11 Aprile 2024
Filosofia

Severino, Heidegger e la “notte del Mondo” – Eduardo Zarelli

Emanuele Severino è stato un pensatore tanto prolifico quanto legato a un concetto unitario e onnicomprensivo della realtà: l’Essere. Il problema della condizione umana è la credenza del nulla, l’illusione che tutto ciò che esiste, prima non ci fosse e poi non ci sarà. Dal non essere all’essere e ancora al non essere: è il ciclo della vita che diviene. Questa certezza nell’esistenza del divenire è una forma estrema di «nichilismo», perché il divenire presuppone il non essere e dunque il nulla; ed è tragico perché di fatto riduce la vita ad una corsa verso la morte (il non essere). Gli si obbiettava: come si fa a dire che tutto è eterno e non diviene? In realtà, in coerenza con la teoretica della filosofia perenne, intendeva l’essere nonostante il divenire fenomenico, in quello che definiva “destino della verità”: ciò che appare è il divenire degli eterni, non il diventar-altro, il diventare il nulla. L’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere, affermava Parmenide. Dire che l’essere è non essere, o che l’ente è niente, ammettere il divenire insomma, è aporetico. L’unica conclusione coerente è, allora, che ogni ente è in quanto è ente: e se è, è eterno, non viene all’essere (non nasce) e non finirà nel nulla (non muore).

La destinazione della Tecnica al dominio universale, il compimento dell’apparato tecno-scientifico ha il suo fondamento nel nichilismo dell’Occidente. Se e poiché gli enti vanno e ritornano nel nulla, la volontà di potenza deve trasformarli, affinché ritornino ad essere ciò che in quanto tali sono: nulla e nessun limite può più fermare l’indefinito. In tal senso, la riflessione di Severino ha inferito con Martin Heidegger, interlocutore tacito o esplicito, che ha accompagnato sin dagli anni Cinquanta la sua riflessione. La condanna dell’Occidente che — malgrado il monito di Parmenide: solo l’essere è — si è consegnato al divenire, al tempo e al suo dominio. Nulla resta e là dove tutto si fabbrica e tutto continuamente si distrugge, là dove tutto è nulla, la tecnica diviene impianto, tradendo la sua essenza poietica. Ingenuo pensare che sia lo strumento neutrale che un’umanità emancipata impiega a proprio vantaggio, nelle “magnifiche sorti e progressive”.

Il soggetto moderno, che crede di disporne liberamente, è l’oggetto di una produzione seriale illimitata, un fondo di riserva, una appendice intercambiabile, in un mondo che è divenuto merce ed artificio. Questa è l’alienazione più profonda che sia mai stata esperita, la “notte del Mondo”. Il pensiero calcolante che deriva dalla tecnica moderna, occulta il pensiero meditante e il pericolo che viviamo è proprio la mancanza stessa del pensiero. L’unilateralità di questo pensiero ci fa perdere il rapporto autentico con le cose. Perciò l’uomo è chiamato al compito di salvaguardare il rapporto che abbiamo con l’Essere, cioè aprirsi al mistero che “si configura come il rapporto pensante dell’uomo a quell’originario gioco dell’essere che non dipende dall’uomo”.

La filosofia, quando è veramente filosofia, è il tentativo di spiegare cosa sia la realtà e quale sia il suo senso. La filosofia è conoscenza e la conoscenza ci pone di fronte all’evidenza di come stanno le cose. Su questo non è necessario cercare una coerenza complessiva del pensiero di Severino, per lui destinata a una inerzia del processo di civilizzazione.

Seguendo altresì i “sentieri interrotti” di Martin Heidegger, la disanima sul punto di non ritorno del regno della quantità ci pone di fronte a un apparato tecno-scientifico ad alta entropia – generazione di un ordine privo di fini che induce il disordine e la morte nell’ambiente che lo sostiene – lo scopo prevalente della vita diviene quello di usare un elevato flusso energetico per creare l’abbondanza materiale e soddisfare ogni pulsione come legittimo desiderio umano; la libertà umana viene quindi a coincidere con l’accumulo di una quantità sempre maggiore di ricchezza. Avendo bandito il sacro dalla società, la “realtà” è ridotta a ciò che si può misurare, quantificare, verificare; si negano i valori qualitativi e spirituali. La fede faustiana nella capacità tecno-scientifica di superare tutti i limiti relativizza i valori sostanziali, ontologici.

La cultura dominante ribalta la constatazione della realtà e strumentalizza le leggi di natura che sussume nelle leggi economiche. In realtà, vivere secondo le leggi di natura significa porsi il problema di come identificarsi con la sensibile trama della vita che ci circonda.

Se c’è qualcosa che la natura indica perentoriamente, è il senso del limite, la forma in una potente identità fra wildnis ewald, in quanto il bosco diviene simbolo di una immersione in quelle fonti perenni di senso che dischiudono la lichtung, radura aperta nel folto del nichilismo ove le superficiali separazioni fra interno ed esterno, dentro e fuori, soggetto ed oggetto vengono meno. L’uomo si ritira in essa, nel silenzio ancestrale dell’in-fante, dell’originario archetipale che precede la parola e predispone all’ereignis (evento), un sempiterno nuovo inizio.

Eduardo Zarelli

1 Comment

  • paolo 24 Gennaio 2020

    meraviglioso articolo

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