19 Luglio 2024
Edizioni di AR Libreria

Epicuro, Coppola e la religione della vita – Silvia Valerio

La giornata si è aperta bionda e dorata; il sole rimbalza sui cruscotti delle auto, le mille finestre degli uffici, i tettucci di lamiera delle industrie. Bionda e dorata e violenta, con il caldo che ti prende già alla gola e ti mette al muro, gli insetti che scopri fermi, enormi, nelle loro uniformi da dinosauri. Eppure io sono felice, molto felice, perché ho appena finito di leggere un libro bellissimo, e mentre lo leggevo mi capitava di bagnarmi le caviglie nel Mediterraneo e di sorseggiare vino greco, guidata da un signore dalle labbra carnose e dagli occhi penetranti.

Vita di Epicuro

‘Vita di Epicuro’ è il libro che tutti quelli che hanno fatto studi classici avrebbero voluto leggere da ragazzini. E Goffredo Coppola è il professore che tutti avremmo voluto avere da ragazzini. Non solo per le labbra carnose e gli occhi penetranti, naturalmente. Lo avrei voluto perché nella sua scrittura intuisco molta vita, una vita fatta di severità, politica, lotta, guerra, morte e dolcezza, e tuttavia questa vita passa nella scrittura senza scoppi, urla e drammi, rimane in filigrana, come quella piccola ruga che gli increspa la guancia nelle fotografie, lasciando solo la dolcezza, e così dà un libro davvero “semplice e cordiale”, come lo definisce lui stesso, nella sua ‘Lettera ad un amico’ introduttiva. Quella di Coppola è una scrittura fatta di grazia ed equilibrio, di tante, tantissime immagini che ti portano a correre sotto i dodici ulivi sacri dell’Accademia, con il profumo di smilace addosso; a sederti davanti a Socrate, in carcere, mentre si gratta la gamba finalmente libera dalla catena, e su quella gamba organizza il suo ultimo pensiero; a provare sui polpastrelli la carne dei marmi di Atene, ad aprire un sileno nella bottega di uno statuario. È il tempo della filosofia, della retorica e delle guerre tra filosofi; del Democrito che insegnava a non desiderare, perché “se non desideri molto, le poche cose che hai ti sembreranno molte”, di Socrate, Platone, Aristotele, delle agorà e dei simposi. Epicuro non è di estrazione nobile. Figlio di un maestro, passa i primi anni educato nella sua scuola, e tanti nemici nel corso della sua vita si appelleranno spesso a questo particolare per screditarlo. Poi fa parte della scuola di Teo, dove Nausìfane legge Democrito. Si trasferisce ad Atene, insieme a Menandro, futura stella della commedia, per il servizio nell’efebia attica. Viaggia e studia. A pochi anni dopo risale il periodo della sua malattia: persi tre giovani fratelli, viene colpito da fortissimi dolori agli arti inferiori, non sopporta la luce del sole, è così magro che soffre il contatto con le vesti. Costretto all’immobilità e al buio, pensa. Alla vita, alla morte, alla natura, alla sofferenza. Al rapporto del dolore con l’uomo. Alla serenità luminosa che viene solo dalla conoscenza e da sola può dar senso a tutta una vita. Dal buio del male risorge finalmente sano, con un pensiero lucido e saldo come uno scudo da battaglia. Comincia così l’avventura sua e della sua scuola, attraverso polemiche e addirittura una fuga, simile a quella che era toccata ad Aristotele. Perché quella di Epicuro è una scuola davvero singolare, a suo modo rivoluzionaria: non elitaria, è aperta anche ai poveri e frequentata da donne, e si colloca agli antipodi rispetto a quei cattedratici che insegnavano ai giovani come capovolgere la realtà a loro piacere. Epicuro cerca l’essenziale; lo ha trovato in quella conoscenza disciplinata, sincera, pura, che porta alla serenità di chi non si aspetta nulla di più di ciò che non possa dare la vita stessa. Togliere all’uomo la possibilità di qualunque maschera e qualunque speranza: questo cerca.

“Sarà la saggezza il primo sostegno della felicità. Questa virtù pratica che è preferibile alla stessa filosofia è madre di tutte le altre virtù, le quali, del resto, ci insegnano che non si può essere felici se non si è saggi, se non si è onesti, se non si è giusti, e che giusti, onesti, saggi non si è senza essere anche felici. […] Ecco quello che voi mediterete notte e dì, da soli e con l’amico che più vi assomigli. Queste poche idee fondamentali stabiliranno la pace nella vostra anima, e nessun turbamento vi procureranno i sogni della notte o i pensieri del giorno, ma vivrete come un dio fra gli uomini, se è vero che non si somigli agli uomini, ma agli dèi, quando ci riesca di godere in continua beatitudine il riposo degli dèi…”.

Epicuro, quest’uomo dallo sguardo sereno e ironico, pieno di benevolenza, che ha trascorso la vita insieme agli amici e discepoli, senza rincorrere glorie e denaro, senza odiare i nemici, quest’uomo tanto calunniato che perfino noi uomini e donne di millenni dopo ancora lo immaginiamo come un viveur senza dio, intento ai piaceri e alle bellezze del suo giardino, è stato un uomo che ha vissuto davvero, ma perché non si è mai aspettato qualcosa in più rispetto alla vita. L’ha amata con grazia, con religione, con santità, con pienezza, fino alla morte.

Si può essere d’accordo o meno, con Epicuro. Si può non avere il dono di quella sua quiete tanto sicura. Si può essere dei dannati passionali che amano farsi trafiggere dalle cose, più simili a Teofrasto, forse, che, in fin di vita, aveva da lasciare ai suoi discepoli solo un “dolore profondo e bello”, tanto aveva guardato dentro il cuore degli uomini. “E non ti accorgi, Epicuro” gli diceva, “che gli uomini ti malediranno appunto perché non hai capito che il denaro vale per gli uomini assai più della bontà, assai più dell’onestà, assai più della bellezza, assai più dell’ingegno?”

Epicuro invece morì sereno, così come era sereno l’“amico che più gli assomigli”, Goffredo Coppola, il pomeriggio di quel giorno di aprile che fu fucilato sul lungolago di Dongo. “Il saggio non compone poesie ma vive la poesia”, scrisse Epicuro.

Ormai, quanti libri di oggi sono senza vita? Quanti giorni, quante notti, quante persone sono senza vita? In questa esile biografia ce n’è molta, di vissuta e di sottratta.

Allora smettiamo di fidarci di tutti i retori che ingombrano le nostre agorà, i nostri giornali, le nostre televisioni, dei nostri Gorgia da social network. Dei sofisti che nei licei e nelle università ci insegnano l’arte divertente del perdere qualsiasi certezza, dell’essere qualunque cosa e il suo contrario, di passare senza troppi pensieri da maschio a femmina e da femmina a maschio, di “questi predicatori che incedono in vestimenti ricchi e con la cattedratica pigrizia degli accademici”. Fidiamoci invece di chi senta che “l’educazione dei giovani è un rito religioso e che anche la scienza è religione”. Di chi scrisse questo libro tra una marcia e un colpo di cannone. Di chi non adoperi illusioni. Facciamoci insegnare da questi vecchi professori la religione della vita; impariamo a dire davvero il nostro grande sì a tutte le cose.

Silvia Valerio

silvia_valerio@libero.it

Estratti dal testo:

E come un uomo di questo mondo, come un piccolo uomo, Epicuro si mise in viaggio: il viaggio è lungo, e il mare così bello e sicuro di isola in isola, da Samo a Icaria, da Icaria a Mìcono e Delo, su per la piccola Siro e la minuscola Gìaro fino a Ceo, fino ad Atene. Allora il mondo era circoscritto al Mediterraneo, a questo mare violento e calmo, umano e sacro, dolce e amaro, che affidava l’uomo alle sue acque azzurre e cupe, alla tramontana torba, alle fresche ma non umide etèsie della notte e all’esecrabile chiaro scirocco. I Greci lo chiamavano il mare di casa, poiché c’erano nati su quelle rive; bambini avevano giocato con le alghe e la sabbia, e l’ammiravano sempre illuminato dal sole, accarezzato dalla chiarità lunare, sconvolto dal tridente del terribile dio, solcato dalle vele lente e veloci. L’immaginavano come un immenso prato tutto luce e colori, il prato di Posidone; credevano che la sua superficie non avesse limiti, e tuttavia sentivano che esso era chiuso nel suo abisso di cobalto e fra le coste, come un’isola d’acqua circondata dalla terra, come un lago, come uno stagno.

Gli diventano fastidiosi non più i panni che indossa e le coperte del lettuccio, ma le robe e i vestimenti di quei filosofi che gli tornano chiari e distinti dinanzi agli occhi della memoria: non lo tormentano nelle veglie insonni e nei soavi assopimenti i rumori e le voci estranee, ma il gocciolio di quelle parole che ascoltò a scuola e che ora lo esasperano con gli arzigogoli e le antitesi e i capricciosi ghiribizzi della cosiddetta dialettica.

Sommerso in sé medesimo, il solo Epicuro, che sembra inerme di fronte alla realtà, ha una fede. Egli che sarà bestemmiato e vilipeso e maledetto e offeso e calunniato nei secoli, egli solo vive nel pensiero, e intuisce e sente per primo i problemi della sua generazione, e cerca di rischiarare la via con la sua fede universale di uomo condannato a morire, ma pur gioioso di vivere e nient’affatto timoroso della morte. Epicuro ha preso posizione nella tempesta che sconvolge il Mediterraneo, e che fa crollare a uno a uno tutti gli ideali del vecchio mondo democratico. […] Un giorno egli scriverà che ‘il saggio non compone poesie ma vive la poesia’: ma fino da ora egli vive la poesia di creare un mondo ribelle alle comuni leggi della società contemporanea.

Egli non poteva servirsi di un gergo che sentiva superato e che gli appariva già nudo di corpo e di anima e incapace di dare vita alle sue idee e di trasformarle non in oggetti, ma in forze creatrici di una fede. Ma egli ha già uno stile che corrisponde esattamente al suo pensiero, scheletrico, istintivo, magro, ossuto. Dice le cose virilmente, senza ottimismo e senza pessimismo, quali esse sono. Non cerca di abbellirle con immagini, e in nessun caso cerca di nasconderne la terribilità quand’esse siano terribili.

In questo mondo agitato, Epicuro è solo: ed è tuttavia con tutti quelli che operano non per la vanità di sentirsi inchinati e riveriti, ma per obbedire alla coscienza del proprio essere. Egli è, nella solitudine, un ribelle, forse un rivoluzionario: è soprattutto un uomo di questo mondo, che vede le cose di questo mondo con gli occhi suoi di mortale. ‘Non dimenticare, uomo, che tu sei mortale. Solo impiegando giudiziosamente il poco tempo che ti è largito, tu penetrerai, per merito di una sana e diritta conoscenza della natura delle cose, nell’infinito e nell’eternità…’.

Perciò lo malediranno e lo calunnieranno, perché egli ha detto la verità parlando da mortale a mortali. Sì, gli uomini non amano Iddio, ma gli uomini fanno di Iddio una loro creatura, una creatura che li perdoni sempre e che li faccia sicuri di quel suo generoso perdono affinché essi possano peccare di nuovo. Gli uomini hanno bisogno di mentire, di fingere, di mostrarsi umili, di apparire prepotenti, ma soprattutto hanno bisogno che si creda a quel che essi fanno, anche quando essi stessi non credono a se stessi.

Goffredo Coppola

Vita di Epicuro

Edizioni di Ar 2016

Collana Paganitas

pp 126

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