10 Aprile 2024
Scienza

Riflessioni sull’inconscio – 2^ parte – Marco Calzoli

(prosegue…)

Possiamo considerare l’attenzione come una funzione che regola l’attività dei processi mentali, filtrando e organizzando le informazioni provenienti dall’ambiente allo scopo di emettere una risposta adeguata. Il processo di elaborazione delle informazioni, infatti, è estremamente flessibile, cioè sceglie di volta in volta quale informazione elaborare e come elaborarla e questa possibilità di selezionare il materiale informativo avviene proprio in base a meccanismi di tipo attentivo. Vi sono condizioni che possono influenzare il sistema di elaborazione; fra queste ricordiamo, oltre alla vigilanza, il meccanismo di arousal, ovvero il livello di preparazione fisiologica il cui scopo è di ricevere le stimolazioni esterne ed interne, permettendo di conseguenza una risposta più o meno adeguata e veloce rispetto una specificata stimolazione. Per attenzione selettiva si intende sia l’abilità a contrastare la distrazione che la capacità a concentrare l’attenzione su una fonte o su un canale contenenti informazioni relativamente deboli in presenza di distrattori forti. A sua volta, si distinguono due componenti:

• l’attenzione selettiva volontaria è un meccanismo che entra in gioco quando bisogna affrontare situazioni nuove e richiede l’impiego volontario di risorse di processamento.
• l’attenzione automatica, invece, è guidata dall’ambiente e non dalle intenzioni e dagli scopi dell’individuo.

Tanto per capire come teoria e ricerca sul campo formino un connubio indivisibile, tale distinzione si basa su pazienti frontali nei quali è stata evidenziata una dissociazione tra attenzione selettiva volontaria ed automatica, tale per cui si avrebbe un’attenzione volontaria deficitaria ed un’attenzione automatica patologicamente intensificata. Inoltre, esiste una modalità di attenzione selettiva per lo spazio che è stata trattata indipendentemente dall’attenzione selettiva in genere, dal momento che alcuni meccanismi con cui dirigiamo l’attenzione visiva nello spazio risulterebbero indipendenti. Recenti studi PET hanno dimostrato l’esistenza di almeno due sistemi attenzionali diversi:

• il sistema attenzionale posteriore (PAS), è responsabile dell’orientamento spaziale dell’attenzione verso sorgenti di stimolazione nelle varie modalità sensoriali. Permette di dirigere l’attenzione su porzioni dello spazio circostante sia per la ricerca guidata dalla visione di oggetti in diverse posizioni spaziali, che per quanto riguarda la scansione di un oggetto di interesse.
• il sistema attenzionale anteriore (AAS), comprende aree della corteccia prefrontale mediale, inclusa la corteccia cingolata anteriore e l’area supplementare motoria, ed è preposto alla selezione degli attributi dello stimolo (forma, colore e dimensione).

Con l’espressione attenzione divisa ci si riferisce alla capacità di prestare attenzione a più compiti contemporaneamente. Invece l’attenzione sostenuta è una modalità di attenzione protratta nel tempo, mentre per “livelli di attivazione” si intende la prontezza fisiologica a rispondere a stimoli interni ed esterni. Un risultato scontato è che la prestazione dell’osservatore peggiora con il passare del tempo per l’aumentare sia dei falsi allarmi (rilevamento di un segnale inesistente), che delle omissioni (mancati rilevamenti in presenza del segnale). Il peggioramento può dipendere sia da una diminuita sensibilità del sistema sensoriale e sentivo, che da un innalzamento del criterio adottato dal soggetto per stabilire che una soglia critica di intensità, oltre la quale il segnale viene dato per presente, sia stata superata. Per quanto riguarda l’attenzione sostenuta, l’emisfero destro è più abile del sinistro a mantenere l’attenzione per un periodo prolungato. In uno studio su pazienti con cervello diviso, è stato dimostrato che all’inizio delle prove l’emisfero sinistro è superiore al destro, ma dopo i primi minuti le sue prestazioni mostrano un netto peggioramento. L’emisfero destro, invece, mantiene gli stessi livelli di prestazione per tutta la prova con solo un leggero decremento. L’emisfero destro, oltre che ad essere specializzato per l’attenzione sostenuta, sembra esercitare un ruolo importante nel mediare il livello di attivazione. Infine, le poche ricerche disponibili, sembrano concordi nel dimostrare un interessamento dei lobi frontali nella prontezza fisiologica a rispondere a stimoli interni ed esterni. Il nostro inconscio è in qualche modo programmato già dalla nascita, in maniera non dipendente dall’esperienza, per adattarsi all’ambiente. È l’aspetto filogenetico delle potenzialità umane, di cui parla già Freud. Liotti indica ben cinque Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI) innati che strutturano le nostre relazioni in una combinazione pratica infinita: sistema dell’attaccamento; sistema dell’accudimento; sistema agonistico; sistema sessuale; sistema cooperativo paritetico.

Freud definisce l’inconscio come l’attività prevalente della nostra vita psichica, mentre il conscio sarebbe come il clown Augusto, che crede di dirigere il circo mentre è influenzato dall’inconscio senza rendersene conto. Da Freud, che formalizza le leggi dell’inconscio personale (spostamento, condensazione, principio del piacere) e da Jung, che indaga l’inconscio collettivo (luogo degli archetipi, che sono nuclei energetici che ci spingono a pensare e a fare esperienza in un certo modo) , oggi abbiamo fatto dei passi in avanti per una sua migliore comprensione. Attualmente gli studiosi pensano che l’inconscio sia collegato agli stati ipnotici, ma non in seduta bensì nella vita di tutti ni giorni. Le persone cadono spontaneamente in brevi stati ipnotici più volte nell’arco di un’ora, mentre divagano nei propri pensieri: pensiamo a quando stiamo pensando ai fatti nostri e guidando l’automobile giungiamo a destinazione senza che ce ne siamo accorti o quasi.
L’inconscio non è solo un fatto onnipresente in tutti i nostri vissuti, ma è la base di ogni comunicazione, stando alla teorizzazione di Benemeglio, ideatore di un importante metodo induttivo di ipnosi. Ogni comunicazione efficace si basa su procedimenti di influenza inconscia, che gli attori mettono in pratica senza essere consapevoli. Una delle leggi più generali della comunicazione è quella dell’ottenere senza chiedere. Mettiamo che vogliamo convincere la donna amata a uscire con noi: tutti iniziano l’approccio senza chiedere esplicitamente la cosa, ma predisponendo le circostanze per farla accettare, magari formulando la richiesta esplicita alla fine della nostra strategia. Cosa avviene? Una persona inconsapevolmente sta comunicando con l’inconscio della donna, rendendosi amabile, simpatico, gentile, con lo scopo di passare dall’attività sull’inconscio a manovrare la risposta della parte razionale (cosciente) della donna. Un uomo lavora la parte emotiva (inconscia) con piccoli accorgimenti imparati dall’esperienza per influenzare la parte cosciente. Tutti noi quindi sappiamo, senza formularlo esplicitamente, cosa invece che fa Benemeglio, che l’inconscio sta alla base di ogni scelta razionale. Benemeglio ha strutturato la sua esperienza e le sue scoperte non solo nella ipnosi formale ma anche nella cosiddetta Comunicazione Analogica, un insieme di teorie e strategie comunicative dirette all’inconscio per ottenere potenziale e risultati efficaci in ogni ambito della vita.

Il Metodo O.S.O (Osservare-Stimolare-Ottenere) pone alla base della giusta comunicazione l’osservazione. Possiamo aver fatto tutti i corsi di questo mondo, ma le persone non sono categorie astratte, quindi bisogna capire la mente individuale di una persona per impostare la giusta comunicazione. La psicologia e la comunicazione sono discipline pratiche, necessitano del rapporto diretto con il soggetto da influenzare. Benemeglio insegna svariate tecniche di osservazione corretta e di impostazione della giusta comunicazione per quel soggetto. I gesti e i vari atteggiamenti dipendono spesso da dinamiche inconsce, che bisogna conoscere bene, dopo averle osservate correttamente, per andare ad agire nell’inconscio della persona con lo scopo di spingerlo a una risposta cosciente. Solo così aumenta lo Stato Tensionale (livello di attivazione generale della persona, come l’attenzione o il desiderio): se esso aumenta la comunicazione sta andando bene; se esso diminuisce la comunicazione sta andando male. Nel linguaggio del corpo i grattamenti o i toccamenti sul viso sono molto significativi: più si allontanano dal viso, cioè si concentrano sulla spalla o sul petto, più la tensione decresce, più la comunicazione non sta riuscendo bene, e viceversa. Osservando questo tipo di linguaggio del corpo, possiamo capire l’inconscio dell’individuo. Se lo stato tensionale decresce, dobbiamo migliorare la comunicazione. Se lo stato tensionale aumenta, significa che stiamo comunicando efficacemente, senza doverci distogliere dal nostro stile comunicativo. La comunicazione non verbale conosce anche i segnali di gradimento e quelli di rifiuto. È importante osservare lo stato tensionale, ma bisogna fare attenzione anche a sorrisi, fissità dello sguardo, e altri gesti di gradimento oppure a gesti quali sbadigli, incostanza nello sguardo che indicano l’opposto. Per comunicare efficacemente con la parte inconscia dell’interlocutore (Stimolare) possiamo usare innanzitutto il Sistema Energetico, composto di quattro livelli: prossemica (usare lo spazio: entrando nello spazio intimo, avvicinandoci all’interlocutore, possiamo creare empatia oppure, se vediamo segnali di rifiuto, dobbiamo allontanarci per farlo stare a suo agio), cinesica (gestire la gesticolazione: toccandoci il petto possiamo comunicare inconsciamente empatia), digitale (gestire i toccamenti: se tocchiamo l’interlocutore comunichiamo vicinanza), paralinguistica (utilizzare il tono della voce, il battito delle mani, del piede, altri rumori gradevoli e morbidi che generano accoglienza: se versando l’acqua nel bicchiere in una cena romantica notiamo un segnale di gradimento nel partner, ci conferma che la comunicazione sta andando bene).

Per riuscire ad avere il risultato finale (Ottenere) della nostra comunicazione bisogna integrare l’Osservazione e la Stimolazione. Se limitiamo la distanza prossemica e osserviamo un segnale di gradimento, bisogna avvicinarsi ancora (restringendo di più la distanza). Viceversa se notiamo segnali di rifiuto. Si tratta di una dinamica psicocorporea molto vincente perché calibrata sull’analisi della parte profonda della persona, il suo inconscio. Un’altra strategia è unire più livelli del Sistema Energetico: più livelli si uniscono, più aumenta l’efficacia della nostra comunicazione. Per esempio, ci avviciniamo e tocchiamo una spalla dell’interlociutore con un tono di voce più morbido. Ora, la nostra parte emotiva (inconscia) non segue più di tanto il linguaggio verbale, per cui per influenzarla occorre esprimere verbalmente la richiesta, ma segue il linguaggio non verbale. Un sorriso, una occhiata fatta al momento giusto, un avvicinamento, una carezza, sono potenti tecniche di comunicazione non verbale che manovrano sull’inconscio per ottenere dalla parte razionale dell’interlocutore un giudizio cosciente positivo. La nostra parte emotiva ha determinate caratteristiche. Una di esse è che è più veloce a elaborare lo stimolo di circa 500 millisecondi rispetto alla parte razionale. Quando stiamo guidando e incontriamo un ostacolo, il nostro in conscio si accorge per primo del pericolo e ci fa frenare, solo dopo razionalizziamo l’accaduto e ci rendiamo così pianamente conto di quello che sta succedendo. Un’altra caratteristica è che l’inconscio non distingue tra bene e male, giusto e sbagliato, ma solo l’intensità dello stimolo. Vedendo un matrimonio o un funerale l’inconscio non sa distinguere. È questa la ragione per cui le persone non riescono a uscire dai loro traumi. Il trauma è relegato nell’inconscio, dove struttura una coazione a comportarsi in maniera disfunzionale, cosa è detta sintomo. Il nostro inconscio non sa discriminare che il trauma è qualcosa di sbagliato per la nostra vita, quindi continua a ripetere la stessa disfunzione, influenzando ogni aspetto della nostra vita psichica.

In definitiva l’errore dell’inconscio sta nel credere che il dolore sia la stessa cosa del piacere. Quando soffriamo, è perché non proviamo piacere. Allora la malattia mentale è in sé una infelicità, che l’inconscio reitera perché non sa dare un giudizio di valore a quanto ha appreso in precedenza. A questo punto il dolore deriva dal fatto che l’inconscio ha imparato a non dare spazio adeguato alle emozioni. L’inconscio si auto-sabota, e la nostra parte razionale accampa mille scuse per giustificare questa disfunzionalità. Siamo infelici al lavoro perché non esprimiamo la nostra vera personalità, allora la nostra parte razionale si illude di sapere il perché del proprio disagio: continuo a starci perché è un lavoro remunerativo oppure continuo a starci perché ho paura del cambiamento. Ma queste scuse della coscienza velano ai nostri occhi un apprendimento erroneo insediatosi nel nostro inconscio, che ci ostiniamo a non vedere. Cosa accade? Accade che la nostra mente ha delle procedure di sicurezza, ci avverte in qualche maniera che non esprimiamo la nostra vera individualità. Allora ci ammaliamo. Il sintomo ha un aspetto archeologico (è il simbolo del trauma) ma ha anche un significato teleologico (esprime lo scopo della nostra vita: ciò che dobbiamo fare per realizzarci). Oppure ci accadono delle coincidenze significative che improvvisamente ci indicano la via. Sono le sincronicità. Jung elabora la teoria dello psicoide, per la quale eventi esterni e stati interiori possono coincidere. Pertanto se dentro di noi le cose non vanno, ci accade qualche evento che ci apre gli occhi. Un incontro fortunato. Una persona amica che ci dice la verità su di noi. Un incidente che ci avverte. E così via. Per Jung il fenomeno del religioso e dell’esoterico ha una stessa origine: è la mente umana che parla con noi stessi. Gli affetti tendono a relegarsi nell’inconscio e da lì ad apparire alla coscienza in forme che la coscienza scambia per autonome. Dalle rivelazioni pubbliche delle religioni monoteistiche alle correnti mistiche e alle rivelazioni private oppure esoteriche (dalle saṭḥiyyāt, le sentenze estatiche pronunciate in trance da esponenti dell’Islam non ortodosso, ai messaggi dalla Madonna di Fatima) fino alle operazioni magiche, sarebbe l’inconscio che si manifesta alle persone.

Per questo le religioni hanno così tanto seguito nella psiche collettiva. Sono modi diversi che la nostra mente inconscia adotta per indirizzarci lungo la via giusta. Sono millenni che gli ebrei seguono indefessamente le prescrizioni della Torah, i primi cinque libri della Bibbia, detta per l’appunto la Corona di Israele. Addirittura se chi trascrive un rotolo della Torah vi inserisce per sbaglio una consonante che non ci deve essere, quel rotolo va buttato in quanto considerato in ebraico pasul (da cui il nostro “fasullo”). Presso gli ebrei il rispetto verso la parola di Dio è talmente presente che, quando si è cominciata a perdere la corretta pronuncia delle vocali della Bibbia (l’ebraico segna solo le consonanti), i masoreti non hanno apposto indicatori di vocalizzazione accanto alle consonanti del testo biblico ma solo dei puntini e dei trattini soprattutto sopra e sotto (è il sistema del niqqud) per fare in modo che i rotoli risultino corretti. I masoreti iniziano la vocalizzazione verso il VI secolo, secondo vari sistemi, quando l’ebraico e l’aramaico biblici non sono più parlati, quindi per non far perdere la tradizione della vocalizzazione esatta. Ma originariamente, millenni prima dei masoreti, si sono poste delle consonanti (dette dai grammatici moderni matres lectionis) per indicare convenzionalmente le vocali lunghe (con lo scopo di ovviare alle ambiguità), che poi la tradizione non ha più tolto. I masoreti, per il gran rispetto della parola di Dio, non le tolgono ma vi aggiungono il loro segno vocalico. Il sistema masoretico tiberiense viene inventato totalmente dai masoreti riproducendo in qualche modo l’apertura della bocca nella pronuncia delle vocali corrispondenti, chiamate poi con radici semitiche esprimenti la stessa cosa. Per esempio Holam (la O lunga) deriva da una radice semitica che significa sia “essere sazio” sia “sognare” (ancora oggi si dice che chi mangia troppo a cena poi fa incubi) e deriva dal fatto che la O si pronuncia come se la bocca fosse “piena” di cibo. Un detto dei Chassidim, mistici ebrei, così recita: “Rabbi Uri disse: Le miriadi di lettere della Torah sono come le miriadi di anime di Israele. Se manca una lettera nella Torah, essa non è valida; così, se manca un’anima nella lega di Israele, la Shekhinah (Presenza di Dio) non posa su di essa. Come le lettere, anche le anime devono collegarsi e creare una lega. Perché è proibito che nella Torah una lettera tocchi la sua vicina? Perché ogni anima deve avere delle ore in cui è sola con il Suo Creatore”.

Nell’antichità più remota non esiste la scrittura privata, ma solo quella pubblica, riservata a occasioni solennissime, collegate alla religione e lo stato. È significativo che nella civiltà ittita, sorta nel II millennio a. C. nell’Anatolia centrale, il verbo in ittita, antica lingua indoeuropea, per “scrivere” è hatrai-, dalla chiara etimologia indoeuropea: deriva da una radice che significa “incidere”. I supporti scrittori sono anticamente le pietre perché hanno una funzione di rappresentanza ufficiale di qualcosa di importantissimo come il dio e le gesta del re (oppure le tavolette per le comunicazioni internazionali). Nel passaggio al I millennio la civiltà ittita perde l’uso della lingua ittita e adotta un’altra lingua anatolica, il luvio, espressa non più in cuneiforme ma in geroglifico. Il termine luvio per “scrivere” è pupala/i, letteralmente “incidere”. Anche il greco antico: graphein significa all’inizio “incidere” o “graffiare”. Troviamo nella fase più antica di questa lingua, dopo il miceneo, cioè il greco omerico: grapsen de oi osteon, “gli graffiò l’osso” (Iliade 17, 599). In seguito i significati delle parole entro l’ambito dello scrivere e del dire divengono sempre più “laici” e alla portata di tutti, ma accanto a logos (la parola razionale da dimostrare), c’è ancora in greco antico muthos (la parola da non dimostrare perché sotto l’autorità del dio). Nel cristianesimo Gesù è l’inviato di Dio, suo figlio l’Unigenito. La sua missione è quella di liberare l’uomo dal peccato e quindi dalla morte, facendolo entrare nella vita eterna. Agostino (In Evangelium Ioannis tractatus centum viginti quatuor 44, 2) ricorre a un delizioso gioco di parole: nisi enim ille fuisset missus, nemo nostrum esset ab iniquitate dimissus, “se egli non fosse stato inviato, nessuno di noi sarebbe stato disviato dal peccato”. Per questo scopo in duemila anni di storia la chiesa ha avuto alcuni ferventi adoratori del Mistero di Cristo, come i Padri del deserto, nella conduzione di una vita molto austera (secondo un detto il vero discepolo di Gesù deve indossare una veste talmente umile che, se lasciata tre giorni all’aperto, non deve suscitare la cupidigia di nessuno), accanto a una moltitudine senza numero di peccatori (per Giovanni Calvino la chiesa è una consorteria di preti perversi).

I musulmani hanno un rispetto talmente grande di Cristo, un profeta che apre la strada a Maometto, che il Corano non lo fa morire in croce: verrebbe sostituito da un sosia. Corano 4, 157 ha una espressione araba variamente interpretata dai dotti: shubbiha la-hum, “sembrò loro soltanto” di aver crocifisso Cristo, mentre Dio fa una astuzia e lo sostituisce. L’uomo ha una potente aspirazione al bene, che tuttavia non realizza mai pianamente nei fatti. Desiderando inconsciamente il bene, realizza nel suo immaginario cosciente il bene che vuole nel profondo e crea Dio, come vuole Feuerbach. Vale a dire un Dio buono. È una verità espressa in qualche modo anche nel Vangelo di Filippo: “Dio creò gli uomini e gli uomini crearono Dio”. Tommaso d’Aquino (Summa contra Gentiles I, 38) arriva a dire non solo che Dio è buono ma che è la stessa bontà: esse enim actu in unoquoque est bonum ipsius. Sed Deus non solum est ens actu, sed est ipsum suum esse … Est igitur ipsa bonitas, non tantum bonus, “in ogni cosa il bene consiste nell’essere attuale. Dio però non solo è una realtà esistente in atto, ma è lo stesso suo essere … Egli perciò non soltanto è buono ma è la stessa bontà”. Quasi tutte le religioni insistono molto sull’amore, verso Dio e verso il prossimo. È anche la dottrina Trikāya del Buddhismo, cioè dei Tre Corpi del Buddha: il primo corpo (dharmakāya) coincide con il Fondamento senza forma di tutto; il secondo corpo (saṃbhogakāya) è il più importante dei corpi formali, trasfigurato dalla illuminazione; il terzo corpo (nirmāṇakāya) è quello della apparizione fisica sulla terra. Ebbene, l’apparizione fisica del Buddha, per elevare gli uomini, è motivata dalla compassione. Il primo corpo è quindi la Deità immateriale e di cui nulla si può dire. Il secondo corpo è stato paragonato al Dio manifesto. Questi due aspetti della divinità sono i poli femminile e maschile. Anche nel Ṛg-Veda X, 129, 2 compare una dualità analoga: la Suprema Identità (tad ekam) è insieme “spirante e despirata” (ānīd avātam). Il Fondamento di tutto è di natura femminile perché sta alla base di ogni cosa, determinandola per amore, come fa una madre. Brahmasūra I, 1, 2: janmādyasya yataḥ, “dal quale il nascere di questo (mondo)”. È la fonte pre-causale di tutto: e anche della conservazione (sthiti) e della dissoluzione (pralaya).

Non per nulla nell’ebraico biblico il plurale rachamim, letteralmente “viscere materne”, indica l’amore misericordioso di Dio verso tutte le creature. Questo radicale semitico compare anche nella Basmala, la famosa formula all’inizio di ogni sura del Corano, tranne la IX: “Nel nome di Dio clemente e misericordioso”, bi-smi ‘llāhi al-Rahmāni al-Rahīmi. Sono stati scritti interi saggi dai dotti musulmani per cercare di capire la differenza tra questi due aggettivi sinonimi (il primo mutuato direttamente dall’ebraico, il secondo già presente nell’arabo di Mecca). Probabilmente formano insieme una formula ridondante per esaltare la misericordia di Allah. Nel Nuovo Testamento “Dio è amore”, o theos agapē estin (1Giovanni 4). Un corrispettivo greco abbastanza preciso di rachamim è il plurale neutro ta planchna, “viscere”: attribuito sempre a Cristo e al Padre, indica l’amore viscerale verso gli uomini. La conseguenza di questa sovrabbondanza di amore è espressa da Giovanni 13, 34: “un comandamento nuovo vi do: che vi amiate gli uni gli altri, ina agapate allēlous; come io ho amato voi, anche voi amatevi gli uni gli altri”. La negazione dell’amor proprio e dell’egoismo a favore dell’amore disinteressato verso gli altri è la base semantica del termine greco agapē secondo il nuovo significato attribuitogli nella letteratura cristiana antica. Pare strano questo connubio tra divino e umano sigillato dallo stesso tipo di amore. Ma non è estraneo alla Filosofia Perenne, per cui l’anima umana (precisamente il fondo dell’anima) coincide con Dio. Per l’induismo l’ātman individuale coincide con il Brahman. Per la dottrina ibnarabiana della waḥdat al-wujūd tute le cose coincidono con l’unico Principio. Addirittura nella letteratura indiana un tipo di asceta, detto Vrātya, è definito come l’Assoluto, Brahman. Forse per questo il sacrificio, fatto da uomini per gli dei, non si fa ma si continua: il sacrificio è una operazione ininterrotta, un continuo movimento (il sanscrito yajña, “sacrificio”, richiama l’altra parola sanscrita yañja, “movimento”), è potenzialmente eterno come eterni sono gli dei.

Già in un manoscritto di Qumran (4Q477), di possibile età erodiana, compare la frase ebraica wgm ’whb ‘t sjr bsrw, “e ha anche amato la sua natura carnale”. Non è chiaro a cosa si riferisca, gli studiosi hanno avanzato varie ipotesi: incesto oppure amore di un proprio consanguineo fino al punto di tralasciare di biasimarlo oppure anche l’amor proprio che impedisce al devoto di aprirsi alla virtù e all’amore della comunità.
Nel Buddhismo si parla dei quattro Māra, i quattro demoni che distolgono dal raggiungimento del nirvāṇa. Si possono considerare come personificazioni di quattro atteggiamenti erronei per i quali l’egoismo prende il sopravvento sull’amore disinteressato per il prossimo: skandha-māra (il demone delle cinque parti di cui è composto l’io individuale), klesa-māra (il demone delle passioni), mṛtyu-māra (il demone che uccide coloro che percepiscono con la mente individuale), devaputra-māra (il demone che ostacola coloro che cercano di distogliere sé stessi dal distacco dall’egoismo). In buona sostanza la nostra mente cosciente, centrata sull’Io egoistico, si struttura come una serie di identificazioni su aspetti marginali dell’esistenza: potere, denaro, successo, cose, amici, privilegi. A questo punto la nostra mente, dilaniata da aspetti non essenziali, che la snaturano nel profondo, vede l’emerge di ciò che la psicologia analitica chiama Mostri. Si tratta di messaggi dell’inconscio i quali ci indicano la vera via da seguire. Un mostro può essere un trauma, una malattia, un incidente, una nuova opportunità che ci inquieta. Noi siamo esseri relazionali che viviamo di amore disinteressato e non di oggetti che ingraziano solo il nostro egoismo. Questa esigenza profonda del nostro essere trova spazio certamente nelle religioni (un Dio buono che ci spinge ad essere come lui) e nei prodotti culturali (il mito dell’eroe, la fama del chirurgo che salva vite), tutti determinati dall’inconscio, ma anche nei mostri. Il mostro all’apparenza ci fa paura. Chi non è spaventato da una brutta malattia? Da un incendio? Da una morte improvvisa? Ma spesso ci accorgiamo che dopo lo sconcerto iniziale, il mostro inizia a comunicare il messaggio. Dopo un trauma riscopriamo le cose essenziali della vita e ritroviamo la pace. Dopo una ospedalizzazione riscopriamo la tranquillità, di essere stati amati e di essere in grado di amare gli altri. Jung mediante la tecnica della Immaginazione Attiva ci ha insegnato a interrogare i mostri della malattia mentale che vengono a visitarci per chiedere, mediante il supporto di un terapeuta esperto, cosa è venuto a fare. Non per nulla spesso gli spiriti e gli dei sono raffigurati come esseri mostruosi, con i corpi deformi, tre teste, e quant’altro. La mostruosità è una caratteristica generata dalla nostra psiche per dirci che quella entità venuta a visitarci è diversa dall’ordinario, è diversa dal mondo dei valori consueti centrati sull’egoismo, è insomma portatrice del messaggio da un altro mondo, quello degli archetipi dell’inconscio, che non si identificano con il mondo dell’egoismo.

Il mondo dei significati sociali, cioè della coscienza, è il mondo dell’ordine e dei valori illusori. Dioniso svolge la funzione archetipica di ricordare che l’ordine va stravolto. Nell’emergere della ebrezza e della follia, emerge il lato nascosto, l’Ombra, del nostro vero essere, che bisogna riconciliare per realizzarci veramente. Per questo Nietzsche scrive che con Dioniso si stringe di nuovo il vincolo tra uomo e uomo, e tra l’uomo e la natura. L’Origine pretende di riapparire: ciò che sembra un mostro è colui che ci salva. A questo punto esiste una verità della coscienza, dei ben pensanti, sociale, accettata dai più, dei puritani, insomma una verità relativa, espressione dei falsi valori egoici. Sulle pareti di Pompei è stato scoperto un distico che a volte si ripete. Admiror paries te non cecidisse ruinis, qui tot scriptorum taedia sustineas : “mi meraviglio, o muro, che tu non crolli sotto il peso di tante sciocchezze” (CIL IV 1904. 2461. 2487). Ma esiste anche una verità assoluta, espressione di una sapienza profonda, ancestrale, inconscia, archetipica. Non diciamo che Dio non esista in sé, ma dal momento che è pensato dalla mente umana, il concetto (e non la realtà pura!) che la mente umana ha di Dio non può non risentire delle dinamiche inconsce. Come mostra la psicologia analitica, anche quando l’uomo crede di essere oggettivo, fa proiezioni che gli sfuggono. L’osservazione altro non è che una proiezione che sfugge all’Io. L’uomo non ha una conoscenza assoluta di Dio né della realtà. L’uomo si approccia al reale mediante il filtro del concetto, che per l’appunto è “concepito” dalla mente. La mente ha la caratteristica di elaborare le informazioni derivanti dall’esperienza che si ha della realtà mediante schemi strutturali propri, influenzati dalle aspettative, dalla memoria dichiarativa e dalle dinamiche inconsce. Ora, si parla di conoscenza relativa, cioè che dipende da qualcosa, legata all’uomo stesso e non alla realtà pura. Ne consegue giocoforza che, se ogni uomo ha una propria mente, modellata in maniera unica dalle esperienze diversissime che fa sin da piccolo, la conoscenza relativa varia da uomo a uomo. Ragion per cui la conoscenza relativa che ognuno ha del mondo e di Dio, cioè la particolare e soggettiva visione del mondo, non è un dato universale.

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha dato alle stampe 30 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.

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