27 Aprile 2024
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Per gli esuli in patria la guerra non è mai finita

Nel suo bel libro “La mano mozza”, Blaise Cendras, il grande scrittore svizzero amico di Chagall, Modigliani e D’Annunzio, descrisse la guerra come un meccanismo infernale in cui: “si tira, si cade, si crepa, ci si rialza, si marcia e si rincomincia. Di tutte le scene di battaglia alle quali ho assistito, ho conservato solo l’immagine di un gran casino”. Da qui la volontà d’affrontare quell’immane prova con spirito picaresco, guascone, come fosse una grande beffa da giocare al nemico.  Cendras non millantava, la guerra l’aveva vista in faccia, combattendo nel 1914 con onore nelle fila della Legione straniera. Una scelta di cui andò sempre fiero e che spiega il suo disincanto amaro ma romantico e la sua netta distanza dal pacifismo di Remarque o di Hemingway.

Atmosfere e sensazioni che abbiamo ritrovato pienamente in “La guerra è finita”, il bel libro di Mario Michele Merlino e Roberto Mancini. Nel loro lavoro gli autori hanno voluto ricostruire la vicenda di due giovanissimi — Ludovico e Gaetano — che, all’indomani dell’armistizio, decisero di arruolarsi nella Decima Mas seguendo il principe Borghese. Una scelta forte comune a decine di migliaia di ragazzi del tempo e motivata — come hanno spiegato Mazzantini e Vivarelli, due testimoni del tempo — dall’amor di patria, in parte dall’educazione e dai contesti sociali, ma soprattutto dalla rabbia e dal gusto dell’avventura.

Tutto vero, ma vi in quella tensione ideale, in quella sfida meravigliosamente folle vi fu “qualcosa” di più. Merlino e Mancini non si sono accontentati (giustamente) di narrare il contesto bellico  — reso con giusta crudezza, la guerra, soprattutto se civile, non è mai bella cosa —,  ma hanno cercato di superare la cornice “giustificazionista” tipica di tanta memorialistica, individuando in quella decisione adolescenziale una visione politica complessa sostenuta da una rivisitazione critica del fascismo regime e della stessa Repubblica Sociale. L’operazione, pur impreziosita da stili di scrittura raffinati e materiali importanti, lascia però a tratti perplessi e alcuni passaggi forzatamente “ideologici”, sicuramente degni d’essere approfonditi in un saggio storico, penalizzano la freschezza del romanzo.

Decisamente più convincenti e coinvolgenti sono invece le pagine che descrivono il “dopo”, il destino amaro degli “esuli in patria”, dei “fascisti senza Mussolini”, con le loro angosce e i loro sogni. Nella seconda parte di “La guerra è finita”, i due autori offrono uno spaccato vivo e inedito di un mondo sconfitto ma ancora non rassegnato, sempre fiero e dignitoso. Ecco allora le storie intrecciate tra l’Argentina peronista e l’Italia del dopoguerra, la bieca repressione dei golpisti sudamericani e i pericolosi miraggi dei golpisti italiani, i sogni di rivincita, le tante, troppe contraddizioni e le inevitabili delusioni.

Tutto si conclude nell’evaporazione dello strambo progetto di Borghese, l’opaca ipotesi di un colpo di Stato militare appoggiato da giovani attivisti e veterani della Decima.  Una follia politica. Pagine ancora non scritte. Interrogativi sospesi.  Inquietanti. Con due sole certezze: la sincerità dei militanti (la carne da macello) e l’ambiguità (siamo gentili…) dei c.d vertici militari e dei capi “nazional-rivoluzionari”. Sull’atteggiamento degli altri soggetti coinvolti è meglio — almeno per il momento, ma qualche testimone potrebbe rompere il silenzio… — sorvolare.

In quella notte romana del 1970 tante cose avvennero. Poche degne di ricordo, di menzione. Mario e Roberto non fanno sconti: con l’alba — ed è il momento più forte del romanzo — gli impossibili propositi dei vecchi soldati e dei ragazzini in mimetica svanirono. Roma non era Algeri, non era Atene. I generali italiani rimasero prudenti, le maggioranze silenziose si rinchiusero nel silenzio, gli americani (certo, vi erano i servizi statunitensi a visionare i movimenti birichini delle nostre forze armate…) glissarono. Meglio così. Nessuno era all’altezza della sfida, nessuno (nemmeno Borghese) aveva le capacità di gestitire la settima potenza industriale dell’Occidente, nessuno voleva o/e poteva scatenare e sostenere una nuova guerra civile. Ma Ludovico e Gaetano non lo sapevano. Credevano. Obbedivano al loro Comandante. Punto e basta.

La Decima muorì, definitivamente, in quella mattina fredda.

Torniamo al romanzo. Il disastro del golpe mancato unisce — una volta ancora, per l’ultima volta — , gli ormai invecchiati ma non domi protagonisti del libro e segna il momento dell’addio. Defintivo, senza rimorsi, senza rimpianti.  Per Ludovico e Gaetano poco importa, alla fine, il risultato pratico, il fallimento o il successo. L’importante è  — ecco, ancora Cendras — la sfida, la beffa. A loro volta gli autori, Mancini e Merlino, con sensibilità non tracciano inutili bilanci, non fissano punti, ma offrono punti di riflessione sul nostro passato prossimo, sugli incerti futuri del nostro popolo. Fanno pensare. Sugli errori e le follie, sul coraggio.

Come i reduci della “guerra dei contadini”, la grande rivolta popolare nella Germania cinquecentesca, Ludovico e Gaetano (e con loro gli autori) potrebbero affermare con fierezza: «battuti torniamo a casa: combatteranno meglio i nostri nipoti».  Non tutto è stato vano.

 

Roberto Mancini e Mario Michele Merlino

LA GUERRA È FINITA

Ritter edizioni, Milano 2014

Ppgg. 270 euro 20.00

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