12 Aprile 2024
Punte di Freccia

Anche tu, corsa o volo – Mario Michele Merlino

Si chiamava Manuela, di Verona. La conobbi sulla costa romagnola, dove lei era in vacanza con la famiglia – due sorelle altrettanto graziose – ed io, per pochi giorni dai miei, nella nostra villetta di viale Maria Ceccarini. Tornavo da Monaco di Baviera ed ero in attesa di Riccardo per partire alla volta della ‘primavera di Praga’, con i carri armati che ci avrebbero imposto tornare anzitempo. Ci rivedemmo un paio di volte da lei, beneficiando per i nostri incontri di un ‘rifugio’ – brande rotoli di manifesti e secchi e tutto l’armamentario di quegli anni – di marxisti-leninisti che pubblicavano Lavoro politico, rivista corposa e saccente, e di cui divenni, per un breve periodo, il distributore a Roma. A garantirmi sull’affidabilità i contatti con l’ambasciata della Repubblica popolare a Berna e Robert, camerata francese della Charlemagne, che era ‘di casa’ e che aveva sottoscritto una dichiarazione omaggiante Mao. (Vecchie strategie ormai passate nel tritacarne del tempo e della storia. Il mondo ci appariva in subbuglio… I Vietkong a dare sberle agli USA. Gli scontri fra sovietici e cinesi sul fiume Amur, l’ombra di Stalin – e i manifesti che attaccammo per Roma e le scritte in vernice rossa -, il Grande Timoniere e il suo noioso libretto di massime, a cui si faceva il verso – iconoclasti e irriverenti -, i gruppi che sorgevano su imitazione – Servire il popolo o Stella Rossa – del partito comunista cinese e, dai suoi dirigenti, poco o nulla riconosciuti, la Romania di Ceaucescu insofferente del Patto di Varsavia, alcuni reduci della RSI o delle SS chi finiti all’ombra della bandiera a stelle e strisce e chi a dichiararsi – gioco delle parti – entusiasti della Rivoluzione culturale. In Strade d’Europa ho raccontato del pomeriggio nello studio di Otto Skorzeny con la foto di Hitler autografata e, interscambiabile, quella autografata di Mao). Manuela, a sugello della fine del nostro flirt, volle regalarmi un 45 giri dei Dik-Dik dal titolo Il vento e, sulla copertina, la dedica che, più o meno fedelmente, recitava: Mario, un giorno qualcuno ti fermerà, ma ora che puoi, corri sempre più veloce sempre più lontano. Pochi mesi dopo mi avrebbero tarpato le ali, sbattendomi in carcere e con l’intento di buttar via la chiave della cella…E sospetto che non siano ricresciute, anche se mi fa piacere tuttora pensare come mi sia sforzato sempre di volare. Fra pochi mesi un nuovo anno, cinquantesimo da quel ’68, così effimero e così reso mitico nella memoria – di coloro che lo vissero, di quelli che ne sentirono parlare nel tempo a venire. (Ad ogni occupazione, ad ogni autogestione gli studenti chiedevano un seminario, una conferenza sulla contestazione, sugli anni d piombo, mi intercettavano mi coinvolgevano irritavano i miei colleghi, eterni biliosi, tuoni e fulmini resi in piccole miserie pettegolezzo da cortile bisbigli malelingue. Ho attraversato anno dopo anno – per circa quarant’anni, non pochi – tra ideale tuta mimetica, come se ogni mattina andassi in trincea, e simile a vetro, infrangibile però e me ne vanto, tra indifferenza e guardi ostili del mondo adulto raro quello giovanile…).

E, in questo prossimo 2018, l’anniversario del 1 marzo, ‘la battaglia di Valle Giulia’. Lo so. Non è casuale che, nel mio studio (‘la torre del nostro orgoglio e della nostra disperazione’, per dirla con Drieu la Rochelle), campeggi alla parete e in formato ingrandito la riproduzione del poster – ormai una icona – di quella mattina. E, in prima fila, un Merlino giovane e magrissimo con in una mano la bottiglia e nell’altra un terzo dell’asse di una panchina – il primo in testa ad un carabiniere, il secondo sul torace di un compagno lasciatosi andare ad attacco isterico… E le corse lungo i viali e le cariche della celere, una mattina di annunciata primavera, come si disse. Più veloce con le gambe, più lontano con le idee. Volare. Una rivoluzione generazionale, destra e sinistra concetti obsoleti, ‘Hitler e Mao uniti nella lotta!’, fine dell’antifascismo e non a sterile e strumentale anticomunismo. Giovinezza amara, pur sempre però, irriverente e trasognata. Uscire dal nido, guardare l’abisso, spiccare il volo. No. Non vi descriverò quella mattinata e i giorni a seguire – ne ho scritto in E venne Valle Giulia e, immagino, ne parlerò in qualche conferenza commemorativa -. Oggi il mio richiamo è al contenuto, al senso di quella dedica sulla copertina del LP. ‘… Ah! Quando s’alza il vento – No! Più fermare non si può – dove vado non lo so’. Un di più di quella mattina esaltante della facoltà di Giurisprudenza occupata all’interno della Sapienza occupata e del 16 marzo i bastoni i banchi che volano lo scontro reiterato e il finale patetico e sepolcrale. Che importa cosa fummo dove ci portò il giorno e quali furono i sogni o incubi nella notte, tappe incontri sguardi gesti, tutto rimane tutto si dissolve… sopra di noi il vento, che non smette di soffiare, e dentro di noi inquieto il domandare come il cammino senza una meta un perché… C’è, dunque, una distinzione tra colui che si mette in viaggio, prefigurando un arrivo, dare direzione alla propria vita è segno di grandezza,e chi vagabondo se ne va poco curandosi dell’ora e del dove perché ogni spazio gli appare universo concentrazionario e il tempo attimi intensi e troppo brevi.Si rileggano gli aforismi del Nietzsche di Umano, troppo umano. Ho sempre sofferto il peso della valigia e ho prediletto uno zaino snello ed essenziale. (Come deridevo Riccardo a Praga nel ’68 e poi in Romania l’anno successivo con un sacco gonfio a dismisura e, vent’anni dopo, i miei alunni in gita scolastica con valigia e borsa modello trasloco…). Accanto alla canzone dei Dik Dik non poteva mancare Io vagabondo dei Nomadi (qualcuno in più occasioni mi ha confuso con il cantante Augusto Deoglio) come, fra i libri, I vagabondi del Dharma di Kerouac – un mondo fatto di giovani in cammino con il sacco a pelo e la montagna da scalare – e quelli di Bruce Chatwin, il nomade errante in cerca di avventure a cui dare un nome. Che ci faccio qui?, appunto. Sto leggendo l’ultimo romanzo di Arturo Pérez-Reverte, scrittore spagnolo di cui ho letto tutto quanto s’è pubblicato in italiano, dal titolo Il codice dello scorpione. Si svolge durante la guerra civile e narra di un tentativo di far evadere José Antonio dal carcere di Alicante. Leggo: ‘…ma in loro c’era qualcosa di simile, fatto di clandestinità e di coraggio, di risolutezza politica e di fede nella causa per la quale si giocavano la vita. Paradossalmente, questo li avvicinava ai loro avversari, o ad alcuni di loro, i migliori della fazione opposta …’. (Nessun buonismo, si badi bene. L’un contro l’altro armati e a prendersi a pistolettate, ognuno in nome di un ideale del colore del fazzoletto al collo.Carnefici innocenti, come da un capitolo.

Poeti senza versi e assassini senza armi, come devo aver scritto in E venne Valle Giulia). Mi piace pensare, però, che siano nomadi, in corsa o in volo. ‘Non mi frega nulla se mi diranno che sono la donna di un nero, ma nessuno potrà dire che sono la puttana di un fascista’, al telefono per una storia che fu intensa bella bruciata. Fu una corsa breve e fu un correre lontano. Dopo la stagione dell’odio, della P38. Ci sono storie che ci portiamo dentro, irrisolte, che rappresentano come il cammino ci distingue – popoli nomadi, popoli sedentari, liberi i primi, senza confine, schiavi i secondi, bisognosi di un tetto e pareti a protezione. Fra questi ultimi Caino fu il primo poi venne tutta una razza di secondini, sbarre e chiavistelli nel cuore nella mente, abitazioni simili a dorate prigioni, giardini zoologici. Capaci, questi ultimi, ad infettarti con parole dal gusto del miele e ingabbiarti con lettere maiuscole. Non possiedo pretese d’assoluto. Ci sono tanti modi per correre o volare, tante sono le lontananze. Io mi tengo stretto – ne fa fede uno straccio d’esistenza – quanto mi appartiene, per caso o necessità. Che gli dei mi siano stati benigni o abbiano schernito la mia sorte, a questo punto, conta poco o nulla… Ho scritto sovente che non mi aspetto il sacro o la bellezza irrompere nella mia vita e che in qualche modo mi riconosco nelle parole con cui Robert Brasillach concludeva La ruota del tempo ‘L’importante è di fondersi con la propria corsa, di diventare tutt’uno con essa anche se non se ne scorge subito l’esito luminoso’. Ad altri altro. Eppure, lo confesso, questa notte – e cielo e stelle e silenzio – ho rivisto il tuo volto, quando mi correvi incontro sulla banchina del treno, superato il confine, tu in attesa già in terra di Catalogna; ti ho rivisto pallida ombra di te stessa su quella poltroncina e il plaid a nascondere il corpo devastato; ho sentito il fruscio dei capelli e la punta dei tuoi piccoli seni premere sulla mia schiena come in quella notte, 21 dicembre del ’69, carcere di Regina Coeli. E, tradendo me stesso, mi sono chiesto, con rassegnata e insanabile tristezza, se fosse stato meglio una vita senza corsa o volo. Ben sapendo che nella domanda già è raccolta la risposta. Anche tu, corsa e volo.

 

Mario Michele Merlino

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