12 Aprile 2024
Politica Società

Parsifal. In nome del padre, del figlio e dello spirito virile. 1^ parte – Roberto Pecchioli

Femminicidio. Pensieri eretici. Ritornare all’Uomo.

Laura Pausini inizia il suo giro musicale per l’Italia: l’hastag relativo, inevitabile come il sudore estivo, è #iostoconledonne. Una banalizzazione corriva e promozionale dell’attuale dibattito sul cosiddetto femminicidio. Evito, per non irritare il lettore e me stesso, di riportare le alte considerazioni in materia di Madama Boldrina, la presidenta che declina tutto al femminile. La dico tutta: ne ho le tasche piene, di questo femminicidio e delle orchestre che, all’unisono, cantano la stessa canzone, quella dell’uomo violento e padrone, della donna indifesa, della necessità di introdurre nel codice penale aggravanti severe per chi commette reati della specie, e di tutte le banalità ricavate da trucioli  di sociologia per bar degli aperitivi (intellettuali e  signore, si sa, non frequentano il bar dello sport…).

Chi uccide deve essere punito con la severità dovuta agli assassini: esiste l’ergastolo, lo si applichi senza sconti, punto e basta. Uccidere la moglie, la compagna o la fidanzata non è in sé, più grave o  definitivo che sparare durante una rapina, per estorsione o qualunque altro dannato movente che spegne la vita altrui. La bibbia del politicamente corretto, Wikipedia, dedica almeno cinque pagine al concetto, descrivendo il femminicidio come il neologismo che identifica quei casi in cui una donna viene uccisa per motivi “basati sul genere”. Gli wikipediani vanno oltre, riportando le definizioni di eminenti dizionari come il Devoto Oli, secondo cui il termine designa “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”. Bum !

Ma qui casca l’asino, anzi cascano le litanie post moderne: il nuovo mostro che emerge dal buio del passato e da cui occorre liberare l’umanità femminile, anzi il “genere” oppresso che Simone de Beauvoir chiamò secondo sesso, è un prodotto ideologico, una costruzione messa a punto a tavolino per costruire una nuova antropologia, attraverso un ulteriore assalto a ciò che resta dell’uomo, anzi dello spirito e della visione virile del mondo.

Stiamo ai nudi fatti: la stessa Wikipedia, fonte non sospettabile di immonde pulsioni reazionarie, ci informa che i delitti della specie sono in diminuzione, citando fonti ufficiali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che si riferiscono ad osservazioni di ben 13 anni. I fatti hanno la brutta abitudine di tornare a galla, proprio come una certa cosa… Chi scrive ama la propria moglie, ha amato sua madre e tutte le altre donne che hanno dato senso alla vita: non ha mai usato violenza fisica e, spera, morale nei confronti di alcuna e, come dichiarato all’inizio, auspica la massima severità nei confronti di assassini e violentatori.  Tuttavia, non ci sta a partecipare ad una caccia agli orchi che ha come bersaglio non chi commette concretamente delitti odiosi, ma l’intero sesso maschile.

La verità è che, attraverso l’enfatizzazione mediatica di fatti – sempre troppo numerosi e ripugnanti per essere ignorati – si vuole mettere sotto accusa l’uomo in quanto tale, attribuendo ad una parte dei suoi istinti, ed in particolare alla sua sessualità, lo stigma indelebile dell’assassinio e della violenza, per colpevolizzare il re spodestato (guai ai vinti! come sapeva Brenno), promuovere un  altro dei mille aspetti della società non post patriarcale, ma apertamente post umana. La femminilizzazione della società ha raggiunto forme parossistiche, che debordano ormai nel diritto penale, attraverso la criminalizzazione sistematica di tutto. Le molestie sessuali sono odiose e vanno colpite, ma senza scambiare per reati eccessi o episodi di semplice stupidità, volgarità o maleducazione.

Ho letto che una persona è stata condannata ad una multa (dunque in sede penale) per avere definito su Facebook “milf” una collega d’ufficio. Premesso che, fortunatamente, il termine non è così conosciuto, si tratta del solito acronimo americano, tratto dal vocabolario dell’industria pornografica, e significa “madre che vorrei scopare”.  Ribadito il carattere di palestra per cretini e vigliacchi della piattaforma di Zuckerberg, credo che la giusta pena per l’autore fosse un paio di calci nel sedere per manifesta stupidità, ovvero, a scelta, una settimana di assistenza ad un infermo.

Il diritto penale, in questa società violenta nei fatti ma formalmente felpata, igienica, asettica e biodegradabile, gettata a mare la legge naturale a favore delle idee contingenti dell’uomo-Dio,  sta uscendo da binari secolari, e più ancora, dai principi dello Stato di diritto: non possiamo distinguere nei nostri giudizi il bianco dal nero, non abbiamo la facoltà di valutare con il metro della storia regimi passati da generazioni, né mettere in dubbio le cifre di un certo eccidio, posto che alcuni morti sono più degni di rispetto di altri, non possiamo affermare che il comportamento sessuale normale è oggettivamente migliore degli altri, non fosse altro che ai fini della riproduzione della specie, presto dovremo accettare che uccidere la propria compagna sia moralmente e penalmente più grave che ammazzare  un carabiniere durante un conflitto a fuoco, o sterminare una famiglia nel corso di una rapina.

Bertrand Russell, uno dei più geniali cattivi maestri del XX secolo, affermò che l’uso intelligente della psicologia di massa, se organizzato fin dalla fanciullezza, avrebbe convinto generazioni intere che la neve è nera.  A questo siamo: due uomini sono un matrimonio, un bimbo può essere prenotato e generato attraverso siringhe e uteri a tariffa, l’omicidio “semplice” è meno grave di quello di genere.

Riconosciuto in via generale l’imbroglio drammatico che ci stanno propinando con enorme dispiego di mezzi mediatici e disprezzo assoluto per le vite spezzate di tante donne, ridotte a statistica da analizzare con tassonomia, poi dissezionare con acribia per volgerne gli esiti a sostegno di una tesi precostituita – il femminicidio come insorgenza o rigurgito della società maschilista – occorre  un’analisi del fenomeno obiettiva, che non tema l’impopolarità o addirittura la dannazione preventiva, ma che sappia altresì riconoscere  i limiti, le debolezze, il degrado imbarazzante dei maschi contemporanei, noi stessi.

L’uomo è il grande perdente della contemporaneità: dopo migliaia di anni, il suo mondo, quello del “logos” greco, dell’ordine instaurato a partire dal principio di non contraddizione di Aristotele è in crisi da almeno tre generazioni, da quando il maschio bianco occidentale ha universalizzato i principi che, precedentemente, riteneva valessero per la sua civiltà, ritenuta la più avanzata e perfetta, e da quando la scienza, attraverso la tecnologia, ha destituito d’importanza la forza fisica, ed elevato la ragione economica ad ethos della modernità.

Nel tempo, riservata agli uomini la gestione “alta” dell’economia e degli affari, la donna, cui per la prima volta veniva riconosciuta l’uguaglianza giuridica, è entrata con forza nelle professioni educative, a cominciare dall’insegnamento medio e superiore, contemporaneamente al ritrarsi da esse delle migliori energie maschili ed al fuoco incrociato contro la figura del padre. Fu la scuola di Francoforte ad aprire le ostilità, ed Herbert Marcuse a fornire le pallottole per ri-costruire un mondo liberato dalle cosiddette costrizioni sessuali (Eros e Civiltà), nemico della “personalità autoritaria”, primo evangelo del nascente movimento di liberazione della donna. Il nefasto mix di marxismo in salsa borghese, freudismo e femminismo è stato la bomba atomica contro la quale nessuno ha reagito, a partire dalla cultura cattolica. L’attacco alla famiglia ha destituito il padre, umiliandolo al ruolo di animale da riproduzione (in attesa delle biotecnologie) e poi di bancomat per le esigenze dei figli.

E’ purtroppo vero che un gran numero di padri, cui tale qualifica andrebbe rifiutata, hanno largamente approfittato della nuova situazione, con criminoso menefreghismo: assenza, indifferenza nei confronti dei figli, delega in bianco alle madri ed alle agenzie pubbliche (scuola, oratorio, associazioni sportive) per l’educazione. Risultato: una società senza padri, educata solo da donne, con i valori ed i principi tipici dell’universo femminile, in cui i giovani uomini sono confusi, in bilico tra istinto e nuovi divieti, senza una figura di riferimento del proprio sesso. Il padre è stato sempre la legge, colui che indicava, spesso senza parlare, ciò che si poteva o non si poteva fare, e che insegnava, non di rado in maniera brusca, ma necessaria, il valore del no, del divieto, del rinvio. Quel rinvio che, nella sfera sessuale, è l’elemento basilare della condizione umana – diversa da quella animale – e che il pansessualismo di Freud, specie nelle declinazioni francofortesi e poi dei francesi (Deleuze, Guattari, l’Anti Edipo, Bataille, lo stesso Sartre), o nei deliri alla Wilhelm Reich, proibisce come innaturale.

Troppe madri poi, intrattengono con i figli maschi rapporti di reciproca dipendenza. Da un lato, il desiderio morboso della cura, della protezione, di concedere, di “dialogare”, dall’altro il cordone ombelicale che non si stacca, la distorta convinzione che le altre donne, specie le fidanzate, siano delle madri di complemento, o che comunque si possa chiedere loro attitudini o comportamenti che sono – esclusivamente- quelli materni, a partire dall’esserci sempre, di dare ragione comunque, di accettare qualsiasi cosa. Non è così e non deve esserlo. Ma, in assenza, ormai, anche di fratelli maggiori, dove sono i padri che spiegano la differenza, che “narrano” con la loro stessa vita il bene e ciò che non lo è? Esiste un trauma del rifiuto che è la storia della vita di chiunque di noi, e che si inserisce nella scoperta – che è una iniziazione all’essere adulti – che gli altri sono diversi da noi, pensano in modo autonomo e spesso opposto ai nostri desideri.

Il bambino non lo sa, è capriccioso e talora insopportabile per quella sua vocazione tirannica e individualistica. Crescere è appunto liberarsene, con l’aiuto dei genitori, e prendere atto con stupore che ognuno è diverso da tutti gli altri e le ragazze o le donne hanno un mondo interiore distinto da quello maschile. Errato è stilare graduatorie, indicare il primo ed il secondo: semplicemente, così è. La natura del maschio è certamente più territoriale, proprietaria più che possessiva (quello è femminile, credo) e nei sentimenti questo cela una fragilità che può diventare sgomento  dinanzi al non conosciuto, al non creduto possibile, al rifiuto.

Se nessuno mi ha insegnato a vivere, a capire, se nessuno mi ha addestrato alle sconfitte (ma come si fa, in un mondo dove dobbiamo essere vincenti, performanti, belli, giovani, attrattivi?), se nessun padre mi ha guidato nel labirinto della vita, limitandosi ad aprire il portafogli e dire “mi raccomando”, cioè nulla, e mia madre non ha scacciato di casa quel tirannello intollerante, piagnucoloso e insensato che ero da bambino e nella pubertà, anzi ne ha assecondato i capricci e mi ha dato ragione anche nel torto marcio, ben difficilmente avrò un rapporto normale, conflittuale, dialettico, ma sereno con la ragazza con la quale esco. Diventerò gelosissimo, perché sono insicuro  e l’ansia da prestazione attraversa tutta la mia vita, non solo la sfera sessuale, esclusivo ed ombroso, vorrò sempre di più, perché lei è “mia”. Nessuno mi ha spiegato che la vita non funziona così, anzi tutti hanno favorito i miei comportamenti, le bizzarrie o i ghiribizzi. Nessuno mi ha dato una legge, e legge è anche il limite, il punto oltre il quale non si deve andare, quindi non sono preparato ad accettare l’alterità, quella condizione il cui riconoscimento per Emmanuel Lévinas  è il valore etico più elevato.  L’alterità femminile, poi, quella di colei che amiamo con sincerità, ma spesso con modalità non dissimili da quelle che riserviamo alla nostra automobile od allo smartphone di ultima generazione, ci proietta in un mistero insondato ed insospettato, quello dell’animus e dell’anima di cui parlava Jung,

Nei casi più comuni, troppi giovani e molti mariti vivono con angoscia separazioni ed abbandoni, con conseguenze gravi di natura comportamentale o psicologica, i più deboli e quelli più portati alla reazione violenta agiscono. Prima pregano ed insistono, senza comprendere che la donna, quando ha deciso, è irremovibile davvero, e che il loro comportamento, che è quello rabbioso del bimbo che supplica e intanto odia chi gli ha tolto qualcosa di suo, innesca il disprezzo femminile. Il finale, troppo spesso, è quello delle percosse o addirittura dell’omicidio. Poi si pentono, piangono disperati perché l’oggetto (non la persona!) non c’è più e perché, a posteriori, realizzano come in uno squarcio le conseguenze delle loro condotte: processo, carcere, distruzione della vita loro e di ciò che resta della famiglia.

Credo che il primo a comprendere in tutta la sua portata storica il tipo umano, specie maschile, di cui stiamo parlando, sia stato, una volta di più, José Ortega y Gasset, nella Ribellione delle masse, quando tratteggiò e descrisse il “signorino viziato”, l’essere senza passato e senza futuro, lamentoso e pieno di pretese, incapace di andare oltre desideri, pulsioni, orizzonti materiali, incurante dei perché, gettato nel mondo della vita, agito dalle cose. Maurizio Blondet lo ha chiamato selvaggio con telefonino. Oggi sappiamo che può essere anche un assassino, poiché non comprende nulla del livello delle sue azioni, della portata dei gesti che compie come un automa senza libretto delle istruzioni.

A livello sociologico, antropologico e persino storico filosofico, va compreso per rimuovere la sua figura. Sotto il profilo individuale, va invece ribadito il principio responsabilità. Le colpe, molte colpe, sono della società invertita in cui si muove il signorino viziato, selvaggio che non conosce neppure la sua forza fisica, perché gli proibiscono di esprimerla, sublimarla e scaricarla nei gesti e nelle attività dei suoi genitori (oh l’orrore, l’orrore del Cuore di tenebra di Conrad, nell’incomprensione di madri, maestre, psicologhe, professoresse, operatrici sociali). Ma ci è stato dato l’intelletto ed il libero arbitrio. La grande cultura greca e cristiana ci ha insegnato che possiamo, per umana natura,  distinguere il bene ed il male, e una coscienza orientata  ci indica il bene: nessuna giustificazione del tipo di quelle delle narrazioni post 1968, secondo cui le colpe sono sempre altrove.

Però, è necessario ribaltare un mondo, invertire l’inversione, riportare il padre al centro delle vite, recuperare e rivalutare i valori maschili, tra i quali c’è l’ideale cavalleresco, che è donazione di sé, difesa dei deboli, altruismo, rispetto profondo della donna. E’ urgente ritornare a Parsifal e mettere da parte Don Giovanni. Volgersi ad Itaca, con Ulisse che ristabilisce la legge sconfiggendo i signorini viziati dell’epoca, i selvaggi con arco e frecce chiamati Proci. Ci vogliono però figli come Telemaco e donne come Penelope, e probabilmente combattenti come Ettore, di cui, immagino, non sia più santo e lagrimato il sangue per la patria versato (chi glielo ha fatto fare, direbbero le maestrine pacifiste con il drappo arcobaleno e la scritta lasciateci in pace), mogli e madri come Andromaca, sorelle come  Antigone. Di donne come Elena di Troia o la maga Circe, ce ne sono troppe.

Nei prossimo intervento tenterò di parlare di spirito virile, della necessità del recupero dei suoi valori più elevati, attraverso la figura di Parsifal, di Faust, del Principe Mishkyn, e l’iconografia del Cavaliere, la Morte, il Diavolo di Albrecht Duerer.

2 Comments

  • Ezio Polonara 2 Dicembre 2016

    Ma che bell’articolo! I miei complimenti all’autore….

  • Ezio Polonara 2 Dicembre 2016

    Ma che bell’articolo! I miei complimenti all’autore….

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