10 Aprile 2024
Religione

Su Dio – Marco Calzoli

 Tutti noi, quando acquisiamo da bambini la capacità di riflettere, iniziamo a chiederci chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. Si affaccia alla nostra mente la parola “Dio”, mediante la acculturazione dei genitori e della prima scuola. Siamo stati creati da Dio e a Lui dovremo ritornare. Ma Dio, come diceva Anselmo d’Aosta (Proslogion I), non solo è ciò di cui non si può pensare nulla di più grande (non solum es quo maius cogitari nequit), ma è più grande di tutto ciò che si possa pensare (quiddam maius quam cogitari possit). Per esprimere il mistero di Dio sono stati scritti mari di carta. Nell’Islam sciita duodecimano si tramanda che i 12 Imam non sono soltanto guide religiose (come nella tradizione sunnita), ma anche principi ontologici della realtà. I 12 piani ontologici della realtà cui corrispondono i 12 Imam, sono detti in arabo maqāmat, “stazioni” teosofali. Il primo maqām è denominato “segreto che rimane avvolto nel segreto”. È la parte più esoterica dello sciismo e dell’intero Islam. Corrisponde a Dio. Questo primo maqām è la stazione dell’Irrivelato, l’Abisso dell’Unità primordiale, la Verità della Verità, il Vero che fa essere l’essere. In esso si compie eternamente la messa dell’essere all’imperativo (in arabo KN: l’imperativo del verbo essere, kana), senza cui non vi sarebbe né l’atto di essere (wojūd), né qualcosa di essente (mawjūd), né qualcosa avente a essere qualcosa (una quiddità, māhīyat). Per capire questo segreto assoluto Shaykh Ahmad Ahsa’i ricorre al paragone dell’uomo in piedi. Zayd sta in piedi, è un uomo che sta in piedi, cioè nella posizione di stare in piedi. “Uomo in piedi” è la qualità di Zayd, è la sua manifestazione della posizione in piedi, ma non è Zayd, né la posizione in piedi in sé. È per la posizione in piedi che Zayd è in piedi, ma è l’uomo in piedi che noi vediamo, non la posizione in piedi. Percepiamo la dimensione dell’essere in piedi attraverso Zayd, ma la posizione dell’essere in piedi non è Zayd. Allo stesso modo vediamo Dio attraverso le sue creature, vediamo le creature da Dio create, ma esse non sono Dio in sé. Per Dio le creature sono, ma esse non sono Dio in sé. Nel Corano 17, 87 è scritto: “Essi ti interrogano sullo Spirito. Rispondi: lo Spirito procede dall’imperativo del mio Signore”, min amr Rabbi”.

È l’interpretazione di questo imperativo a dare due visioni metafisiche dell’essere. I neoplatonici di Persia sostengono che lo Spirito in sé sia l’imperativo divino: lo Spirito è increato e creatore e determina l’essere delle creature. Invece i teosofi strettamente imamiti sostengono che lo Spirito sia la prima creatura. Nella prima interpretazione, lo Spirito è attivo, fa essere le creature, rimane trascendente da tutto ciò che esiste. Nella seconda interpretazione lo Spirito è imperativo attivato, ha un significato passivo, è il primo degli esseri creati, il primo Emanato da Dio. Secondo un’altra prospettiva, l’imperativo attivo è il primo maqām, invece l’imperativo attivato è il secondo maqām, la prima creatura assoluta, detta anche Realtà mohammadica primordiale, in arabo Haqiqat mohammadiya[1].

 La cultura dominante insegna a concepire un Dio uomo. Ma in Dio convergono anche aspetti femminili, come nella concezione della Dea Madre primordiale presente nelle culture arcaiche. Il senso della nostra vita su questa terra è un continuo divenire, dalla fanciullezza alla vecchiaia e poi alla rinascita, è un ciclo continuo e in questo ciclo di metamorfosi non risiede solo il senso del tragico ma soprattutto sta la cifra della divinità che ci assiste nel viaggio. “… un mondo in cui l’amore dovrebbe precedere ogni conoscenza e in cui il senso della morte non sarebbe che la nostalgia della resurrezione. Faust l’annuncia come mistero di salvezza compiuto dall’Eterno Femminino …”[2].

 Può questo Femminino primordiale essere il Dio da tutti nominato ma da nessuno conosciuto pienamente? Nella Bibbia ebraica la misericordia di Dio viene detta rachamim, plurale che indica in sé le “viscere materne”. Sono soprattutto i mistici che trattano questo aspetto amorevole di Dio. Dio ha sia elementi tremendi sia elementi fascinosi. 1Giovanni 4, 8 dice espressamente che “Dio è amore”. L’uomo non può comprendere le infinite viscere di misericordia di Dio, sulle quali poggia il mondo. Rivelazioni private confermano che questo grande essere chiamato Dio, nonostante il peccato e la malvagità dell’uomo, non smetterà mai di amarlo per primo e totalmente. Se Dio smettesse anche un solo istante di amare infinitamente l’uomo, il mondo non esisterebbe. Anche la sofferenza si spiega in questa chiave. Il dolore che la nostra anima prova nelle varie vicende della vita è l’energia purissima di Dio che visita l’anima per rigenerarla e colmarla della Divina Presenza. Di solito le persone pensano che nel dolore Dio le ha abbandonate, invece i mistici riferiscono che è proprio nel dolore che Dio sta loro più vicino. Come Giobbe, che incontra Dio nella sofferenza. Questa energia divina è talmente pura e alta che i sensi dell’anima commettono un errore nel giudicarla e pare loro che sia qualcosa di sgradevole, che gli uomini chiamano dolore, sofferenza, patimento. Ma dolore e piacere sono la stessa cosa. Per lo stoico Crisippo di Soli il dolore si chiama in greco lupē perché porta alla dissoluzione (dal verbo greco luō) l’uomo. Ma questa sensazione universale non sarebbe altro che un errore percettivo, e quindi cognitivo. Il mistero di Dio, che nessuna mente umana né angelica può capire appieno, altro non è nella sua essenza profonda che il mistero dell’amore. Un amore assoluto che nessuna creatura, che nasce da questo amore, può capire pienamente. L’amore misericordioso di Dio per l’umanità non deriva che dalla sua onnipotenza.

 Quanto più grande è il peccato tanto più il peccatore ha diritti nella misericordia di Dio. Ma, come chi è bagnato può asciugarsi al fuoco solo se si avvicina, così il peccatore può giovare della misericordia di Dio solo se si avvicina a Lui. Dio, infatti, per sua scelta non può violare la libertà della creatura, che è libera anche di opporsi al suo Creatore. Il mistero dell’amore di Dio non esclude la collera divina verso l’uomo. Come dicevano gli stoici l’universo è finalizzato per l’uomo. Lattanzio (De ira Dei) scriveva che l’uomo è orientato a Dio. Ma l’uomo ha anche elementi contrari che lo distolgono dall’adempimento della sua finalità intrinseca, cioè Dio: se si adegua, Dio è benevolo; se non si adegua, Dio è collerico. Ma la collera non è il male, perché è uno dei tre affetti di Dio che servono a strutturare la società, assieme alla misericordia e alla bontà. In 16, 7 Lattanzio dice: “Dal momento che vi sono alcuni sentimenti che non lo toccano, come il desiderio, il timore, la cupidigia, l’afflizione e l’invidia, costoro hanno ritenuto di poter concludere che Dio sia assolutamente privo di ogni passione. In verità, egli è estraneo solo a queste ultime, poiché si tratta di sentimenti che rivelano il vizio, mentre sperimenta come affetti a lui convenienti, perché conformi a giustizia, verità e degni della potenza divina, tutti i sentimenti che rivelano la virtù, ossia la collera contro i malvagi, l’amore per i buoni e la misericordia per gli afflitti”. I mistici dicono che la punizione di Dio deriva dal suo amore per l’uomo: è come un padre che vuole raddrizzare il figlio, è come una madre che riprende il figlio che sta sbagliando, è come un compagno di viaggio che indica la strada giusta.

 A questo punto l’inferno non è voluto da Dio ma dall’uomo stesso che liberamente rifiuta fino all’ultimo l’amore di Dio e si chiude verso di Lui in una negazione assoluta. Solo l’assenza di Dio affligge l’uomo e non coincide con il dolore dell’esistenza: è bensì il dolore della non esistenza. Solo Dio è vita per l’anima: quando manca il suo amore nel cuore dell’uomo, egli comincia a vivere già su questa terra un inferno anticipato. Anche la filosofia indiana ha un concetto analogo. Gauḍapāda (Āgamaśāstra I, 28): “Si deve sapere che Oṃ è in realtà il Signore presente nel cuore di ogni essere. Quando abbia inteso Oṃ come onnipervadente, colui che è stabile più non si affligge, na śocati”. Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae I, 21): “Vi sono due specie di giustizia. La prima consiste nel mutuo dare e ricevere: come quella che si ha nella compra-vendita e negli altri scambi o commutazioni del genere. E questa da Aristotele è chiamata giustizia commutativa, cioè regolatrice degli scambi o commutazioni. Tale giustizia non può essere attribuita a Dio poiché, come dice Paolo: Chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio?. L‘altra specie di giustizia consiste nel distribuire o amministrare, e prende il nome di giustizia distributiva: a norma di essa chi governa o amministra dà a ciascuno secondo il merito. Ora, come il buon ordine che regna in una famiglia o in qualsiasi moltitudine organizzata dimostra che in colui che governa c‘è tale specie di giustizia, così l‘ordine dell‘universo, che appare tanto nella natura quanto negli esseri dotati di volontà, dimostra la giustizia di Dio. Perciò Dionigi dice: Bisogna scorgere la vera giustizia di Dio nel fatto che egli dà a tutti ciò che loro conviene secondo il grado di ciascuno degli esseri esistenti, e che conserva la natura di ogni essere nel proprio ordine e nel proprio valore”.

 Dio sceglie spesso di rivelarsi più intimamente ad alcuni intermediari, che sono chiamati ad essere le guide del popolo che ha pensieri più mondani. L’esatta funzione del clero nelle varie religione o comunque di altri intermediari è quella di manifestare alle persone la volontà di Dio. Nell’Islam ismaelita (l’altro grande ramo dello sciismo) gli Imam terreni sono la unica Manifestazione dell’Imam eterno, nel quale si riassume perfettamente il Tempo. L’Imam terreno non è solo un successore politico, ma è Anthropos, Figlio Perfetto (al-walad al-tamm) generato nel segreto dei cicli del Tempo e destinato ad essere l’ultimo esegeta dell’umanità, della vera posterità di Adamo, riconducendo (ta’wil) quest’ultima all’archetipo celeste dalla quale origina[3]. Il concetto di Dio nasce da un pensiero mitico e non teoretico. Per capire in qualche modo cosa sia la divinità bisogna capire cosa sia il pensiero mitico. Nel pensiero teoretico c’è l’antinomia fondamentale tra apparenza e realtà, soggettivo e oggettivo, ciò che mi sembra e ciò che è. Invece il pensiero mitico ignora questa distinzione. “”Non domina la volontà di cogliere l’oggetto, di abbracciarlo cioè con il pensiero e di ordinarlo in un complesso di ragioni determinanti e di conseguenze, ma vi è soltanto la semplice impressione suscitata da esso”[4].

 Per questo il Dio del credente è una presenza che mediante la fede si riverbera nella vita, invece il Dio del teologo è un oggetto di studio come può essere una reazione chimica o una stella osservata con il telescopio. Da ciò si potrebbe inferire che ogni sapere è vano se separa il soggetto dall’oggetto. Nel Medioevo girava una buffa leggenda, quella per cui Aristotele si faceva galoppare dalla propria amata. La oltremodo larga diffusione di questa strana storiella testimonia l’arcano fascino della mente delle persone per una verità che dovrebbe sempre stare fissa nella mente dello studioso: la vanità di ogni sapere accademico, o perlomeno il dubbio riguardo ad esso. I miniaturisti medioevali ricorrevano spesso anche ad un altro motivo, quello del coniglio assassino, diciamo un po’ una specie di “coniglio mannaro”, personaggio di una celebre opera di Bacchelli. Questa strana raffigurazione si spiega non solo con la beffa ma anche con il recondito gusto per ciò che solo all’apparenza sembra banale e falso, ma che nasconde inaudite profondità. Cosa c’è di più innocuo della fede? Ma per le religioni monoteistiche può nascondere addirittura il contatto dell’anima con il Creatore dell’Universo. L’essenza dell’individuo sulla terra è di essere homo viator, sempre in cammino nelle esperienze terrene verso l’estuario ultimo, che coincide con il cuore di Dio. L’ebreo durante i 7 giorni della Festa delle Capanne deve vivere in una tenda, per ricordare il viaggio nel deserto dei suoi padri e per riflettere sul fatto che qui è in viaggio verso Dio.

 Nell’Antico testamento Dio è invisibile. La parola ebraica qadosh, “santo”, significa etimologicamente “separato” da questa dimensione. Ma Dio appare nei segni. Durante il deserto si manifestava come una nube sopra una tenda. Secondo l’interpretazione cattolica, quando in Giovanni 1, 14 il Verbo “mise la tenda tra di noi” (eskēnōsen en ēmin), cioè habitavit in nobis (Vulgata), abitò tra di noi, l’evangelista vuole dire che Cristo è quel Dio che si manifestò agli ebrei nel deserto donando alla fine la Terra Promessa. Ora, l’ultima Terra Promessa è per i cristiani il Paradiso, la Gerusalemme eterna e perfetta, la Civitas Dei di Agostino. Ma la nube è anche la croce, massima manifestazione di Dio, come amore, ma si tratta di una epifania oscura, come quando il vapore offusca il sole, in quanto la croce è stata sempre segno di contraddizione. Il mistero della croce si rinnova nella Eucaristia, ma è velata sotto gli accidenti del ‘pane e del vino. Quanto gli uomini hanno capito il mistero di Dio e del suo amore? Il teologo cattolico von Balthasar diceva che noi stiamo ancora agli inizi nella comprensione di tanta grandezza. Il popolo ebraico nel deserto ha sperimentato un Dio che cammina con esso ma mediante il segno imperfetto della nube. Ogni uomo è come l’ebreo di millenni fa: sente la trascendenza, il mistero verso qualcosa che lo sovrasta, alcuni lo identificano in una divinità di una religione precisa, ma non tutti, però l’uomo non vede chiaramente questo sole, ne sente solo il calore di qualche raggio. Giovanni 6, 68: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna, rēmata zōēs aiōniou echeis”.

 Durante la Festa delle Capanne gli ebrei facevano preghiere propiziatorie per la pioggia. Si attingeva acqua alla piscina di Siloe, che si trova in basso a Gerusalemme, sotto la città di Davide, si portava l’acqua in solenne processione con grande gioia, facendo danze e recitando alcuni salmi, i sacerdoti salivano al Tempio, poi facevano una libagione. Nel deserto Dio fece al popolo ebraico il dono preziosissimo dell’acqua. Gesù pare proclamarsi Dio quando, nel giorno più solenne della Festa, si alza in piedi e dice: “Chi ha sete venga a me e beva, ean tis dipsa erchesthō pros me kai pinetō (Giovanni 7, 37).

Note:

[1] H. Corbin, Nell’Islam iranico, vol. 1 (Lo shi’ismo duodecimano), Milano 2012.

[2] H. Corbin, La Sophia Eterna, Milano 2014.

[3] H. Corbin, Tempo ciclico e Gnosi ismaelita, Milano 2013.

[4] E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. 2 (Il pensiero mitico), Milano 2015.

 

Marco Calzoli

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