12 Aprile 2024
Cinema

The Believer, il coraggio delle riflessioni scomode

Di Riccardo Rosati

I “Protocolli dei Savi di Sion”, apparsi all’inizio del secolo scorso, sono stati oggetto di vari studi e critiche, e sono ormai chiaramente giudicati un falso in chiave antisemita, redatto dalla polizia segreta russa tra il 1903 e il 1905. Ciò malgrado, il punto non è questo, ovvero quello della non autenticità di tali scritti, ma è un altro: benché falsi, alcune delle teorie in essi contenute sono da considerarsi plausibili? Per giunta, esse si sono poi attuate nel tempo e hanno una qualche logica di base nello scenario politico internazionale? Piuttosto che subire sempre la “fobia antisemita”, la quale impedisce oggi di criticare qualsiasi ebreo che possa addirittura aver commesso dei reati, senza venir immancabilmente bollati come “antisemiti” – pensiamo all’entourage di Dominique Strauss-Kahn che ha accusato il film di Abel Ferrara “Welcome to New York” (2004), ispirato alle note vicende dell’uomo d’affari francese di religione ebraica, di essere antisemita – dovremmo ragionare su alcune evidenti influenze della finanza e intellighenzia ebraiche sul mondo occidentale. Ci sarebbe poi la necessità di fare dei distinguo tra “antisemitismo” e “antisionismo”, che non sono affatto la stessa cosa. Per far ciò, ci vorrebbe ben più spazio di quello messo a nostra disposizione. Purtuttavia, anni fa uscì in America un film che con immenso coraggio ebbe modo di raccontare una storia realmente accaduta e che dovrebbe farci riconsiderare la melassa buonista in cui siamo impantanati da anni e che ha fatto degli ebrei una comunità praticamente di intoccabili. La storia di cui andremo a parlare è realmente accaduta e, proprio in virtù di ciò, ci permettere di “parlare”, senza essere messi subito a tacere, poiché determinati membri delle nostre società non si possono più nemmeno criticare.

“The Believer”(2001) è un film diretto da Henry Bean e scritto con la collaborazione di Mark Jacobson. La pellicola narra i fatti biografici di Daniel Burros (1937 – 1965), membro attivo dell’American Nazi Party, antisemita di primo piano nel suo Paese. Due fatti in questa storia lasciano davvero senza parole: 1) Non si tratta delle sfogo razzista di qualche folle sceneggiatore, bensì di una storia vera. 2) Il protagonista – Danny è stupendamente interpretato da Ryan Gosling – è un nazista ebreo.

“Il mondo moderno è una invenzione ebraica”, questa è in sintesi la essenza del pensiero di Danny. Certo, il tutto sa molto di complottismo mondiale, lo stesso che spinse alla creazione dei sopracitati “Protocolli dei Savi di Sion”. Ciononostante, la storia raccontata nel film di Bean non si perde affatto nel più becero antisemitismo, anzi, ogni concetto viene affrontato in modo talmente profondo, anticonvenzionale, che durante la visione della pellicola si resta in più occasioni interdetti, con un tarlo che monta nella forma della seguente domanda: “Forse ci hanno mentito su molte cose?”. Sia ben chiaro che le riflessioni di Danny non si esauriscono in un insopportabile negazionismo sulla Shoah! Esse intaccano invece efficacemente dei precetti culturali che sono ormai Legge!

“Perché così tanti ebrei comunisti?”. Ecco una altra domanda che esce prepotentemente fuori nel film. Non possiamo certo negare questo dato, come il fatto che poi il marxismo sia penetrato nei gangli della società occidentale, alterandone almeno in parte l’identità. Quello che Danny contesta, e la fa con un eloquio raffinato, mai volgare, è la “cultura del pianto” che ha permesso a una minoranza, come quella ebraica, di ottenere un potere sovente superiore a quello della stessa maggioranza. Economia, stampa, università, difficile contestare come la influenza di molte figure di spicco in questi campi e, di conseguenza, sulla vita e il modo di pensare occidentali siano state e sono tutt’ora degli ebrei. Strano no? O vogliamo forse credere alla baggianata che gli ebrei sono più intelligenti? Sarebbe razzismo al contrario. Non ci risulta che Bernini o Pirandello fossero di confessione giudaica.

Il personaggio di Danny è davvero “malevolmente” seducente, esercitando una attrattiva tipica di quelle intelligenze scomode, le quali hanno il brutto vizio di dire quelle verità che nessuno vuole sentire. Egli sa bene di cosa parla, avendo frequentato da bambino una scuola ebraica, dove però litigava con i suoi insegnanti, poiché si permetteva di mettere in discussione i dogmi della Fede, che nell’Ebraismo sono ben più consolidati che nel Cristianesimo di oggi. Egli si mostra palesemente come una persona erudita, che ama leggere, quanto fare a pugni.

Il suo spessore intellettuale si nota, ad esempio, in una delle scene iniziali, quando presenzia a un incontro politico in un salotto di destra. Qui, ha un fitto scambio di vedute con Curtis, il quale ha una visione assai meno estremista della sua. La loro sofisticata polemica permette inoltre di mettere in evidenza le chiare differenze ideologiche tra una interpretazione fascista e una nazista della società. Colpisce la lucida, quanto fredda, capacità di analisi politica del protagonista, che lo spinge a dire frasi del tipo: “La Germania una altra volta, ma fatto per bene”. Sempre in questa scena, Curtis, che nella trama gioca talvolta la parte dell’antagonista politico di Danny, sottolinea un concetto di grande importanza, definendo quello che lui chiama: “Errore americano”, riferito alla ostilità mostrata verso il fascismo dalla società statunitense dal Secondo Dopoguerra in poi. Trattasi di una assoluta verità, anzi potremmo persino spingerci oltre, sostenendo come la cultura ufficiale americana, nelle università, nei libri e nei film, abbia persino manipolato il concetto stesso di fascismo, descrivendolo come la origine di ogni sistema totalitario, negandone qualsiasi lato positivo, e proponendone una lettura talmente artefatta da farlo diventare col tempo sinonimo di “nazismo”; quando basta avere una discreta e onesta conoscenza dei fatti per sapere che vi erano enormi differenze tra i due regimi. Strano è comunque che in tutta la storia non venga mai pronunciato il nome di Mussolini.

L’espressione “ebreo che odia se stesso” è usata per indicare una persona di religione ebraica che nutre pensieri antisemiti. Essa è apparsa per la prima volta nel libro “Der Jüdische Selbsthass” (“L’odio di sé ebraico”, 1930) del filosofo tedesco ed ebreo Theodor Lessing. Solitamente questa scottante e assai poco nota tematica è legata alla critica al sionismo, la quale ha avuto dei sostenitori persino all’interno della stessa comunità ebraica internazionale. Va de sé, che si è sempre trattato di una minoranza intellettuale, ma è una realtà che va in ogni modo conosciuta, studiata e compresa: cosa spinge un ebreo a considerare la propria cultura come nociva per il mondo? Ci vorrebbero vari dottissimi libri, e non certo un semplice articolo, per cercare di abbozzare almeno una risposta a un quesito tanto complesso e scomodo. Una cosa però la possiamo dire, ovvero che la storia raccontata in “The Believer” può senz’altro fornire un valido aiuto per cercare le risposte a un problema che sembra quasi paradossale, ma che se poi ci si addentra nella questione, proprio così folle non è: Daniel Burros è esistito veramente, aveva idee politiche ben precise e, alla fine, non potendo in alcun modo conciliarle con la sua origine ebraica si è tolto la vita, come del resto fa anche il protagonista del film.

“The Believer” potrebbe ricordare un altro ottimo titolo, forse però non così riuscito come quello di Bean. Ci riferiamo a “American History X” (1998) di Tony Kaye. Siamo sempre in quella America degradata dove cova una destra nazista che si nutre del disagio sociale dei bianchi più poveri. Tuttavia, il protagonista Derek (Edward Norton) se la prende principalmente con i neri e non è certo intellettualmente paragonabile a Danny, giacché quest’ultimo è veramente una “mente autodidatta” e decisamente più colto di Derek. Per non parlare poi del finale, assai più lieto che in “The Believer”, ma non avrebbe potuto essere differentemente, visto che il conflitto insanabile tra fede e politica in Danny poteva solo che risolversi col suo totale annientamento.

Il film di cui abbiamo parlato, e del quale consigliamo spassionatamente la visione a quelle persone che nutrono un necessario dubbio, in una società dove la menzogna è la unica regola, è politicamente notevole; forse uno dei migliori di sempre da questo punto di vista. Trattasi di una storia che riecheggia involontariamente “Il mito del sangue” (1942) di Julius Evola, con tutte le scomodissime argomentazioni sulla razza che ne conseguono. Come quello del grande filosofo italiano, il ragionamento che presenta questa pellicola non è fazioso, bensì coraggioso! Una qualità, il coraggio, assai rara di questi tempi.

Lo scrittore americano Ray Bradbury ebbe modo di dichiarare in una intervista a Herman Harvey del 1962: “I giornali sono il boccone di
traverso della nostra epoca”; parole degne di una grande penna come era lui. Proprio alla stregua delle sue spesso impopolari dichiarazioni a giornali e quotidiani (pubblicate di recente: Ray Bradbury, “Siamo noi i marziani. Interviste [1948-2010)]”, a cura di Gianfranco de Turris e Tania Di Bernardo, Bietti, 2014), “The Believer” è un film che spinge, anzi, potremmo dire persino impone una riflessione, politica, ma anche teologica, adempiendo a una delle due funzioni principali della Settima Arte: da una parte intrattenere, dall’altra far pensare. Daniel Burros è stato un uomo in carne ed ossa, un attivista politico di un certo peso. Ragion per cui, i soliti benpensanti del progresso non se la possono cavare, liquidando il tutto con la, ormai, solita incontrastabile parola: “razzismo”. Noi ci offriamo, da intellettuali e studiosi di cinema, di sostenere il peso pure delle riflessioni più scomode: cosa spinge un ebreo a odiare se stesso? Se all’ascolto c’è ancora qualche – come diceva Italo Calvino – Uomo di Coscienza, allora magari si potrà condividere questo peso assieme.

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