11 Aprile 2024
Julius Evola Narrativa

Un rito tantrico in Romanzo criminale – Ezio Albrile

Gli spazi narrativi lasciano sovente sorpresi per la ricchezza di suggestioni in essi codificati. È il caso di un libro di successo di qualche anno fa, Romanzo criminale, scritto da Giancarlo De Cataldo (Einaudi, Torino 2002), un magistrato di professione che ha voluto in quest’opera ricostruire uno spaccato di vita italiana, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, legata alle vicende di una cerchia delinquenziale romana, la «Banda della Magliana». È noto, anche dal film e dalla serie televisiva che ne sono stati tratti, come il romanzo del De Cataldo si collochi al crocevia tra denuncia sociale e ricostruzione epica. Un documento di come la materia sacrificale della quotidianità può trasformarsi in mitologia.

All’interno di una narrazione spesso complessa, le fortune criminali della Banda della Magliana si intrecciano con interessi loschi e opportunismi politici. Tra i membri afferenti la banda, uno ha colto il nostro interesse, il cosiddetto «Nero», un esponente della destra neofascista romana su cui molto si è congetturato.

Dal racconto del De Cataldo apprendiamo che il «Nero» era stato in gioventù un discepolo del filosofo Julius Evola, un «genio ridotto sulla sedia a rotelle da una bomba di guerra. Morto da qualche anno, vecchissimo. Viveva in una casetta da due soldi e amava circondarsi di giovani». Descrizione abbastanza impietosa per una figura che per anni ha rappresentato il faro ideologico di tanta cultura cosiddetta «non-conformista», e che i malevoli identificavano come neofascista. Evola è definito un Maestro di vita; un incontro che avrebbe profondamente segnato la vita del «Nero».

Ma il «Nero» è anche e soprattutto un criminale che ama ammantare di giustificazioni metafisiche il suo operato. La sua è una figura al limite di delinquenza e interessi politici. Oltre alle personali bravate, egli è alle dipendenze di «Zeta», il Capo degli Affari Riservati del Ministero dell’Interno (molto probabilmente Federico Umberto D’Amato), che lo utilizza per le sue azioni di depistaggio e di repressione.  Il suo prossimo incarico è eliminare un giornalista scomodo:

«Dell’uomo che doveva eliminare sapeva solo che scriveva su un giornaletto scandalistico e aveva infastidito la persona sbagliata. Per lui non era nemmeno un uomo, ma un bersaglio. Il bersaglio dell’azione. Lo chiamavano il Pidocchio. Nel dargli il via libera, Zeta gli aveva raccontato l’origine del soprannome. Glielo aveva affibbiato il politico che ce l’aveva con lui, Era stato durante una delle tante cene dei potenti. Zeta riferiva ridendo la frase esatta: “Un giorno o l’altro, se non la pianta di fare casini, quell’infame lo schiaccio come un pidocchio”».

Il «Pidocchio» da eliminare è probabilmente Mino Pecorelli, il giornaletto OP-Osservatore Politico, e il committente, l’allora Ministro dell’Interno preoccupato della circolazione di un documento molto peculiare, il «Memoriale Moro», uno scritto che negli anni susciterà molte altre «morti eccellenti».

Ebbene, il «Nero», per prepararsi a questa «azione» repressiva, ricorre agli insegnamenti ricevuti dal Maestro Julius Evola e codificati in opere come Lo yoga della potenza (Edizioni Mediterranee, Roma 19682)  in cui le discipline cosiddette  «tantriche»  sono coordinate in un insieme di ritualità fondate sulla sessualità e sul suo trascendimento.

Per l’occasione, Patrizia, maitresse di un bordello della Banda della Magliana e donna di uno dei suoi capi, il Dandi (figura ispirata ad Enrico De Pedis, detto “Renatino”) fornisce al nostro la “materia prima” per il rituale:

«Le due ragazze scelte da Patrizia, una mora, l’altra bionda naturale, si davano da fare con il fallo di lattice. Il Nero, seduto nella posizione del loto, osservava distrattamente le loro evoluzioni sul grande letto con il baldacchino rosso. La sua mente seguiva il filo dei ricordi. Era tornato a quell’ultima sera da Evola».

Il rammemoramento riguarda la storia dell’apparizione di Krishna ad Arjuna. È l’Avatar: il Dio si manifesta nei momenti di crisi per richiamare l’uomo all’ordine. Evola spiega come Krishna indichi ad Arjuna che ogni azione è in sé inutile e superflua, ma che se non vi fosse l’azione gli uomini penserebbero che ogni cosa è inutile, e sprofonderebbero in un tedio mortale. Per questo è necessario agire ma mantenendo il distacco dai frutti della propria azione, cioè agire non-agendo. Al «Nero» però sfugge l’essenza dell’insegnamento e, di fronte al moto di disapprovazione del Maestro, afferma come in realtà sia lo stesso Krishna ad offrire la suo discente la via per agire e per acquisire potere. Ovviamente l’insegnamento è totalmente travisato, quindi «non aveva più bisogno di maestri. Zarathustra era stato chiaro, sul punto: si fa torto ai maestri restando allievi a vita. Non gli restava altro, di quel pezzo della sua vita, che la bellezza del gesto».

C’è una sincronia tra questi pensieri e i giochi erotici delle due ragazze che il «Nero» ha di fronte. La concentrazione sui loro corpi, sull’andirivieni delle loro nudità, produce una mutazione:

 «L’orgasmo prese a montare: una marea rabbiosa che risaliva dal fondo delle viscere. Quando fu sul punto di venire, lo ricacciò indietro mordendosi la lingua. L’energia non doveva sfuggire. Ne avrebbe avuto bisogno presto. Molto presto».

La trasformazione è qui segnata dalla frammentazione del desiderio orgasmico: il conseguimento del pensiero dell’illuminazione (bodhicitta) è cosmicizzato nella realizzazione di un potere effettivo. È ciò che nel linguaggio iniziatico del commento tibetano al Guhyasamāja-tantra è detto gnas-par med, un «luogo-senza-luogo», che corrisponde al termine neopersiano usato da Sohrawardī e da altri mistici, il nā-kojā-ābād, il «luogo-del-non-dove». Questo perché il luogo è un vuoto, mentre è la presenza autocosciente e luminosa del myste a condizionarne l’esistenza. È il luogo magico in  cui l’elemento luminoso irrompe entro la percezione sensibile: in esso si staglia l’intuizione immaginativa, la cui sede propria è il «mondo eterico», lo ākāṣa della gnosi hindu, la dimensione dove  la luce si manifesta come vita del mondo e, per citare l’evangelista Giovanni, «la Vita come Luce degli uomini».

Tale è il senso dell’esperienza del «Nero», che è conquista del Centro, il Polo, il Quṭb caro alla mistica sufica, il Centro immanente alla yoni, il Triangolo magico – il kāma-kalā tantrico – che racchiude tutte le virtualità di manifestazione, tutti i suoni, tutti i colori. L’anima universale, paramātmāṇ, è  concepita  come  il  fondamento  del  tutto; un’unità  indivisibile,  trascendente  ed eterna, che si  manifesta in  forma  androgina.

La revulsione dell’energia orgasmica dal piano greve al livello sottile porta all’acquisizione di un potere sul divenire, effuso nell’azione: il «Nero» uccide il giornalista molesto finendolo con un colpo alla testa; qualcosa di molto simile è raccontato nell’Hevajra-tantra. Il corpo del «Pidocchio» è mutato in un maṇḍala sacrificale, la morte elevata a strumento di mutazione:

«Il Nero aveva bisogno di rilassarsi. L’azione l’aveva svuotato. L’energia che aveva creato grazie alle due puttane, l’energia che aveva trattenuto dentro di sé, era svanita sulla fiammata dei colpi».

La trama ordita in un bordello è l’anticipazione di ciò che noi diremmo un Castello del Graal, simbolo che ritroviamo sia in Iran che nelle terre del  Buddhismo settentrionale, sotto le sembianze di Agarttha, il luogo «inafferrabile», oppure di Shambhala sede terrestre della dinastia regale di Suchandra, il tiranno godurioso, il Superiore Incognito che detiene il tantra degli ultimi giorni, il Kālacakra-tantra del Sahaja-yāna. Forse inconsciamente, l’autore di Romanzo criminale ha voluto renderci partecipi della metafora di un potere configurato sulla sacralità dei tempi ultimi. In tal senso salvezza e impostura diventano un tutt’uno, e la terra paradisiaca  diventa il luogo in cui l’Anima, pur frammentata nell’«esilio occidentale» di Avicenna (al-ghurbat al-gharbīya), riesce a percepire il potere dell’«Oriente delle Luci», scaturigine della forza «Illuminativa» (al-Ishrāq). Quindi si può affermare che le traversie della Banda della Magliana siano a loro modo figurazione di una civiltà disgregata, imago mundi che è cloaca esistenziale. Nelle notti insonni ci piace evocare quella preghiera: «Santo subito», elemento di elisione fra la criminalità di bande romane e le rivoluzioni in Polonia e Nicaragua; quasi la sacertà di un pontifex latino si leghi alle vicende di narcotrafficanti suburbani.

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