13 Aprile 2024
Anni di piombo

Antonio Pannullo: “Attivisti” a cura di Angelo Spaziano

<Noi pochinoi felici pochi, noi manipolo di fratelli!>, gridò Enrico V d’Inghilterra ai propri soldati prima della gloriosa battaglia di Agincourt. Il nostro Gabriele Marconi prese lo spunto dalle evocative prose del celebre dramma shakespeariano – l’“Enrico V” – per trarne una bellissima canzone. Una pietra miliare della musica alternativa che ha reso alla perfezione lo spirito indomito e la condizione di totale isolamento in cui trascorrevano le loro giornate i militanti dell’anticomunismo nell’Italia degli anni di piombo.

Tuttavia, a scorrere l’ultima fatica di Antonio Pannullo “Attivisti – Nelle sezioni romane del Msi quando uccidere un fascista non era reato”, pagg. 693, Settimo Sigillo ed, di primo acchito l’impressione è che forse non eravamo poi così pochi. L’indice dei nomi, infatti, è pressoché sterminato e impararlo a memoria, anche solo in parte, risulterebbe arduo pure a Pico della Mirandola. Ma a leggere bene le pagine del libro, suddiviso in due tomi, il primo con la cronologia e il secondo con l’elenco delle sezioni romane quartiere per quartiere con i relativi attivisti, ci si rende ben presto conto che pure nei “domìni incontrastati” della destra – a Roma assai pochi in verità – si trattava pur sempre di sparute pattuglie ammontanti tutt’al più a qualche centinaio di persone, per quanto agguerrite.

Un pugno di coraggiosi destinati a scontrarsi ogni santo giorno con decine di migliaia di avversari spietati, carichi d’odio e fermamente decisi a sterminarci uno per uno. <Fascista, basco nero, il tuo posto è al cimitero!>, c’era scritto sui muri della capitale. <Casco! Spranga! Arrivano i katanga!>, era l’urlo di guerra degli estremisti meneghini. Per meglio pianificare quella che per loro doveva trasformarsi in un’autentica opera di pulizia etnica non esitavano neppure a ricorrere al dossieraggio. Allestendo persino archivi corredati da foto scattate di nascosto alle folle riunite per celebrare i funerali dei camerati uccisi. Il tutto per poter agevolmente riconoscere i reprobi ed eliminarli con calma al momento opportuno.

Tra i due fronti l’un contro l’altro armati, milioni di nostri concittadini, per tutto il periodo del tanto osannato “impegno sociale” e della “militanza senza se e senza ma”, hanno continuato tranquillamente a badare ai loro affari, a fregarsene insomma, immersi nel proprio “particulare” e refrattari a ogni coinvolgimento non dico ideologico ma neppure emozionale. Anzi, se proprio si doveva prendere una qualsivoglia posizione, questa andava sempre e immancabilmente a portare acqua al mulino rosso. Per non parlare poi delle gerarchie scolastiche, della polizia, dei mass media e delle cosiddette istituzioni… Esemplare fu il vergognoso trattamento riservato dal “Messaggero” dei Perrone a papà Mattei, segretario della sezione Primavalle. Questo fiero figlio del popolo – faceva il netturbino – vide i suoi due giovani figli bruciati vivi nell’incendio della loro abitazione appiccato da tre avanzi di galera in seguito coccolati, vezzeggiati e aiutati a espatriare da tutto il cialtronesco intellettualume italiota. O l’avventura occorsa a Massimo Boni di Talenti, che ebbe la sua Alfasud trapassata da due colpi di pistola solo perché in compagnia della madre aveva “osato” passare davanti al liceo – rosso naturalmente – Archimede.

A scorrere il libro verrebbe quasi voglia di piantare baracca e burattini ed andare esuli per il mondo. O dedicarsi al romitaggio. Considerato questo micidiale carico d’avversione e d’ostilità oltre ogni limite e ragionevolezza, è un vero miracolo che tra le nostre schiere il bilancio della sciagurata mattanza sia stato circoscritto ad “appena” poche decine di caduti. Ma quante sofferenze, quanta emarginazione, quanto ostracismo abbiamo dovuto subire nel corso della nostra avventura di militanti nel campo del Msi nei cupi anni Settanta (e non solo).

A compulsare “Attivisti” ci accorgiamo infatti – ma noi in fondo lo abbiamo sempre saputo – che ogni sezione può ben a ragione “vantare” le sue “battaglie”, i suoi gagliardetti, le sue imprese al limite del temerario, con i relativi feriti più o meno gravi, i suoi eroi e le sue vittime. Quasi tutte giovani nel fiore degli anni. Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni della sezione Tuscolano, ad esempio. E Francesco Cecchin e Paolo Di Nella della Trieste-Salario; Angelo Mancia e Stefano Cecchetti della Talenti; Angelo Pistolesi della Portuense, Mikis Mantakas della Prati, Mario Zicchieri della Prenestino. E poi quelli gravemente feriti: Enrico Tiano della Balduina, colpito da un proiettile impossibile da estrarre; o Gianni Di Spirito della Tufello, raggiunto in piena schiena da un coltello che, per fare ancora più danni, fu rigirato nella ferita con tutte e due le mani, secondo la crudele tecnica vietcong.

Si potrebbe tranquillamente comporre un poema con le vicende al cardiopalmo narrate nel volume. Un poema i cui protagonisti furono personaggi che, lungi dal possedere il favore degli dei – anzi molto spesso venivano considerati veri e propri figli di un dio minore – di coraggio e audacia ne avevano da vendere. Uomini di granito che non si tiravano indietro davanti a nulla. I loro nomi sono scolpiti a lettere indelebili nella memoria delle nuove generazioni di attivisti. Bruno Tomasich, Bruno Laganà, Ruggero Bianchi, Gigi D’Addio, Egidio Sangue, Attilio Russo, Ulrico Roberto, Riccardo Bragaglia, Tony Augello, Tonino Moi, Enrico Tiano, i fratelli Di Luia, Flavio Campo. E poi Teodoro Buontempo leader di via Sommacampagna, Guido Morice capo dei Gruppi Operativi, Angelino Rossi dell’Accademia Pugilistica Romana, Alberto Rossi dei Volontari, Luciano Laffranco del Fuan. È grazie a loro se, malgrado tanto odio, tanta avversione e nonostante la cinica pratica del “colpirne uno per educarne cento”, le sezioni capitoline del Msi, nel lasso di tempo compreso tra il ’68 e il ’77, pur subendo incursioni, proditori assalti, attentati e vere e proprie stragi, non hanno mai decampato. Ovvero, non hanno chiuso per questi vili episodi d’intolleranza. Si arrivò a un punto tale che anche andare al cinema poteva essere pericoloso. Si entrava solo a proiezione iniziata e si usciva prima dell’accensione delle luci.

Tuttavia, ben altre sono state le cause del venir meno dell’empito rivoluzionario, ma non certo la paura di finire nel mirino dei terroristi rossi e dei loro manutengoli. La prima sezione ad essere inaugurata all’ombra del Colosseo fu quella dell’Appio Latino. La più “tranquilla” – relativamente tranquilla, s’intende – fu la Parioli, sulla cui sede campeggiava indisturbata un’enorme fiamma tricolore di plastica illuminata al neon. Si trattava della più grande “fiamma” d’Italia. Dalla Parioli provenivano i fratelli De Angelis, tra i quali il mitico Nanni è rimasto nel cuore di noi tutti per il coraggio, l’abnegazione, l’onestà, ma soprattutto per il barbaro massacro subito in carcere dai poliziotti infuriati, col successivo suicidio le cui modalità non sono state mai chiarite. La più bersagliata, invece, fu la Monte Mario. Non c’è quasi nessuna sezione romana che non sia dovuta accorrere almeno una volta in soccorso della consorella ubicata in via Assarotti. Specialmente gli iscritti alla “gemella” Balduina. Anzi, per meglio garantire la difesa reciproca fu stretto un patto di mutua assistenza proprio tra le sezioni di Roma nord Monte Mario, Balduina, Prati e Aurelio. Il mitico segretario della Monte Mario, Domenico Franco, rimase pur’egli gravemente ferito da una gragnuola di proiettili sparati ad alzo zero sulla folla da un gruppo di extraparlamentari di sinistra durante un comizio del Msi a piazza Santi Apostoli. Insomma, a due passi dall’Altare della Patria non c’era neanche una pattuglia di polizia in grado di garantire l’incolumità ai manifestanti accorsi a un comizio indetto da un partito legittimamente presente in parlamento.

Così andavano le cose a quell’epoca. Eravamo colpevoli solo per il fatto stesso di esistere. E fu così che quel diritto ad esistere ogni sede se lo guadagnò con la forza della persuasione, e, quando lo si ritenne necessario, con le mani nude e con i bastoni. Raramente con le pistole. Perché formalmente il regime non vietava nulla, ci mancherebbe. La manovra era molto più subdola. Le cose funzionavano all’incirca così: il Msi indiceva un comizio nella tale piazza nel tale giorno a tale ora. A questo punto il Pci, o la marmaglia che tralignava alla sua sinistra e che “sbrigava” gli affari sporchi che gli “istituzionali” non potevano trattare, ne indicevano un altro nello stesso giorno e alla stessa ora nella piazza accanto, accompagnato dall’immancabile “presidio antifascista”. Il gioco era presto fatto. La questura interveniva e per “questioni di ordine pubblico” li vietava tutti e due. Poi, però, quello di sinistra si teneva ugualmente e nessuno fiatava. Presto la situazione divenne insostenibile e la reazione fu nella logica dei fatti. La sezione Prenestino dovette subire un duro assalto il 25 aprile 1974 per il solo fatto di trovarsi lì. Durante la scorreria un uomo sulla sedia a rotelle fu preso ad accettate ma i militanti fecero quadrato e il fortino resistette. La Centocelle il 24 maggio 1969, coadiuvata da Torpignattara, “espugnò” piazza dei Mirti con le unghie e con i denti solo per permettere a Giulio Caradonna di poter tenere il suo discorso. La Nomentano-Italia fece altrettanto nel 1972 a Milano, in piazza Castello, per garantire il comizio a Mario Tedeschi. La Garbatella invece dovette usare le “maniere forti” a Montecompatri, dove Ennio Rosati e i suoi camerati resistettero con l’ausilio di robusti scudi di legno a una banda di avanzi di galera fermamente decisi a sloggiare Paolo Signorelli. Sommacampagna ottenne il top: il suo prestigio era tale che un’organizzazione marxista leninista limitrofa, prima di compiere attacchinaggio, andava nei locali della sezione a chiedere il permesso.

Ma la “madre” di tutte le battaglie, quella che vide schierate pressoché all’unisono tutte le sedi romane solo per permettere a un leader missino di poter salire su un palco e parlare in tutta libertà avvenne il 22 dicembre 1974 a Monteverde, in piazza San Giovanni di Dio, dove era stato indetto il comizio di Rauti. Il tam tam dei centri sociali era stato pressante e carico di funesti presagi. Tutti i gruppuscoli ultras della galassia extraparlamentare di Roma s’erano dati appuntamento nella celebre piazza del quartiere Gianicolense per impedire all’esponente di destra l’agibilità politica ma soprattutto fisica: 2.500 tra appartenenti a Via dei Volsci, a Potere Operaio, a Lotta Continua, ai collettivi universitari, ai comitati di quartiere, s’erano dati la stessa parola d’ordine: Rauti non deve parlare! Ma Rauti invece parlò, e pure a lungo, perché gli appena 500 attivisti mobilitati dalla Fiamma s’organizzarono per benino e prepararono a questi spocchiosi figli di papà cresciuti a molotov e caviale uno speciale comitato d’accoglienza a base di scudi di legno, caschi e bastoni. Il palco era presidiato da persone armate, poiché il comizio – questo era l’ordine tassativo – si doveva tenere e si doveva concludere all’ora stabilita, costi quel che costi. Gli attivisti, suddivisa la piazza in settori ognuno destinato ad essere difeso dalla sezione d’appartenenza, erano collegati da staffette che a loro volta ricevevano segnalazioni da vedette poste sui tetti dei palazzi prospicienti. La prima ondata di assalitori provenienti da via Vidaschi, strada in salita e quindi assai scomoda per un attacco, si trovò all’improvviso faccia a faccia con i camerati della Prenestino. Per i baldanzosi compagni fu un massacro. I tapini con la stella rossa, sicuri com’erano <d’inseguire schiene nude>, tanto per evocare un’altra canzone di Marconi, dovettero fare i conti con marcantoni come Gianfranco Rosci, Angelino e Daniele Rossi, Raul Tebaldi, Gigi D’Addio, Volantino, Vittorio Sbardella. La stessa cosa accadde dal lato di via Ozanam. Risultato della battaglia: i facinorosi in falcemartello fecero la classica fine dei birilli colpiti con violenza da una palla di bowling, e alla clinica Città di Roma, dove confluirono i compagni feriti negli scontri di piazza, arrivarono ben 40 automobili stipate di poveracci che le stelle rosse le videro, si, ma per le devastanti fratture rimediate.

Da quel giorno in poi nulla a Roma fu come prima e nessuno più ebbe l’ardire di impedirci di parlare.

Angelo Spaziano

 

 

 

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