9 Aprile 2024
Punte di Freccia

Sui frammenti postumi di Nietzsche – Mario Michele Merlino

I frammenti, gli aforismi, pubblicati postumi la follia e la morte, sono una preziosa miniera nei meandri del pensare più autentico di Nietzsche là dove, non dovendosi cautelare con l’editore e i lettori e se stesso, egli si esprime liberamente, senza reticenze o censure o ripensamento alcuno. Per usare una delle metafore di cui colmo è lo Zarathustra, l’aquila vola impavida e audace, dando alla penna il diritto d’essere signora e in sinergia con le parole dettate; il serpente al contrario conosce il rifugio sotto la pietra e fra l’intreccio del cespuglio, cercando nel gioco di luci ed ombre un pensare che si esprima nel tempo a venire ma dandosi a coloro che appartengono al proprio tempo. E non v’è contraddizione alcuna né in Nietzsche – fin dal tempo di Umano, troppo umano dove inizia l’assalto al cielo delle idee a difesa e rivalutazione dell’opinione – né in ciascuno di noi che siamo, al contempo, maschera e volto di un incerto Io frantumato e disperso. Nasce qui, suppongo, il fascino di quel dire del non detto e che verrà posto a fondamento dell’Essere nel disvelarsi e ottenebrarsi, di cui Martin Heidegger si farà maestro e sciamano.

Fra questi meandri, tra lo scintillio di gemme portate alla luce, ve n’è uno a me particolarmente caro e che vado citando sovente (anche in quella sorta di augurio per l’anno in corso che, avendo suscitato adesioni e commenti, m’ha indotto a scrivere di nuovo e di più intorno alla prospettiva e all’auspicio di essere il ‘meno peggio’ del precedente o sperare che sia ben ‘peggiore’). E mi riporta alla mente e agli occhi una cena nei mesi successivi alla mia scarcerazione, la camera da pranzo a casa dei miei con la tovaglia bianca e il servizio buono di piatti, una selezione ristretta e cara di camerati a cui feci dono, in bella calligrafia, di citazioni fra cui questa di Nietzsche. In tempi ancora di lotte aspre e sangue sparso, di galera latitanza letti d’ospedale e di obitorio, forse fu inopportuna e poco intesa e quasi di pessimo augurio…

… Volume VIII, tomo II ‘Opere di Friedrich Nietzsche’ Edizione italiana condotta sul testo critico stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, si legge sulla sovracopertina in plastica bianca, elegante, dell’edizione Adelphi, all’interno il visto del direttore del carcere di Regina Coeli e con gli auguri di Natale, anno 1971, da parte di una delle sorelle di mia madre. Rielaborato nel 1888 e scritto dunque nell’ultima sua permanenza a Nizza. Recita: ‘Agli uomini che in qualche modo m’importano auguro sofferenza, abbandono, malattia, maltrattamento, perdita di dignità; auguro che non restino loro sconosciuti il profondo disprezzo di sé, i tormenti della sfiducia in sé, la miseria dei vinti: nessuna compassione di loro, perché io auguro loro la sola cosa che può oggi provare, se qualcuno ha valore o no – che egli tenga duro…’. (Il Doktor Freud confessa, da mentitore, di non aver potuto accostarsi alla lettura di Nietzsche in quanto, da psicanalista, che è altra forma di menzogna, pur se affascinante, dovendosi immedesimare nell’autore, ciò non gli era consentito – animo delicato! – in quanto lo si spacciava antesignano del Nazismo, sensibile e fautore dell’antisemitismo. Si darà, poi, tutta la colpa alla sorella Elisabeth, avida bigotta odiata dal fratello, tornata con felice coincidenza in Germania dopo il tentativo utopico e vano in Paraguay, con conseguente suicidio del marito, il dottor Foerster, di dare vita ad una comunità di purezza ariana. Sarà lei a pasticciare, ignorante e censoria, fra le carte gli appunti le note del fratello, ormai folle e muto testimone di se stesso, di un caso filosofico, prigioniero nell’imponente lussuosa palazzina di Weimar. Ciò di cui non si tiene conto è che, se è pur vero come si sia adoperata a pubblicare quanto fosse allineato ad una Germania tronfia dei suoi successi militari industriali coloniali, in fondo ‘borghese’ e impenetrabilmente ottusa, rimane il fatto che furono comunque parole di Nietzsche, anche se non rese in forma finita rifinita editoriale… Così è facile supporre come simili aforismi si traducessero nell’animo arrogante e rancoroso – ebreo, in sostanza – di Freud in denuncia di perversioni di autolesionismo di masochismo – il nichilismo europeo tra l’ottimismo becero e la tristezza dell’uomo reso prioritario nel suo istinto animale).

Ancora Nietzsche e di più: ‘I popoli fanno di tutto per non avere grandi uomini. Il grande uomo deve quindi, per esistere, avere una forza aggressiva che sia più grande della forza di resistenza sviluppata da milioni di individui’. Dopo il ’45, giustificandosi che dei ‘grandi uomini’ s’era conosciuto il tragico e collettivo epilogo, l’Europa ha prediletto la mediocrità e il disincanto elevando a miti solo coloro che vivevano l’effimero e il superficiale, brillavano delle luminarie del palcoscenico e il ritmo delle chitarre elettriche. I grandi uomini sui quotidiani nelle pagine nere della cronaca fra l’oggi il domani e poco oltre. Il muro di Berlino viene giù sull’onda dei giovani della zona Est eccitati dalle bands e dal rock’n’roll, le cui eco amplificate travalicano il confine, vogliosi di lattine di coca-cola e di blue-jeans autentici. Così noi pochi noi soli noi nonostante tutto (in)felici diveniamo moneta fuori corso, di pessimo conio. Possiamo, allora, rivolgere l’augurio e l’auspicio a questo inizio di anno chiedendogli d’essere ‘migliore’?

Citavo, in quel mio auspicio, l’inizio d’altro frammento tanto simile e del medesimo periodo. Non siamo, per nostro diletto condannati alla felicità – solo i ‘puritani’ d’oltre-oceano possono aver voluto, sciocchi perversi presuntuosi, imporla quale premessa alla loro decantata Costituzione. Non occorre crearsi un imperialismo da cambiavalute e ruvido accento di cannoniere, magari gioiosamente su modello Hiroshima Nagasaki e poi bombe al napalm in Viet-nam e, in casa, la sedia elettrica o l’iniezione letale quali eredi della ghigliottina, per definire la felicità. Basta il nostro cuore la mente gli occhi e il passo… Allora ben venga questo ulteriore aforisma nietzschiano (sono tutti tratti dallo stesso periodo e medesimo volume), forse egli passeggiando solitario lungo il porto di Nizza: ‘Queste navi grandi e belle, che ondeggiano impercettibilmente sull’acqua tranquilla, questi forti bastimenti, dall’aspetto ozioso che parla della nostalgia della patria, non ci dicono in un linguaggio muto: quando partiamo pour le bonheur?’… Aforisma a me caro perchè questa felicità non ha nulla d’imposto e da imporre, va da sé, ma affronta l’onda e il vento alla ricerca di quell’isola che non c’è (e forse non occorre che vi sia, tanto simile a quella cantata da Francesco Guccini). Le navi e il porto, mediando la riflessione tutta storico-politica di Carl Schmitt de Il nodo di Gordio: qualcuno fra noi porta in sé la vocazione a sciogliere gli ormeggi e prendere il largo, osare il naufragio e ritrovarsi solitario abitatore su solitaria e sconosciuta isola lontana da ogni rotta. Altri vedranno nel porto il rifugio sicuro e la nave ben ancorata alla bitta. Lucio Dalla cantava di Colombo, del genius loci di Genova, già rilevato da Nietzsche. Ciascuno il suo destino e per alcuni, emuli arditi delle tigri di Mompracem del ‘passare al bosco’ simili a lupi nelle gelide notti del Nord note stonate di canti antichi di legioni perdute, combattere è un destino. Ribelli sempre, borghesi mai.

Gli ideali che ci mantengono liberi e i sogni a preservarci giovani, scrivemmo da giovani mentre il cuore ci batteva forte al ritmo di un tamburo che ci invitava alla battaglia e la mano sudata stringeva la spranga… E portammo quel rullio e quel sudore ovunque e con medesimo animo avventuroso. Nelle piazze di fronte a scuole e avversari sempre più numerosi ma sempre messi in fuga lungo i percorsi da Sud verso il confine del grande Settentrione a cercare l’Aurora e la mitica terra d’Iperborea dove sentivamo esservi le origini della nostra Patria e in Spagna dalle ‘strade brulle e rosse’, come le descriveva Brasillach, e le donne, sì, le donne che incontrammo per una notte sotto le stelle e quelle che ci rubarono l’anima oltre la vita e la morte e il tornare a scuola dietro la cattedra a dare un segno che altra cosa è la cultura e che si esprime ben di più di un registro la lavagna il voto ed un arido programma. Insomma: ‘La rosa e la spada, il cavallo e l’Onore, mi furon compagni, Fedeli d’Amore’…

Dilemma: chiedere a questo anno se lo si debba sperare meno peggio di come s’è vissuto rispetto a quello che è appena trascorso, concedendoci e angoli e frammenti e ‘stelle danzanti’ (ancora Chaos e Nietzsche) e fortilizi al deserto montante fuori e dentro di noi (Guai a colui che lascia crescere i deserto in sé!, ammoniva il padre di Zarathustra) e al pantano melmoso ed infido e all’infezione dilagante o se, al contrario, augurarsi che possieda tanto potere di catastrofico rovinio e tale che ci trascini in un gorgo ove il fondo – è domanda senza risposta – porti alla rinascita o all’annichilimento definitivo ed assoluto. Tutti e due, comunque, figli dello stesso dio miserrimo arrogante e malevolo, impostore nella vittoria così come nella sconfitta, senza compromesso sconto alcuno ma un sì o un no e, poi, alla Céline, non se ne parli più… in modo che ognuno avrà la misura del proprio valore e valere – e memoria di un giovane ufficiale delle Waffen SS raccolta non ricordo più dove e recita come ‘l’uomo volgare combatte solo quando è sicuro di vincere; l’uomo mediocre solo se ha qualche speranza di vittoria; l’uomo aristocratico anche nella certezza della sconfitta’ ed io sento che vale la pena aggiungere sempre però in allegra e amara giovinezza…  Strappiamo, dunque, fieri e disperati, ad uno ad uno i fogli di questo nuovo calendario e, su ognuno valga il motto inciso su dura pietra ‘non ho tradito’ e, a denti stretti, cantare gracias de la vida, quella vita che, in ogni caso, mi ha dato tanto!

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