13 Aprile 2024
Punte di Freccia

Enea e l’amor fati…

Troia brucia. Il destino si compie nella sua ineluttabilità. Gli dei stessi nulla possono di fronte ad esso e nota è la pagina dell’Iliade in cui Zeus tacita la contesa fra coloro che ne richiedono la distruzione e coloro che, favorevoli alla sua salvezza, tentano di opporsi. Il tempo s’è concluso, la sabbia della clessidra esaurita. Con l’astuzia di Ulisse il cavallo in legno è abbandonato sulla riva, nella sua pancia quaranta guerrieri (questa la versione accreditata fra le molteplici, tra chi narra di ben tremila e chi s’accontenta di appena ventitre), la flotta greca al riparo dell’isola di Tenedo, l’acheo Sinone, abbandonato a suo dire dopo uno scontro con lo stesso Ulisse, a trarre in inganno i troiani accorsi e stupiti. A nulla vale l’ammonimento di Cassandra, a cui il dio Apollo ha privato della credibilità; a nulla serve il tentativo del sacerdote Lacoonte avvolto nelle spire dei serpenti marini con i due suoi figli. Secondo Proclo venne abbattuto un tratto delle mura, accolto come un dono, nonostante ‘timeo Danaos et dona ferentes’ (Temo i greci pur se sono portatori di doni), portato all’interno della città. La strage, l’estrema inutile resistenza, la città devastata. Leggendo i due poemi, in greco l’Iliade e in latino l’Eneide, s’avverte in entrambi la potenza del Fato, l’atmosfera di quella tragedia di cui Atene seppe mettere in scena, tramite Eschilo e Sofocle e solo in parte con Euripide (si tenga a mente il duro rimprovero che gli rivolge Nietzsche), la forma più alta. La nascita del mito… Troia, le sue rovine tanto a lungo cercate. La storia imperitura… Roma, tra antiche grandezze e rinnovata barbarie.

Tra quelle mura che crollano tra le fiamme che ardono tra fiumi di sangue che scorrono un uomo con pochi compagni tenta porsi in salvo e la ‘fortuna’ (una dea anch’essa) lo sorregge. Enea con sulle spalle il vecchio padre Anchise e per mano il figlioletto Ascanio. Egli non sa a quale compito è destinato, la grandezza della sua stirpe – nessuno di noi ha percezione del domani e le stelle le carte le linee della mano o la sfera di cristallo sono, quando ad esse ci volgiamo fidenti, poco più di ‘pallide ombre di sogno’ (‘Cos’è la vita? Una frenesia, una finzione, una illusione, un’ombra che tutta la vita è sogno e i sogni restano tali’, così Calderon de la Barca, massimo autore del Barocco).

Credo d’aver citato già in altra occasione (i vecchi sono noiosamente ripetitivi e pateticamente piagnoni) la considerazione di Giovanni Gentile, tratta da Preliminari allo studio del fanciullino (1921): ‘Ettore, alle porte Scee, innalzando al cielo il figliolo Astianatte ed augurandogli un avvenire così glorioso che faccia preferire il figlio al padre nel giudizio dei prodi troiani, non esprime le speranze di un padre particolare, ma quelle dell’intera umanità adulta di fronte all’umanità adolescente’. Da qui una riflessione sulla figura di Enea e del padre e del figlio (va ricordato, inoltre, che egli stringe in mano e porta in salvo i Penati, quel simbolo d’ogni fondamento sacrale di ciò che si trasmette da generazione in generazione, a protezione della famiglia, del focolare, della cosa pubblica): nel presente è raccolta la sintesi del passato (‘la libertà pesante’, come la definiva il professor Lombardi in uno studio, mi pare, sull’arte alla Sapienza) e del futuro. Sulle spalle e per mano, appunto.

Ed anche Enea compie ciò che il destino gli ha riservato e per questo è definito da Virgilio ‘pio’, è un uomo dall’animo grande (magnanimo), capace ad esempio di sacrificare il suo amore per la regina Didone. Entro nella modernità, questa volta senza usare la parentesi e non è casuale, e nell’autore, quel mio fratello più caro, quando conclude La ruota del tempo, il suo libro che, fosse solo per il secondo capitolo La notte di Toledo, merita d’essere salvato in una ipotetica arca di Noè della cultura. Scrive Robert Brasillach: ‘Penso di accogliere il mio (fa riferimento al destino dei due protagonisti) con lo stesso saluto, davanti a questo mare che il vento non increspa, ma solo la scia della barca che vira lentamente per accostarsi al molo. Non cerco più … di sapere chi sono, e mi basta tendere il mio specchio a ciò che potranno portarmi gli anni, di tenderlo alle figure più grandi di me, e all’immenso volto del tempo. L’importante è fondersi con la propria corsa, di diventare tutt’uno con essa anche se non se ne scorge subito l’esito luminoso’ (e, forse, paradossalmente il plotone d’esecuzione, in quella mattina del 6 febbraio ’45 nel forte di Montrouge, scavandone la carne ha reso a lui e a noi ‘luminosa’ e immortale la sua anima. Come per Mikis Mantakas).

Un destino ove possono e devono coabitare nel presente quanto fu e ciò che sarà. La misura del tempo, il suo essere di fatto un enigma. Hic et nunc, eppure qui ed ora raccolgono lo ieri e il domani, questo spazio e i mondi infiniti… ove l’anima si distende e il corpo travalica i confini assegnati dalla natura. Non turbatevi, miei affezionati lettori, con l’attesa di chissà quale profonda analisi corredata da dotte citazioni. Il professor Merlino è decisamente andato in pensione, non però il ‘militante’ (parola ormai desueta e, in certo modo, resasi catacombale). Una professione viene messa in pensione, con tanto di carta bollata, una scelta di vita no. Diviene un atto di libertà, uno fra i pochi, mantenersi ad essa fedeli oppure riporla in soffitta tra ricordi sbiaditi o dimenticanze polverose. Così come andare in piazza del Popolo o in via Cola di Rienzo, tanto per capirci, mentre forse ‘Enea’ avrebbe deciso – e avrebbe dovuto (per identità naturale e nella contingente necessità) – d’essere in entrambi i luoghi. La strategia e la tattica quali momenti di un processo unitario e rivoluzionario, entrambi e non scindibili. ‘Esserci nella memoria, non negarsi al presente non turbarsi delle sfide future non fingersi di liberarsi del passato…’, m’è venuto da annotare sulla foto che mi ritrae in piazza Risorgimento, capelli bianchi e giubbotto canarino…

Un maestro mussulmano, di recente, ha riaffermato il principio geocentrico, con buona pace di Copernico e Galileo (altro che teoria scientifica, direbbe laicamente Nietzsche, solo opinioni che si sono trasformate in idee perché la forza ed il tempo furono loro favorevoli). Dalla raccolta di saggi del poeta Gottfried Benn (Adelphi edizioni, 1998 dal titolo Romanzo del fenotipo): ‘Sempre e nevermore, attimo e durata insieme – il motto del soffiatore di vetro, il canto del loto, la sua musica di speranza e oblio. No, non sono affatto un pessimista – da dove vengo, dove andrò a finire, tutte cose superate. Giro un disco e vengo girato, sono tolemaico’… Solo chi è tolemaico può stabilire il centro e la periferia o, come qualcuno s’è lasciato sfuggire con usuale accento e prosopopea ‘a noi piace vincere (e chi ama perdere? Ma, nella sconfitta, può trovarsi una nobiltà che, sovente, non si trova nei troppi sottintesi della vittoria). Agli altri piace rimanere marginali’ (il rischio d’essere tolemaico si risolve, appunto, che essendo a lui dato definire centro e periferia trasforma se stesso e la tattica in centralità con rozza indifferenza per gli altri e la strategia).

Enea – torno alla sua immagine (la polemica nel contingente m’è ostile, mi annoia e mi stanca) -, dunque, raccoglie la memoria, strane radici ramificate sulle sue spalle, e l’andare oltre, educare tramite il braccio e la mano che stringe dona sicurezza conduce. Dove? Egli non sa e non lo saprà neppure quando, giunto in vista delle coste italiche, compie il volere degli dei, s’attiene al proprio destino. Amor fati… Ascanio, il figlio, fondatore di Albalonga e da lì i gemelli allattati dalla lupa e il solco ove si getteranno le fondamenta della Città, la Roma ‘aeterna’ o come era inciso sulla corona di Diocleziano imperatore ‘Roma caput mundi regit orbis frena rotundi’ (Roma vertice del mondo regge dell’orbe rotondo le redini).

Anche Mikis Mantakas, trovatosi nel posto giusto in infame momento, è parte di quel corpo, fattosi stanco per attraversare la notte illuminata dall’incendio di Troia, che Enea non può non vuole non deve lasciare preda degli achei ebbri di vittoria e di sangue. Quella pietas filiale, a cui anche Dante farà riferimento al momento di darci la grandiosa e affascinante visione di un Ulisse ansioso di rimettersi in mare. Questa è la memoria, di sangue e di ferocia in anni di piombo, a cui si deve rispetto e riconoscenza – rispetto per aver speso ‘bene’ la propria giovinezza (Menandro: ‘Muor giovane colui che al cielo è caro’), riconoscenza per aver tenuto comunque alto il sentimento d’essere altro ed altro, quel ‘fascismo immenso e rosso’ nel quale ci riconosciamo e non intendiamo dismettere d’amare. E in Mikis Mantakas, nella storia di quei giovani e di quegli anni, la mano del figlio in quella del padre, la ‘nostalgia del futuro’ perchè ‘la mia Patria è là dove si combatte per le mie idee’.

A tutti noi piace la vittoria – scrivemmo in un esile libretto programmatico che un movimento politico vive nella speranza di conquistare il potere – ma non sempre ci piace il prezzo da pagare per ottenerla (e non ci piacque quanto ci veniva offerto all’inizio di quegli anni che furono segnati da stragi e P38). Non siamo noi avvezzi a scandalizzarci, non temiamo di sporcarci i piedi quando e se occorre (mai le mani, però), ma un ponte sul Tevere e un paio di ore a separare quello che doveva essere un consapevole Enea nel presente, carico del passato e auspicante il domani, ci sembra ‘indecente e servile’. Se la città di Troia è stata data alle fiamme perché si compisse il destino di Roma, noi accettiamo la condizione di esilio in terra, simili a novelli gnostici alla ricerca della patria celeste, portando senza fatica il peso della storia e certi di stringere nelle mani un sicuro avvenire. Non se, in nome del presente e dell’acconciarsi in esso, rinneghiamo il padre (nessun Freud può convincerci della necessità di ‘ucciderlo’) e trasformiamo la speranza del futuro in un biglietto della lotteria, in un gratta e vinci…

Mario Michele Merlino

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