanguigno, con un sacco di nastrini sulla divisa di Ardito, che accusavano in lui il vero “homo d’arme” sembrava legare con la figurina sottile del figlio unico cresciuto nella bambagia e viziato dalla coccolatura del parentado.

Abissi pure tra il professore di matematica –quello che mi aveva firmato la domanda, bell’ormai lontano 1920, sempre in mezzo alle nuvole, raffinato esteta alla Oscar Wilde, e quel tanghero del tabaccaio di sotto i portici, di Beppe, lavandaio, cialtrone che intontiva col suo vocione sguaiato (1)

Né diversa è il senso di un’altra testimonianza, nel fascicoletto dedicato al ricordo di Dante Rossi, una delle vittime di Foiano, che sottolinea la considerazione della quale i più umili erano oggetto da parte dei giovanissimi “borghesi”:

Nel semplice, sereno volto dei Caduto ravvisiamo quello di tanti altri che, come lui, popolani, operai, contadini, artigiani, ci furono compagni nelle ore della vigilia e della lotta.

Cari, indimenticabili compagni: la loro pacata fermezza, esercitata nella dura fatica dei campi e delle officine, faceva riscontro alla scapigliata baldanza di noi giovani studenti, e con essa mirabilmente si armonizzava.

Per questi semplici, umili camerati, noi nutrivamo già un sentimento ancor più profondo del cameratismo che nasce dal pericolo affrontato insieme, gomito a gomito; intuivamo forse, sin da allora, il valore della presenza nelle nostre formazioni di combattimento, di questi figli del popolo, che con noi marciavano sul cammino della Rivoluzione. (2)

È uno stato d’animo diffuso, confermato anche da altre fonti, tal che l’ingeneroso sfogo di Banchelli, oltre che controcorrente, appare fuor di misura, frutto della caratterialità dell’Autore, sempre “borbottone”, del particolare momento nel quale fu scritto, di grande difficoltà per il “Mago”, oltre che di una sfrontata e “fiorentina” faziosità, che, però, in questo caso appare assolutamente esagerata:

Occorre ben ricordare che i barbogi (intende i medio-borghesi ndr) e i loro clienti e i loro figli erano entrati nel Fascio con i loro scopi particolari, uno fra tanti, quello di esercitare la giustizia di classe, cioè punire non come fascisti, ma come figli dell’avvocato, del dottore, del fornitore, ecc.

Ne derivò che per molto tempo bastava che uno stuolo di questi incontrassero gente vestita da operaio, perché i giustizieri picchiassero di santa ragione. Avevano anch’essi una concezione eguale a quella dei comunisti che avevano picchiato ed assassinato gente decentemente vestita. Strana ma logica conseguenza di due forze negative che devono scomparire o rinnovarsi.

Appena i pochi barbogi e i loro clienti e figli si trovarono a contatto con la forza, fecero come i loro fratelli maggiori al fronte: se la svignarono gridando. “Viva l’Italia, viva Fiume!” (3)

Da prendere, quindi, con le dovute cautele Banchelli, che è contraddetto da un giovanottello di buona famiglia, che non entra nel Fascio con alcuno “scopo particolare”, se non quello di rivendicare il diritto di sognare e volere un’Italia diversa, che non “se la svigna”, e, quando occorre, non esita a fare a cazzotti, a randellate e a pistolettate con gli avversari, fianco a fianco col fornaio e col muratore. Lo ricorderà, con nostalgia, anni dopo:

Nello squadrismo abbiamo trovato la bella atmosfera nella quale tanto il vestito elegante quanto il vestito stracciato stavano accanto senza vergognarsi l’uno dell’altro, anzi, sentendo la gioia di essere insieme, diversi ed uniti…Mi monta il sangue alla testa quando un tipo “distinto”, venendomi a parlare alla casa del fascio, mi porta, quale elemento di giudizio in una faccenda, un’allusione come “noi persone dello stesso ceto”, “fra di noi” ….

Alla casa del Fascio non c’è né ranghi né ceti, c’è l’uguaglianza dei fascisti, c’è la fraternità squadrista…La fraternità fascista è un principio concreto e quotidiano, da applicare in ogni minimo atto della vita politica, da applicare, vorrei dire, fin nei gesti e nello stato d’animo. Benvenute nel fascismo tutte le categorie, ma abbasso tutte le caste. (4)

Questa carrellata di testimonianze e giudizi sulla componente umana del primo fascismo (comune, peraltro, a molte città d’Italia, anche se a Firenze particolarmente “tipicizzata”) ci consente di introdurre un discorso di carattere più generale.

Alla base vi è l’intuizione defeliciana che la dimensione migliore per parlare della vigilia squadrista è quella localistica, influenzata da situazioni locali e da Capi che difficilmente estendono la loro popolarità e influenza “effettive” oltre limitati confini.

Alle origini, il fascismo più “politico” è certamente quello milanese, dove il vertice che ruota intorno a “Il Popolo d’Italia” e al suo fondatore è l’unico in grado di dare, anche per i collaudati precedenti – in larga maggioranza di estrazione socialista e sindacal-rivoluzionaria – una prospettiva al movimento.

Il più “nazionalista” è quello triestino, per ovvie ragioni geografiche, storiche e tradizionali, che ben presto trovano in Francesco Giunta ancorchè, come si è detto, fiorentino –  il loro interprete ideale.

Il più “forte” è quello emiliano, sull’asse Bologna-Ferrara, con una più marcata predisposizione politica nel capoluogo di Regione, dove Leandro Arpinati e Dino Grandi, con “L’Assalto” sono i migliori interpreti dell’animo degli uomini in camicia nera, fino a mettere in difficoltà lo stesso Mussolini. A Ferrara, nel contempo, è Italo Balbo ad emergere, con le sue capacità organizzative e “militari”, che gli permettono di far sfilare davanti al Capo, già ai primi di aprile del 1921, ventimila uomini…quando l’intero movimento ne conta ottantamila scarsi in tutta Italia,

Il più “squadrista” è, però, quello fiorentino: poco politico e molto fazioso, violento e amante della beffa, guascone e rivoluzionario, al punto che, non a caso, non esprimerà nessuna personalità di rilievo del Regime, perché i citati Dumini, Banchelli e Frullini non sono “spendibili” dopo il 28 ottobre, Perrone Compagni ha dei limiti evidenti, e Pavolini è solo un ragazzo.

Manca all’appello Nenciolini, ingegnere (il che lo colloca un po’ “fuori quadro” rispetto ai suoi primi compagni d’avventura, popolani fin quasi ad essere “plebei”) ma con un animo ottocentesco, victorhughiano, verrebbe di dire. Sposerà, fino ad assicurarne la tutela in Tribunale, la causa degli umili parenti delle vittime dell’esplosione della polveriera di San Gervasio, e, soprattutto, si batterà, per i contadini, contro gli agrari della sua Signa, fino a pagare con la vita questa ostinazione. L’8 febbraio del 1923 verrà infatti ucciso a pistolettate, sulla piazza della cittadina, da alcuni sicari (forse reclutati tra fascisti dell’ultima ora dai predetti agrari, infastiditi dalle sue iniziative).

Ci sono poi altri che, come Raffaele Manganiello (destinato a cadere vittima di un agguato il 14 settembre del 1944, mentre si sta recando a Torino per assumere l’incarico di Capo della Provincia) e soprattutto Tullio Tamburini (dopo una tempestosa navigazione “regimista”, sarà Capo della Polizia della RSI e poi arrestato dai tedeschi e deportato a Dachau), accrediteranno la tesi di un “Granducato di Toscana” insediato a Salò.

Fatta chiarezza su questa questione “geografica” sarà il caso, per chiudere questa premessa, di chiarire anche quella temporale.

Una diffusa, interessata versione vuole che la violenza squadrista propriamente detta sia durata per 4 anni, praticamente dal 23 marzo del 1919 al 28 ottobre del 1922.

Prima c’erano state intimidazioni e aggressioni “interventiste”, e dopo, il movimento fattosi Stato non mancherà di usare le maniere forti con gli oppositori, ma senza, nell’uno e nell’altro caso, quella continuità, che è la vera cifra distintiva dello squadrismo.

Con una precisazione, però. Nel “biennio rosso” di squadrismo non si può parlare, che tali non sono le reazioni di gruppi più o meno organizzati che nel migliore dei casi inseguono ideali nazionalistici e antibolscevichi, e comunque restano pur sempre cosa diversa dalle semplici iniziative egoistiche dei proprietari (agricoli soprattutto) contro le rivendicazioni degli umili sottoposti.

Questa diversità i fascisti ci terranno a marcare da subito:

Però il Congresso di Firenze conseguì un risultato politico-sociale di grande valore, che gli osservatori sagaci avranno fin da allora notato, ma che non appare dalla cronaca dei lavori e non è mai stato, prima d’ora, rilevato: esso seppellì definitivamente tutte quelle varie e svariate associazioni cosiddette antibolsceviche che s’erano andate formando in parecchie città dell’Italia settentrionale, per iniziativa o con l’aiuto del denaro degli elementi padronali agrario-industriali.

Il fascismo, è bene affermarlo perchè rimanga definitivamente e storicamente stabilito, non ebbe mai alcun contatto, nemmeno tattico, con queste associazioni di autentiche “guardie bianche”. (5)

Fanno eccezione l’incendio dell’Avanti a Milano il 15 aprile del 1919 e quello, già accennato, dell’Hotel Balkan a Trieste il 13 luglio del 1920.

Nell’intervallo non vi è praticamente niente.

È solo nell’ultimo quadrimestre del 1920 che la situazione comincia a mutare.

Per una singolare coincidenza, Firenze e Bologna vengono alla ribalta della scena nazionale quasi in contemporanea, nell’ottobre del 1920, e iniziano una storia diversa ma destinata anche ad intrecciarsi nel quadriennio rivoluzionario, come vedremo.

FOTO 1: Montespertoli nel 1920

FOTO 2: la squadra fiorentina “Dante Rossi”

NOTE

  1. Mario Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano, Roma 1980, pag. 130
  2. Riccaro Melani, Dante Rossi, Firenze 1938, pag. 9
  3. Umberto Banchelli, Le memorie di un fascista, Firenze 1922, pag. 17
  4. Alessandro Pavolini su Il Bargello del 25 gennaio 1931 (riportato in: Massimiliano Soldani, L’ultimo poeta armato, Cusano Milanino 2012, pag. 46
  5. Luigi Freddi, Pattuglie, contributo alla storia del fascismo, Roma 1929, pag. 84

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *