14 Aprile 2024
Intervista Paganesimo Valentini

Ereticamente intervista il prof. Beniamino Di Dario

Cenni bio-bibliografici

Originario di quell’Appennino osco-sannita cui sarà sempre indissolubilmente legato, si forma attraverso letture tanto vaste e intense, quanto precoci ed eterogenee: Stirner e la letteratura europea, Nietzsche e Mishima, l’esoterismo e gli autori classici. Negli anni universitari, l’apertura verso gli orizzonti del tradizionalismo e della ‘rivoluzione conservatrice’– mediata dal determinante incontro con l’opera di Julius Evola – si unisce agli interessi storico-religiosi, in particolare verso il mondo italico-romano. È questo il periodo in cui collabora alla rivista «La Cittadella», alla quale contribuisce con alcuni scritti, tra i quali si segnala Il culto di Giove nella Capua preromana(1998).

La laurea in Lettere, conseguita con una tesi in Storia della Filosofia su Evola e la religione romana, di cui è relatore il prof. Piero Di Vona, segna l’inizio della collaborazione con le Edizioni di Ar. Queste ultime pubblicano infatti, nel 2001, una versione riadattata della tesi, dal titolo La via romana al Divino. Julius Evola e la religione romana. Gli studi successivi sono tutti dedicati alla tarda antichità: Il Sole Invincibile. Aureliano riformatore politico e religioso (2002); La ‘Notitia Dignitatum’. Immagini e simboli del tardo Impero (2006); Il Divino Giamblico (2012). Nel frattempo, partecipa ad alcuni volumi collettivi, tra cui Il Gentil Seme. L’idea di Europa: radici e innesti (2004).

 Attualmente vive in Piemonte, dove è Docente di Lettere e Storia negli Istituti Superiori e si sta dedicando a studi di storiografia e filosofia della storia.

 

Intervista a cura di Luca Valentini

  1. Cortese prof. Di Dario, Lei è noto nell’ambito della pubblicistica tradizionalista per i testi editi dalle benemeriti Edizioni di Ar. Può dirci come è venuto in contatto con le suddette Edizioni e soprattutto col mondo ideale e culturale che rappresentano?

Devo al mio mentore, il professor Piero Di Vona, l’avermi presentato alle Edizioni di Ar. Chi conosce le Edizioni, sa che esse non sono una semplice casa editrice ma rappresentano, appunto, un mondo ideale e culturale. A tal proposito, devo altresì al professor Di Vona l’avermi prospettato l’inevitabile ‘coloritura politica’ che, indipendentemente dai contenuti, l’eventuale pubblicazione avrebbe assunto. Incurante, allora come ora, di ogni ‘colore’ politico – mera suddivisione spaziale nata in un’epoca già di estrema decadenza – presi contatto con le Edizioni per avviare la collaborazione. Innate consonanze, presto sublimatesi in ‘consanguineità’, hanno segnato il cospicuo tratto di strada percorso insieme.

Non solo, infatti, le Ar mi hanno dato asilo, consentendomi di scrivere di argomenti a me cari senza alcun tipo di pressione o tentativo di influenza, ma sono state per me una scuola: il ‘portamento aristocratico’, non soltanto nello stile scrittorio (anche se, per la mia formazione letteraria più che filosofica, ciò risultava di non poco conto); l’importanza dell’ascendenza etimologica; la distanza terrifica delle ‘idee senza parole’. E poi l’attenzione meticolosa al particolare, fin dai testi e dalla loro veste grafica: è rarissimo rintracciare un refuso nei volumi Ar.

  1. Circa i suoi libri, due hanno animato particolarmente il dibattito culturale, quello su Evola e la via romana al Divino e l’ultimo sul neoplatonico Giamblico. In riferimento al primo, come risponde al alcune accuse ricevute di aver “accademizzato” il pensiero di Evola e la religione romana, snaturandone la profondità sacrale degli stessi?

Sono particolarmente legato ad entrambi i libri: il primo e l’ultimo in ordine di tempo. Al di là di tutto quello che un Autore può sostenere, le vicende della propria vita influenzano temi e scrittura: ognuno ha le proprie ‘fasi’ e quella che Evola chiamava ‘equazione personale’. Altro è il libro della gioventù, altro quello della maturità. Lo studio su Evola e la religione romana è il libro dei Vent’anni, quello su Giamblico è il libro dei Trenta. Quello dei Quaranta sarà probabilmente molto diverso da entrambi, vicino a ciò che da tempo immemorabile mi appassiona: storiografia, filosofia e ‘metafisica’ della storia.

Per tornare alla domanda, molti dimenticano o non sanno che questo saggio è l’adattamento della mia tesi di laurea. L’approccio non poteva non essere ‘accademico’. Cambiarlo sarebbe equivalso a stravolgerlo. Inoltre, lo ribadivo nella Premessa, gli scritti di Evola appartengono alla storia del pensiero e come tali possono essere studiati. Il filosofo siciliano non ha suggellato il suo sapere in simboli esoterici, ma ha pubblicato libri che tutti possono acquistare e leggere. Chi cerca interpretazioni ‘sacrali’ ed esoteriche può trovarne altrove senza difficoltà. Se poi ci decidessimo ad intendere la filosofia nel suo senso vero e originario, questi mondi non apparirebbero così separati.

La ‘sacralità’ non può diventare l’alibi dell’indeterminatezza e dell’ambiguità.

  1. Sempre nello scritto su Evola, spesso Lei riprende il termine “dualismo” per esprimere e criticare la concezione del filosofo romano in merito alla natura interna di alcune civiltà del passato. Non era, forse, più idoneo, anche in riferimento al quarto principio ermetico espresso nel Kybalion ed all’opposizione evoliana (ripresa dal Bachofen) tra spiritualità solare e lunare, utilizzare il concetto di polarità, come espressione, di modalità diverse di un’unica espressa del Sacro?

Chi studia il pensiero di Evola finisce sempre, per tutta una serie di motivi, col cacciarsi in un ginepraio. Una volta c’erano gli ‘evolomani’; ora molti, con una ‘coazione a superare’ del tutto moderna, credono di dover superare anche il filosofo siciliano, pur avendolo letto poco e male. Io ritengo che esista per ogni Autore una parte viva e una parte caduca, legata alle contingenze temporali e culturali in cui esso si è mosso. Mia intenzione non era criticare Evola, bensì mostrare come taluni aspetti delle sue dottrine fossero figli di una determinata temperie culturale e come in alcuni casi finissero col diventare strutturali (le antitesi di Bachofen, ad esempio). Ritornando al problema del dualismo evoliano, credo che esso non possa essere risolto su un piano dottrinario e dialettico: altri, ben più saggi di me, hanno mostrato come un tale principio sia difficilmente conciliabile con quello della non-dualità da Evola stesso in altre opere enunciato. Ma pur se si decide di restare su un piano ‘sacrale’ e ‘tradizionale’ ciò non esime, lo ribadisco, dalla chiarezza nell’enunciazione di principii.

  1. Altro e recente testo, che ha alimentato plausi e perplessità, è quello dedicato alla figura di Giamblico. Ritiene che il suo studio abbia ricevuto, da parte dei commentatori, tutte le attenzioni che merita un approfondimento di tale importanza?

Non esisteva, in Italia, una monografia su Giamblico, così come non esistevano una monografia sull’imperatore Aureliano e una sulla Notitia Dignitatum. Va dato atto alle Edizioni di Ar di pubblicare volumi di pregio dei quali forse un giorno si scoprirà l’importanza. Per quanto mi concerne, constato che tutti questi lavori – pubblicati, per citare il professor Di Vona, nell’umana illusione che un giorno vengano tratti da una biblioteca polverosa – sono passati pressoché sotto silenzio.

In effetti, mi avrebbe meravigliato il contrario. Il panorama culturale è desolante, quando non ridotto, specie in Italia, a una penosa pantomima fatta di incensamenti reciproci e ospitate televisive.

Si scrivono libri o per la plebe, o per le accademie, che della plebe sono quasi sempre il distillato.

Chi non scrive per l’una o per le altre, ‘si dà la zappa sui piedi’ e si condanna all’oscurità, pur sapendo di assumere la sola posizione logica e coerente possibile. Le uniche voci autentiche – astruse per la plebe, dilettantistiche per l’accademia – vanno ricercate nelle figure neglette che si isolano disgustate a contemplare tutto ‘da un’enorme altezza’, per usare un’espressione dell’Imperatore Filosofo. Mi vengono in mente Spengler, l’«eremita di Schwabing»,e Gomez Davila, l’«ilustre desconocido». Qualche settimana fa la morte del Cioran italiano, Manlio Sgalambro, ha fatto sì che qualcuno scendesse dall’alto dei bastioni del mondo accademico, verso cui il filosofo catanese aveva sempre nutrito un cordiale rigetto, per affrettarsi a tributare la ‘genuflessioncella d’uso’.

  1. Nel leggere tale libro sul Divino Giamblico, a cui abbiamo fatto lodevolmente riferimento in uno nostro articolo su Vie della Tradizione, abbiamo, però notato alcune criticità, che speriamo Lei voglia chiarirci. La prima è inerente ad una presunta e radicale opposizione di Plotino e Porfirio, rappresentanti di una visione filosofica, nei confronti di Proclo e soprattutto di Giamblico, che si riferivano ad una realizzazione più teurgica che intellettuale, in palese contrasto con un Pierre Hadot, per esempio, che intravede nel neoplatonismo, al contrario, una koinè organica, espressione di una Conoscenza Unica. Cosa può aggiungere in merito?

E’ innanzitutto importante notare che una simile opposizione, non ‘presunta’ né ‘radicale’, era già ben chiara agli antichi (Olimpiodoro, ad esempio, ma non solo). La stessa Pizia definì Porfirio ‘molto dotto’, ma Giamblico ‘divinamente ispirato’. Ciò non vuol dire che il Siriaco sia meno ‘filosofico’; chi mi ha seguito, anzi, ha scoperto che egli è più ‘platonico’ di Plotino. Né possiamo dimenticare che il De Mysteriis è una confutazione di Porfirio.

Certo oggi è più facile vedere come davvero il ‘neoplatonismo’, preso nel suo insieme, rappresentasse una koinéorganica, ma non dobbiamo trascurare che al suo interno esisterono profonde differenze. Va dato atto allo Shaw, ad esempio, l’aver mostrato in via definitiva come la filosofia di Plotino portata alle sue estreme conseguenze conduca al solipsismo del saggio e alla ‘fuga da solo a Solo’, mentre quella di Giamblico sia agevolmente declinabile in campo politico-religioso. A ben vedere, le dottrine di Plotino e Porfirio affossano i culti tradizionali, rendendoli superflui, mentre quelle di Giamblico li dotano di una potente base speculativa. Del resto, Giuliano venerò Giamblico e non Plotino, e non è difficile comprenderne il perché. Plotino, invece, che qualcuno ha definito Plato dimidiatus proprio per la mancanza di una componente politica nelle sue dottrine rispetto a Platone, suscitò e suscita tuttora le simpatie dei cristiani…

Non va neanche dimenticato che, lo si voglia o no, noi viviamo in una cultura marginale e periferica: studi come quelli dello Shaw, del Dillon o del Dalsgaard non sono mai stati tradotti. Io stesso, sia per lo studio sulla Notitia sia per quello su Giamblico ho dovuto far ricorso alla lingua d’Albione per confrontarmi con studiosi internazionali.

  1. La seconda criticità che abbiamo scorto nel suo testo su Giamblico è la sibillina quanto sorprendente affermazione che la dimensione teurgica espressa dallo stesso poco possa essere accostata al mondo della magia e dell’ermetismo alessandrino. Non trova che, in primis, proprio gli scritti di Giamblico ne I Misteri Egiziani, coi vasti riferimenti alla mistagogia iniziatica egizia, e poi uno studio come “Le origini dell’Alchimia nell’Egitto greco-romano” di Jack Lindasay abbiano sancito l’esatto contrario?

La temperie alessandrina nella tarda antichità rappresenta una realtà straordinariamente ricca, ma anche una sorta di ricettacolo nel quale è possibile rintracciare di tutto. La Scuola di Alessandria è stata per il Platonismo di estrema importanza, e lo stesso Giamblico ha probabilmente trascorso un lungo periodo in questa città, una delle capitali della cultura, dall’ellenismo a tutta la tarda antichità.

L’ermetismo pone un’ulteriore questione e il rapporto del filosofo siriaco con esso rimane molto complesso, nonostante innegabili affinità. Nel libro parlo infatti di ‘tangenze’: Giamblico non fa mai riferimento ai suoi scritti come al frutto di divine rivelazioni e la sua opera più ‘ermetica’, il De Mysteriis, non mostra alcun intento soteriologico. Dobbiamo altresì ricordare che anche stabilire se elementi autenticamente egizi siano confluiti in ambito ermetico è problematico: l’«Egitto» del tardoantico è l’«Egitto» mediato dall’ellenismo. La ‘magia’ pone ancora un altro problema, perché il fraintendimento più comune, che la vede capace di ‘costringere’, ‘manipolare’ o ‘legare’ forze superiori, è decisamente rifiutato da Giamblico. Al di là delle apparenze e dei fraintendimenti ‘occultistici’, egli rimane un filosofo nel vero senso del termine, del quale andrebbe sottolineata la ‘grecità’ (meglio, il Platonismo).

  1. In riferimento sempre al medesimo tema, ci ha sorpreso come, proprio in tema di Teurgia e Tradizione Platonica manchi nel testo ogni riferimento ad autori che nel ‘900 tale connessione hanno sviluppato magistralmente, come Evola e Kremmerz, affidandosi a fonti accademiche che per la loro tecnica d’analisi nella prima parte dell’opera sembrano essere giustamente criticate. Può chiarire ciò che ci è sembrato – forse erroneamente – una contraddizione.

Non direi che gli studi accademici su Giamblico siano stati da me criticati in toto, quanto piuttosto un particolare pregiudizio razionalistico. Ho citato, infatti, già nel primo capitolo, opere che hanno rivalutato in pieno Giamblico, quasi solo all’estero. Ma qui dovremmo tornare al discorso della marginalità italiana di cui si è detto. In realtà, ho cercato quanto più possibile di ricorrere direttamente ai testi giamblichei, evitando proprio quelle concrezioni spiritualistiche e occultistiche (e non mi riferisco ai due Autori da Lei citati) che a partire dal Rinascimento hanno sovrastato ogni altro tipo di interpretazione finendo con il far dire al Siriaco molte più cose di quante in realtà ne avesse detto e molte meno di quelle per cui era famoso nell’antichità, alimentandone la fama, erronea, di pseudo-filosofo oscurantista e superstizioso. Se quindi da un lato ho escluso la schizofrenia razionalistica di certa accademia, dall’altro ho volutamente tralasciato l’interpretazione ‘occultistica’ di Giamblico. Se infine non ho trattato lo svolgimento dato dagli Autori da Lei citati alla teurgia e alla tradizione platonica è perché ciò mi avrebbe davvero spinto troppo oltre: l’argomento è affascinante, ma dovrebbe essere oggetto di un altro e diverso libro.

  1. Ha poi anche pubblicato, sempre per le Edizioni di Ar, un valente studio sulla figura dell’imperatore Aureliano e la connessa Teologia solare dell’Impero. Può avere tale tematica, insieme ai riferimenti che Lei e un Stefano Arcella effettuate coi Misteri di Mithra, rappresentare una rinnovata linfa, non solo libresca, nell’ambito di un recupero della Tradizione Classica?

Sic stantibus rebus, eventuali recuperi che non siano ‘libreschi’ o eruditi mi appaiono estremamente difficili. Certo, lo studio su Aureliano, gli altri che Lei cita, insieme ad altri ancora (io aggiungerei anche Giuliano Imperatore di Nello Gatta), mostrano che la ‘teologia solare’ nel tardo antico fu probabilmente un sistema articolato e non un coacervo di episodi sincretici isolati.

Tuttavia, bisognerebbe comprendere quale fu lo spirito che, consapevolmente o meno, animò tali tentativi. Ma ciò non può essere fatto se prima non si risponde a determinati quesiti, evidentemente destinati a restare insoluti: si trattò di una sintesi feconda, pensata per avere sviluppi, o fu un compendio legato al momento terminale vissuto dal mondo antico? In altri termini, siamo di fronte a un discorso interrotto o alla ricapitolazione conclusiva?

Detto questo, rimango del tutto scettico rispetto a qualsiasi forma di ‘restaurazione’ o rinascita pagana. Non intravedo alcuna possibilità in tal senso: bisognerebbe piuttosto pensare a tenere accese poche lucerne passandole di mano in mano nella notte che ormai è sopravvenuta. E noi sappiamo che chi alimenta la lucerna non deve avventarsi contro le tenebre. Per dirla con Marco Aurelio: «L’errore? Lascialo dov’è».

  1. Nelle suddette pubblicazioni si nota chiaramente una sua predilezione per il mondo elleno-romano arcaico. Tale vicinanza è una pura passione di studio oppure investe – nel massimo rispetto e con la riservatezza dovuta delle sue scelte personali – anche una dimensione individuale e quindi di pratica spirituale?

Una possibile risposta è nell’introduzione al testo su Giamblico, Le anime antiche, dove parlo di ‘vocazione’. Posto che non sia possibile aderire al cristianesimo, per una serie di motivi la cui esposizione ci porterebbe troppo oltre (sostanzialmente, esso nella sua essenza costituisce un elemento spurio e allogeno rispetto alla cultura occidentale), in base a considerazioni di ordine differente andrebbero escluse altre tradizioni degne del massimo rispetto, quali quelle orientali.

Avvicinarsi a una tradizione implica uno studio, una meditazione, un ‘raffinamento’ lunghissimo e dall’esito incerto (impensabile, tra l’altro, senza l’appropriazione della lingua): non basta che i Buddha vadano ‘sopra i comodini’, come cantava Battiato. Le tradizioni non si scelgono perché carine, affascinanti, appaganti o apparentemente consone al proprio ‘io’. Cos’è il proprio io, senza il ‘Conosci te stesso’?

Il solo mondo al quale possiamo fare riferimento con la speranza di comprenderlo rimane di fatto quello greco-romano. A livello di pratica cultuale, è sopravvissuto pochissimo, per cui si tratta di un recupero complesso e fortemente problematico. Rimango tuttavia fermamente convinto che tutto quanto ci sia da sapere l’Occidente lo abbia già espresso, per di più nella forma a noi più consona.

Potremmo concludere dicendo che una scelta simile risulta controversa e altamente difficoltosa, ma resta pur sempre l’unica possibile.

Chi poi si prendesse l’impegno di meditare il Trattato sui concetti trascendenti del Di Vona, potrebbe scoprire che è pensabile una ‘via di elevazione’ del tutto metafisica e occidentale.

    1. Infine, nell’ambito di tali riferimento arcaici, come giudica tutti i fermenti associazionistici attuali volti ad un recupero fattuale del mondo sacrale della Paganitas? La ringraziamo per il tempo che ha voluto dedicare a Ereticamente.

    Considero tali fenomeni – qualora non disgiunti da un orientamento serio e sorretti da un minimo di speculazione – sempre in maniera positiva. Io stesso, quando ero molto giovane, sono stato vicino al ‘tradizionalismo romano’ oltretutto collaborando, come qualcuno ricorderà, alla rivista «La Cittadella» diretta dal Ruta. In questi ambienti figurano persone senza ombra di dubbio serie e preparate, degne del massimo rispetto.

    D’altro canto, ritengo che simili ‘fermenti’ siano – soprattutto in determinate aree geografiche – sempre presenti e legati al discorso della ‘vocazione’, della ‘chiamata’, al quale si è or ora accennato. Il fenomeno oggi è forse accentuato dalla velocità degli attuali mezzi di comunicazione, che allo stesso tempo lo rendono però più labile ed effimero: basti pensare a come venti o trent’anni fa non fosse così immediato procurarsi determinate pubblicazioni. Pur avendo perso il contatto con le ‘nuove generazioni’, ipotizzo che il quadro non sia cambiato. Nonostante le persone serie, il rischio che vi siano delle derive è sempre notevole. Così come altissimo è il pericolo che si scivoli nella ‘seconda religiosità’ di spengleriana memoria o nella ‘masquerade’ stigmatizzata da Guénon.

    In definitiva, e per riprendere la domanda precedente, il discorso si ricollega a quello delle ‘anime antiche’ delle quali parlo nella Introduzione poc’anzi citata. E mi farebbe piacere concludere, a tal proposito, con la celebre immagine del soldato di Pompei citato da Spengler: travolto in armi dalla lava del Vesuvio perché ci si dimenticò di scioglierlo dalle consegne.

4 Comments

  • Anonymous 7 Maggio 2014

    Una bellissima intervista! L’ho letta davvero con grande piacere!
    In primo luogo, mi sento in dovere – probabilmente a causa della ‘vocazione’ cui si accennava – di complimentarmi e di incoraggiare il prof. Di Dario: è vero, la scena italiana può talvolta apparire desolante, soprattutto dal punto di vista dell’interesse dimostrato verso le tematiche filosofiche. Il professore afferma di non essersi stupito di fronte alla scarsa reazione suscitata dalla pubblicazione di testi tanto significativi: al contrario, io non riesco a non provare un grande stupore, dal momento che la vera Filosofia è causa per i viventi di tutti i beni e del conseguimento di ciò che è realmente buono e giovevole ad ogni livello, dal più alto e misterico (le ‘visioni’ descritte nel Fedro) fino “agli ultimi livelli del reale”. Stando così le cose, trovo davvero assurdo che gli esseri umani contemporanei, per la maggior parte, volgano le spalle alle dottrine divinamente ispirate per affidarsi alla mera opinione e alla via che richiede meno fatica! Sempre per lo stesso motivo, ritengo che sia vitale offrire un esempio antitetico, in modo da risvegliare i dormienti non solo a parole, ma con l’esempio appunto, e con la dedizione costante, nonostante le condizioni avverse: a ben vedere, è esattamente la lezione che ci hanno insegnato i Maestri! Inoltre, ritengo che la vera Filosofia sia l’unico antidoto ad una rinascita delle Tradizioni in forma di mascherata, con ragazzini che pensano che rivolgere inni agli Dei sia ‘di moda’ (questo è il mio più grande timore in proposito!). Se, al contrario, riusciremo a trasmettere alle nuove generazioni l’idea che “fare filosofia e venerare gli Dei” non sono e non possono essere due cose distinte, allora penso che potremo finalmente guardare con maggior speranza e fiducia ai frutti futuri che nasceranno dai ‘fermenti’ attuali…

  • Anonymous 7 Maggio 2014

    Una bellissima intervista! L’ho letta davvero con grande piacere!
    In primo luogo, mi sento in dovere – probabilmente a causa della ‘vocazione’ cui si accennava – di complimentarmi e di incoraggiare il prof. Di Dario: è vero, la scena italiana può talvolta apparire desolante, soprattutto dal punto di vista dell’interesse dimostrato verso le tematiche filosofiche. Il professore afferma di non essersi stupito di fronte alla scarsa reazione suscitata dalla pubblicazione di testi tanto significativi: al contrario, io non riesco a non provare un grande stupore, dal momento che la vera Filosofia è causa per i viventi di tutti i beni e del conseguimento di ciò che è realmente buono e giovevole ad ogni livello, dal più alto e misterico (le ‘visioni’ descritte nel Fedro) fino “agli ultimi livelli del reale”. Stando così le cose, trovo davvero assurdo che gli esseri umani contemporanei, per la maggior parte, volgano le spalle alle dottrine divinamente ispirate per affidarsi alla mera opinione e alla via che richiede meno fatica! Sempre per lo stesso motivo, ritengo che sia vitale offrire un esempio antitetico, in modo da risvegliare i dormienti non solo a parole, ma con l’esempio appunto, e con la dedizione costante, nonostante le condizioni avverse: a ben vedere, è esattamente la lezione che ci hanno insegnato i Maestri! Inoltre, ritengo che la vera Filosofia sia l’unico antidoto ad una rinascita delle Tradizioni in forma di mascherata, con ragazzini che pensano che rivolgere inni agli Dei sia ‘di moda’ (questo è il mio più grande timore in proposito!). Se, al contrario, riusciremo a trasmettere alle nuove generazioni l’idea che “fare filosofia e venerare gli Dei” non sono e non possono essere due cose distinte, allora penso che potremo finalmente guardare con maggior speranza e fiducia ai frutti futuri che nasceranno dai ‘fermenti’ attuali…

  • Anonymous 7 Maggio 2014

    Ho inoltre letto con grande interesse quanto detto a proposito delle differenze fra i due ‘rami’ della ‘koinè neoplatonica’. Mi sento di affermare (essendo oggi anche l’anniversario della nascita del sommo Platone!) che una koinè effettivamente esiste, poiché ‘la catena aurea’ ha un ‘padre’ comune, Platone appunto, e soprattutto sono gli Dei ad essere comuni (da cui discende la “Conoscenza Unica”). E’ vero anche che esistevano certamente delle notevoli differenze fra gli esegeti, differenze riassunte perfettamente da Damascio: ‘scuola filosofica’ e ‘scuola ieratica’, ossia quella di Plotino e Porfirio da un lato, e quella di Giamblico e Proclo dall’altra. Non dimentichiamo però che si tratta appunto di esegeti “della suprema visione platonica”: è nelle dottrine di Platone che si ha la sintesi dei due ‘rami’, quello maggiormente basato sul nous e sulla dialettica e quello che maggiormente si affida all’ispirazione divina e alla pratica ieratica. E’ infatti Platone che “ha unito le due in una singola verità chiamando il filosofo Bacco.” Del resto, leggendo gli scritti di Proclo in particolare, si evince in modo luminoso non tanto la contrapposizione fra le due vie, bensì la successione gerarchica: per quanto lontano possano spingersi le intellezioni, la ricezione e la trasmissione delle dottrine platoniche sono sempre paragonate ad iniziazioni misteriche, ineffabili e ben al di sopra di qualsiasi divisione, in quanto è sempre l’henosis che domina nei livelli più alti. Pertanto, penso che si possa parlare di intento soteriologico anche nel caso di Maestri come Giamblico e Proclo, proprio perché quelle dottrine da loro trasmesse sono la ‘traduzione’ filosofica dei Misteri della Tradizione Ellenica- come dicevo in uno dei miei primi articoli per EreticaMente, solo così si spiegano sia la chiusura dell’Accademia sia tutte le ingiustizie subite dai filosofi ad opera dei cristiani, e molte altre cose spesso ignorate dai più.
    Mi fermo qui perché ho già occupato troppo spazio, anche se un’intervista simile meriterebbe molte altre considerazioni! Vorrei concludere con una riflessione: non riesco ad essere scettica riguardo ad una rinascita, non del paganesimo bensì dell’essere umano, e questo perché tutte le anime hanno in sé i ‘simboli’ e la conoscenza- è solo necessario distruggere l.’oblio e, scacciata l’ignoranza, far rifiorire il ricordo! Crizia infatti così saggiamente affermava che l’essenza dei nostri discorsi è Mnemosyne: le “noeriche parole dei Sapienti” risvegliano le memorie, e per questo la loro trasmissione, spiegazione e divulgazione sono un’opera bellissima, davvero “di forma simile al Bene”….!
    Grazie di cuore, e…buon lavoro!

    Daphne

  • Anonymous 7 Maggio 2014

    Ho inoltre letto con grande interesse quanto detto a proposito delle differenze fra i due ‘rami’ della ‘koinè neoplatonica’. Mi sento di affermare (essendo oggi anche l’anniversario della nascita del sommo Platone!) che una koinè effettivamente esiste, poiché ‘la catena aurea’ ha un ‘padre’ comune, Platone appunto, e soprattutto sono gli Dei ad essere comuni (da cui discende la “Conoscenza Unica”). E’ vero anche che esistevano certamente delle notevoli differenze fra gli esegeti, differenze riassunte perfettamente da Damascio: ‘scuola filosofica’ e ‘scuola ieratica’, ossia quella di Plotino e Porfirio da un lato, e quella di Giamblico e Proclo dall’altra. Non dimentichiamo però che si tratta appunto di esegeti “della suprema visione platonica”: è nelle dottrine di Platone che si ha la sintesi dei due ‘rami’, quello maggiormente basato sul nous e sulla dialettica e quello che maggiormente si affida all’ispirazione divina e alla pratica ieratica. E’ infatti Platone che “ha unito le due in una singola verità chiamando il filosofo Bacco.” Del resto, leggendo gli scritti di Proclo in particolare, si evince in modo luminoso non tanto la contrapposizione fra le due vie, bensì la successione gerarchica: per quanto lontano possano spingersi le intellezioni, la ricezione e la trasmissione delle dottrine platoniche sono sempre paragonate ad iniziazioni misteriche, ineffabili e ben al di sopra di qualsiasi divisione, in quanto è sempre l’henosis che domina nei livelli più alti. Pertanto, penso che si possa parlare di intento soteriologico anche nel caso di Maestri come Giamblico e Proclo, proprio perché quelle dottrine da loro trasmesse sono la ‘traduzione’ filosofica dei Misteri della Tradizione Ellenica- come dicevo in uno dei miei primi articoli per EreticaMente, solo così si spiegano sia la chiusura dell’Accademia sia tutte le ingiustizie subite dai filosofi ad opera dei cristiani, e molte altre cose spesso ignorate dai più.
    Mi fermo qui perché ho già occupato troppo spazio, anche se un’intervista simile meriterebbe molte altre considerazioni! Vorrei concludere con una riflessione: non riesco ad essere scettica riguardo ad una rinascita, non del paganesimo bensì dell’essere umano, e questo perché tutte le anime hanno in sé i ‘simboli’ e la conoscenza- è solo necessario distruggere l.’oblio e, scacciata l’ignoranza, far rifiorire il ricordo! Crizia infatti così saggiamente affermava che l’essenza dei nostri discorsi è Mnemosyne: le “noeriche parole dei Sapienti” risvegliano le memorie, e per questo la loro trasmissione, spiegazione e divulgazione sono un’opera bellissima, davvero “di forma simile al Bene”….!
    Grazie di cuore, e…buon lavoro!

    Daphne

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