13 Aprile 2024
Appunti di Storia

1920: L’anno della minorità fascista – Primo capitolo

  1. LA TERRA AI CONTADINI

 

“Navigare necesse”… ma, per noi, ”navigare” significa battagliare. Contro gli altri, contro noi stessi… la nostra battaglia è più ingrata, ma è più bella, perché ci impone di contare solo sulle nostre forze. Noi abbiamo stracciato tutte le verità rivelate, abbiamo sputato su tutti i dogmi, respinto tutti i paradisi, schernito tutti i ciarlatani – bianchi, rossi, neri – che mettono in commercio le droghe miracolose per dare la “felicità” al genere umano… Due religioni si contendono oggi il dominio degli spiriti e del mondo: la nera e la rossa. Da due vaticani partono oggi le encicliche: da quello di Roma e da quello di Mosca. Noi siamo gli eretici di queste due religioni. Noi soli, immuni dal contagio. L’esito di questa battaglia è, per noi, d’ordine secondario. Per noi il combattimento ha il premio in sé, anche se non sia coronato dalla vittoria.”

 

Così Mussolini fa efficacemente il punto della situazione sul Popolo d’Italia del 1° gennaio 1920: aldilà dell’orgogliosa affermazione finale, traspare però, nelle sue parole, l’incertezza che, passato l’entusiasmo immediatamente successivo alla riunione del 23 marzo ed alle prime conseguenti inziative, serpeggia tra le fila fasciste, aggravata anche dal deludente risultato elettorale.

L’imponenza dell’affermazione socialista da un canto, e la contemporanea difficoltà degli ambienti antimarxisti ad organizzarsi e ad agire concretamente e con continuità, sembrano lasciare, infatti, pochi motivi di speranza. Ciò, mentre l’iniziativa socialista, tesa alla realizzazione della repubblica dei soviet, si va intensificando ovunque.

L’autorità dello Stato è completamente assente: in Toscana si emettono monete di rame, corrispondenti a quelle di corso legale, ma valide solo per gli acquisti presso le cooperative rosse; nei Comuni ad amministrazione socialista vengono messe in circolazione marche comunali per la riscossione dei diritti di segreteria con l’emblema della falce e martello; ovunque, nelle giornate di sciopero, circola solo chi è provvisto di regolare lasciapassare firmato dai dirigenti della Camera del lavoro.

Alla fine del ’19, inoltre, sono venuti a scadere i patti colonici, e questa è stata la miccia che ha innescato la tensione nelle campagne. La contrapposizione tra braccianti e proprietari è ovunque molto dura: i raccolti vengono lasciati a marcire nei campi, le bestie abbandonate a se stesse. La stalle risuonano dei lamenti delle mucche che reclamano la mungitura, ma nessuno si muove; anzi, per evitare crumiraggi, gli scioperanti fanno imprimere sul palmo della mano dei mungitori un timbro, che si altera nelle operazioni di mungitura.

Il motivo di maggiore contrasto è la richiesta, da parte delle organizzazioni sindacali, che l’avviamento al lavoro avvenga esclusivamente per il tramite degli uffici di collocamento, controllati dalle Leghe. Dalla metà di marzo il lavoro nei campi è praticamente sospeso in tutta Italia.

Intimidatoriamente si sviluppano qua e là improvvisi incendi di fienili e pagliai, che rinnovano il ricorso a vecchie armi del brigantaggio: basta, infatti, un fiammifero per dare fuoco ad ettari di terreno e provocare danni economici incalcolabili al proprietario che non vuole cedere.

È una prassi comune, che verrà ufficializzata, nel luglio del 1922, in occasione della “battaglia di Novara” dallo stesso Ordine Nuovo: “Contadini! A Novara i vostri padroni non hanno scrupoli nella scelta delle armi. Alla guerra come alla guerra. Qualche volta a voi può bastare un fiammifero”

Il numero degli scioperanti è impressionante: a Ferrara, a fine febbraio, sono 60.000; a Pisa, nel marzo 25.000; in 200 Comuni della pianura padana si calcola che ci siano contemporaneamente circa 150.000 dimostranti mobilitati.

Lo stato di agitazione continuo è, in effetti, in gran parte motivato dall’attesa delle “rivoluzione” che la costante propaganda dei marxisti di ogni tendenza tende a creare nel Paese, in vista della presa di potere da parte dei soviet, così come è accaduto in Russia. In tale quadro, ogni illegalità è consentita, nella comune convinzione che i socialisti: “non terranno calcolo alcuni dei limiti assegnati dalle attuali leggi borghesi, persuasi che le illegalità d’oggi costituiscono la legalità di domani”.

La prospettiva più generale della “rivoluzione” è indicata chiaramente a livello nazionale e ripetuta pedissequamente a livello locale: l’ordine del giorno approvato dal Congresso provinciale socialista ferrarese del settembre, dirà:

“Il convegno provinciale socialista ferrarese delibera che il Partito debba partecipare alla lotta elettorale per la conquista dei Comuni della provincia, al solo scopo di impadronirsi e paralizzare tutti i poteri, tutti i congegni statali borghesi, onde rendere sempre più facile ed agevole la rivoluzione e lo stabilirsi della dittatura del proletariato. Con questo intendimento, gli eletti svolgeranno un’azione antidemocratica, consistente: nel portare subito entro il Comune la lotta di classe, in modo che l’Amministrazione socialista sia un’Amministrazione della classe proletaria contro la classe abbiente nel campo economico, finanziario, culturale e sociale; nell’avocare al Comune tutte le funzioni di ordine pubblico, creando milizie comunali e regionali a base proletaria, sviluppando e selezionando i corsi di milizia e affini oggi esistenti e provvedendo al loro armamento; nell’iniziare, da ultimo, un vasto movimento di folle, per sostituire alle Prefetture ed al Parlamento i Comitati centrali dei Comuni indipendenti.”

 

In questo quadro preinsurrezionale, accade così che la paura del complotto sovietico accrediti le voci ricorrenti di misteriose presenze di inviati di quel Paese, intenti a tramare per la rivoluzione in Italia. In qualche caso sono gli stessi fascisti a facilitarne maliziosamente la diffusione: in agosto, per esempio, il Fascio triestino diffonde ufficialmente la notizia di una conversazione udita “per caso” dal suo maggiore esponente, Francesco Giunta, in un albergo cittadino, tra un delegato russo e l’onorevole socialista Bucco, nel corso della quale si è parlato a chiare lettere di prossima rivoluzione e di finanziamenti russi allo scopo.

Che i comunisti russi guardino con particolare interesse a quanto avviene in Italia è fuor di discussione: nel novembre del ’20 sarà resa pubblica una lettera di Zinovieff che suona rimbrotto ai compagni italiani:

“Alcune settimane or sono, in Italia, in correlazione al movimento degli operai metallurgici, è cominciata a salire nuovamente un’ampia ondata rivoluzionaria. Gli operai d’Italia hanno iniziato l’occupazione delle fabbriche, i contadini poveri hanno cominciati l’occupazione delle terre…In un periodo come questo dovevano i compagni italiani dare la parola d’ordine per la costituzione dei soviet ? Dal nostro punto di vista lo dovevano assolutamente. Se non hanno fatto ciò, hanno mancato ad un loro stretto dovere…Bisogna ricordare che i soviet si costituiscono non dopo la vittoria, ma durante la lotta stessa, nel processo di organizzazione della vittoria.”

 

La situazione precipita, settimana dopo settimana, mentre gli scioperi si susseguono agli scioperi: sono stati oltre 1.860 nel 1919, supereranno i 2.000 nell’anno successivo. Milioni di persone partecipano direttamente alle astensioni dal lavoro, ma ancora più grande è il numero di quanti, in un modo o nell’altro, sono danneggiati da queste astensioni. Per molto tempo, basterà un niente per provocare agitazioni e scioperi, più o meno circoscritti, che non di rado innescano esplosioni di violenza senza precedenti, sfrenata, eccitata da un’irresponsabile predicazione di odio e contraddistinta dagli eccessi della teppa che non manca mai.

A Mantova, nel dicembre del ’19, moti anarchici che culminano nell’assalto al carcere e nella liberazione dei detenuti, con conseguente devastazione della città, provocano una ventina di vittime e molti feriti. Il 5 aprile dell’anno dopo, a Decima di Persiceto, i dimostranti aggrediscono selvaggiamente i Carabinieri che sono costretti ad aprire il fuoco, con sette morti e quarantacinque feriti.

Gravi violenze anche a Milano, dove, tra il 22 e il 25 giugno, nel corso di vari conflitti tra forze dell’ordine e scioperanti, si hanno ben nove vittime; la folla qui, come spesso accade, viene lasciata senza guida proprio nel momento dello scontro, come denuncia il Comitato centrale dei Fasci in un volantino:

“Mentre nuclei di esasperati, di esaltati e di illusi aggredivano i cordoni della forza pubblica, massacravano e si facevano massacrare, dove erano i capi ? Dove erano i responsabili mediati ed immediati, fra i quali sono in prima fila i dirigenti del Partito socialista ufficiale ? Documentiamo, senza tema di smentita: l’on. Claudio Treves, pur essendo a Milano, si dava alla latitanza e non si faceva vedere al comizio. Armando Borghi, segretario dell’Unione S.I., si faceva arrestare, ben lontano dal tumulto, a confessione dello stesso Avanti ! Enrico Malatesta, con un gruppo di altri capi, si nascondeva dietro il portone ben sprangato della casa al numero 1 di via Mercato, e lì attendeva, dalle 19,10 alle 19,40, la fine del comizio.”

Ancora più grave, per la pretestuosità evidente della motivazione, è quanto accade a Viareggio agli inizi di maggio, quando una zuffa fra tifosi, su un campo di calcio, dà il via ad una vera e propria rivolta cittadina, con armerie svaligiate, linee ferroviarie interrotte, soldati e Carabinieri fatti prigionieri, violenze dovunque.

Deve intervenire l’Esercito, che circonda la città da tre lati, mentre al porto arriva anche una nave da guerra. Finalmente, dopo tre giorni, e dopo che i rivoltosi hanno ottenuto l’allontanamento dei Carabinieri, l’arma “malemerita” da Viareggio, la situazione torna alla normalità.

Più breve, ma più sanguinoso, l’episodio di Abbadia San salvatore: qui, il 15 agosto, i socialisti giudicano una “provocazione” lo svolgimento della tradizionale processione dell’Assunzione dopo un loro comizio, e causano gravi incidenti con i cattolici e la forza pubblica, con un bilancio finale di sette vittime, tra cui un sacerdote ed un bambino in fasce.

Nasce nella massa, e si diffonde in tutto il Paese, la pericolosa convinzione che tutto sia consentito: che basti scendere in piazza tutti insieme, per evitare arresti e denunce. A San Giovanni Rotondo, in ottobre, si accendono violenti scontri tra socialisti e popolari, con successivo intervento dell’Autorità ed un bilancio pesante di vittime: quattordici morti ed ottanta feriti.

Nel Mezzogiorno, in particolare, si verificano innumerevoli casi di occupazioni di terre e Municipi, già a partire dal ’19, quando spesso tali occupazioni si svolgono in forma anomala, ad opera di contadini inquadrati come in guerra, spesso guidati dai loro Ufficiali, bandiera in testa, al grido di “Savoia”. Grande è la delusione di quanti, combattenti valorosi e disciplinati, hanno creduto alla parola d’ordine circolata nelle trincee “la terra ai contadini”ed ora, tornati a casa, si sentono traditi da una classe dirigente immemore ed irriconoscente.

Antonio Salandra, il noto uomo politico meridionale che, quindi, meglio di altri dovrebbe conoscere le fatiche e le asprezze della dura vita del contadino e del bracciante, è uno dei maggiori responsabili; si è lasciato andare, infatti, a dichiarazioni di questo tipo:

“Dopo la fine vittoriosa della guerra, l’Italia compirà un grande atto di giustizia sociale. L’Italia darà la terra ai contadini, con tutto il necessario perché ogni eroe del fronte, dopo avere valorosamente combattuto in trincea, possa costituirsi una posizione di indipendenza. Sarà questa la ricompensa offerta dalla Patria ai suoi valorosi figli.”

 

La delusione degli ex combattenti per la beffa subita si somma così alla rabbia; uno stato di perenne intimidazione fa da sottofondo all’attesa del giorno della “resa dei conti”.

Si registrano inoltre, particolarmente numerosi e frequenti in questo periodo, strani incidenti – quando non attentati veri e propri – alle polveriere; in qualche caso si verificano anche assalti alle sentinelle: è evidente che il desiderio di procurarsi armi per il grande giorno spinge i più decisi a simili avventure inusuali nell’Italia prebellica.

Nelle grandi città, la pratica dello sciopero generale stravolge le regole abituali di vita dei singoli e delle famiglie. In queste occasioni, tutto è bloccato, e il disagio si fa più vivo di sera, quando le strade sono al buio e pattuglie di soldati vanno in giro con le torce a vento.

Mancano il gas, l’energia elettrica, l’acqua; servizi postali e di trasporto pubblico non funzionano, mentre i negozi di alimentari sono aperti solo poche ore al giorno, con le inevitabili, interminabili file. Nelle stazioni, non di rado, i treni, quei pochi che viaggiano, hanno sul tetto postazioni di mitragliatrici, e le strade ferrate sono pattugliate e sorvegliate, in qualche caso anche dal cielo, con l’impiego di aeroplani.

Nei piccoli centri, prevalentemente agricoli, la situazione non è migliore, anche per la frequente assenza o l’assoluta inadeguatezza di ogni presidio di forza. E’ per questo che, quando scatta lo sciopero generale, può anche avvenire che i proprietari vengano ammassati con violenza al centro del paese e privati delle chiavi dei magazzini e delle abitazioni, che sono saccheggiate dai più facinorosi

  1. TAGLIE E BOICOTTAGGI

 

 Nelle campagne, soprattutto nella pianura padana, è la soffocante presenza delle “leghe” a tenere banco; il 6 marzo del ’23, al processo per l’eccidio di palazzo D’Accursio, così Dino Grandi rievocherà queste giornate:

“La lega è il piccolo governo locale, la Camera del lavoro è il governo provinciale. Per licenziare un operaio occorre il permesso della Camera del lavoro. Al datore di lavoro è inibita ogni resistenza. Occorre, durante i giorni di sciopero che si susseguono, il permesso della Camera del lavoro anche per seppellire i morti. In fatto, il soviet già funziona: le leggi prime dell’economia sono completamente dimenticate. Vi è un nuovo sistema di diritto penale, con nuove pene, con nuove norme, con nuove esecuzioni di pene. Tra queste, le essenziali sono due: il boicottaggio e la taglia. Il boicottato non lavora, ma potrebbe eventualmente vivere attraverso elemosine, sussidi, carità: allora si ordina alle botteghe di non dargli viveri, carne, pane, alimenti. Gli si proibisce di cuocere nel forno casalingo, si vieta al medico e alla levatrice di accedere a casa sua.

Il boicottato a poco a poco si forma una sua falsa e speciale psicologia, pensa che ha una sola via per redimersi: entrare nella lega, e vi entra. Ecco come in gran parte si è formata a Bologna e provincia la coscienza socialista. La taglia è la multa che il proprietario paga all’organizzazione perché ritenuto colpevole di non aver eseguito a puntino le direttive dell’organizzazione stessa. E’ stato calcolato che, soltanto nell’estate del 1920, più di due milioni di lire sono state versate sotto la speciosità di taglie alla Camera del lavoro di Bologna ed alle piccole leghe locali. Dappertutto monopolio della mano d’opera, monopolio tirannico, ed attraverso la tirannia economica, la tirannia politica.”

 

Boicottaggi e multe fanno dunque sì che l’adesione alla lega diventi “virtualmente obbligatoria”; la paura della lega e dei suoi metodi è tanta , e destinata a durare per tanto tempo, che rende mansueti in un attimo anche i più testardi. Lo sanno anche i fascisti di Ferrara che, nel corso delle loro ricorrenti dispute con gli agrari più avidi, minacceranno di gettarli ”…alla lega come si getta un osso al cane affamato” e, nei mesi a venire, non mancheranno di adottare, in qualche caso, il metodo del bando e del boicottaggio nei confronti degli stessi ideatori e propugnatori di oggi.

Per ora, comunque, è la lega che comanda e dispone: proibisce i battesimi, fissa i giorni nei quali è consentito ballare, stabilisce anche il calendario del teatrino delle marionette. Nei casi meno gravi, la prepotenza assume anche toni che vorrebbero essere “scherzosi”: il nemico della lega alle 19,00 deve rincasare se non vuole rischiare legnate, oppure deve passare ogni sera dalla sede della lega a bere mezzo litro e leggere ad alta voce l’Avanti, tra gli sfottò e le ingiurie dei presenti.

L’impudenza è tale, che ai proprietari che non hanno contante, viene imposta la firma di cambiali, a mò di punizione, per i motivi più diversi, dall’uso delle trebbiatrici (che sono più veloci, ma tolgono lavoro ai braccianti), all’impiego di mano d’opera non leghista. Anche in questi casi, però, i soldi possono molto: pagando, è possibile farsi “sboicottare”, o evitare che il padre si separi dal figlio boicottato. Accade, infatti, anche questo, che nell’ambito di uno stesso nucleo familiare la lega adotti un atteggiamento diverso, tra chi è “pro” e chi è “contro”, magari perché iscritto ad una concorrente lega “gialla”.

Il bisogno di soldi delle leghe, che mantengono a tempo pieno una propria elefantiaca organizzazione, è tale che provoca, frequentemente, anche una forma di ricatto verso gli stessi contadini: chi aderisce alla lega dopo uno sciopero vittorioso, deve, infatti, pagare una tassa di iscrizione molto superiore al normale, perché viene automaticamente ad usufruire di un vantaggio per il quale non ha lottato.

Da tutto ciò deriva l’accennata floridezza economica delle leghe che, insieme ai fondi delle Amministrazioni locali, in più di un caso “allegramente” gestite dai socialisti in nome dei principi rivoluzionari, forniscono un essenziale canale di finanziamento per le spese elettorali e la campagna elettorale sovversiva.

E’, quindi, probabile che in occasione delle elezioni del novembre ’19, quelle della grande vittoria socialista, questa forma di finanziamento illegale abbia avuto un ruolo non indifferente per assicurare un gran numero di consensi al sol dell’avvenire, anche in collegi rurali, apparentemente refrattari alla predicazione rivoluzionaria.

Di certo, comunque, c’è che più del denaro può la paura. Chi ha accettato di sottostare alla imposizioni scioperaiole, chi si è visto privato anche dell’assistenza sanitaria perché boicottato, chi ha conosciuto la ferocia della teppa incontrollata che emerge in situazione di grande disordine, chi si è abituato a vivere in città “terremotate da mine bolsceviche”, alla fine, purchè tutto finisca, è disposto anche a considerare la possibilità di votare per i suoi persecutori.

In aprile, a Torino, si svolge il più grande sciopero generale mai avvenuto: gran numero dei partecipanti, compattezza e durata, danno all’avvenimento veramente un carattere “prerivoluzionario”; contemporaneamente, il 21 e 22 dello stesso mese, ad aggiungere benzina sul fuoco, ad alimentare vieppiù le paure e i timori dell’opinione pubblica moderata e borghese, il Consiglio nazionale del Partito socialista delibera, sia pure a solo titolo di esperimento, la costituzione dei soviet nelle fabbriche maggiori.

I fascisti, ridotti di numero, si impegnano principalmente, nei primi mesi dell’anno, in una campagna antinittiana e pro Fiume. Le manifestazioni locali toccano il culmine con l’organizzazione del soggiorno in Italia per molte centinaia di bambini fiumani (nella foto, un gruppo ospite dei fascisti livornesi).

La risposta all’appello lanciato in tal senso dal Popolo d’Italia è entusiasta: Pasella e Mecheri si recano a Fiume per prendere in consegna i bambini e accompagnarli in Italia, nonostante le manovre governative per impedire la riuscita dell’operazione.

Anche in questa occasione, i socialisti non mancano di distinguersi per stupida faziosità: in varie città, per reazione alla richiesta fascista di ospitare bambini fiumani, chiedono alla popolazione di ospitare un pari mero di bambini austriaci, senza rendersi conto dell’impopolarità della richiesta, che appare ai più un’inutile e controproducente provocazione.

Il 24 maggio, a Roma, un corteo di studenti e nazionalisti che vuole commemorare l’entrata in guerra, viene disperso col fuoco dalla Guardie Regie, schierate sulla gradinata del palazzo delle Esposizioni, in via Nazionale. La sparatoria provoca molte vittime, tra cui anche alcuni degli stessi tutori dell’ordine, colpiti dal fuoco violento, impreciso ed indiscriminato dei loro colleghi.

L’Autorità, impaurita per lo sdegno che si diffonde nel Paese per l’inutile eccidio, accredita allora la voce di un complotto fiumano, organizzato nella capitale da profughi giuliani con l’appoggio di nazionalisti, arditi e futuristi.

Prende così il via una serie di perquisizioni alle sedi delle associazioni irredentiste ed all’associazione Arditi, con il contemporaneo arresto di tutti i fiumani –circa un centinaio tra uomini e donne – residenti nella capitale e di alcuni “sovversivi”, tra i quali Bottai. L’Ateneo è chiuso su ordine del Rettore, per evitare che vi si tengano altre manifestazioni, mentre in tutta la città viene imposto un pesante clima da coprifuoco.

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