14 Maggio 2024
Eran fatti così...

Nasce la Repubblica Sociale

La rocambolesca liberazione di Mussolini dal Gran Sasso fu determinante per le vicende dell’Italia dopo l’8 settembre: il Fascismo aveva di nuovo il suo indiscusso e carismatico Capo. Mussolini era sicuramente un uomo avvilito dalle vicende della guerra e del suo arresto, ma nei suoi occhi si riusciva ancora ancora a cogliere la forza e l’orgoglio di un tempo. Il 13 settembre, subito dopo la liberazione fu condotto a Monaco dove lo aspettavano la moglie e i figli; senza troppi tentennamenti, il giorno successivo era già ricevuto al Quartier generale di Hitler presso la “tana del lupo” di Rastenburg, dove incontrò anche Farinacci, Pavolini, Ricci, suoi fedeli gerarchi.

Mussolini indubbiamente non si sentiva più lo stesso, ma amava il suo Paese e aveva messo gli interessi del popolo sempre davanti ai propri, perciò decise di dare vita alla Repubblica Sociale Italiana, di dare cioè una continuità e una legittimità al suo Governo frapponendosi come un “cuscinetto” fra i Tedeschi e la popolazione civile, si preoccupò di tenere così sotto la sua giurisdizione le zone produttive del Nord e di salvare le fabbriche.

L’incontro tra i due alleati che si erano salutati con grande affetto, durò qualche ora; lo stesso Goebbels scrisse che si era commosso davanti al loro fraterno abbraccio “un esempio di fedeltà tra uomini e camerati…”. Hitler conservava per il suo alleato un vero e profondo attaccamento e questo andava contro certe mire tedesche verso alcuni territori italiani. Sempre Goebbels annotò nel suo diario “Per quanto io sia commosso dal lato umano della liberazione del Duce, sono tuttavia scettico per quanto riguarda i vantaggi politici. Finché il Duce era fuori scena, potevamo avere le mani libere in Italia. A me sembrava che, oltre al Tirolo meridionale, il nostro confine avrebbe dovuto includere le Venezie. Ciò sarà difficilissimo nel caso che il Duce rientri nella vita politica”.

La sera del 18 settembre Mussolini parlò dalla radio di Monaco e la sua voce fu finalmente riascoltata in Italia. “Camicie nere, Italiani e Italiane…”. Fu l’inizio di un lungo e sofferto discorso che Mussolini rivolse al suo popolo. Si disse amareggiato del tradimento subito, quando dopo aver servito per oltre vent’anni con assoluta lealtà il re, si era visto imprigionato con l’inganno. Ringraziò Hitler per la sua sempre dimostrata fedeltà, accusò con tutte le forze i Savoia che “avevano voluto e preparato in ogni dettaglio un colpo di Stato per destituirlo con la complicità di Badoglio e di altri generali vigliacchi oltre che di alcuni elementi imborghesiti del Fascismo”.

NASCE LA REPUBBLICA SOCIALE

Con voce stentorea chiarì agli Italiani i punti su cui si sarebbe basato lo Stato che egli stava instaurando: “Sarà nazionale e sociale e sarà Fascista nel senso delle origini!”

Le priorità erano riprendere le ostilità a fianco della Germania e del Giappone, riorganizzando al più presto le Forze Armate. Andavano eliminati i traditori e soprattutto annientato il predominio politico dei ricchi, dei finanzieri, andava restituito il potere al popolo e si doveva fare della forza lavoro la “base infrangibile dello Stato”.

Nel giro di pochi giorni fu formato il nuovo Governo con Domenico Pellegrini al Ministero delle Finanze, Buffarini Guidi all’Interno, Fernando Mezzasoma alla Propaganda e Cultura, Carlo Alberto Biggini all’Educazione Nazionale, due militari Legnani e Boito rispettivamente alla Marina e all’Aeronautica, Pavolini fu nominato segretario del Partito e Francesco Maria Barracu sottosegretario alla Presidenza. Restava da decidere l’assegnazione del Ministero della Difesa e della Guerra. La richiesta fu rivolta al Generale Graziani che negli ultimi anni si era ritirato nella sua tenuta. Fu Barracu a farsi latore dell’invito di Mussolini e dopo qualche perplessità, Graziani accettò l’incarico per dimostrare che non era un vigliacco, come molti lo avevano dipinto né, alla luce degli ultimi eventi, un traditore del Fascismo.

Il 23 settembre il Duce rientrò in Italia e, a Rocca delle Caminate, proclamò ufficialmente la nascita della Repubblica Sociale Italiana.

Nel mese di novembre, a chiusura del Congresso di Verona, si arrivò all’approvazione di “Diciotto Punti” che contenevano l’anima del pensiero fascista repubblicano. Idee rivoluzionarie che conciliavano le necessità del singolo e della collettività nel pieno rispetto della libertà e della dignità umana. Un documento che tendeva alla promulgazione di leggi di ispirazione chiaramente socialista, quali l’abbandono delle corporazioni in favore di una Confederazione nazionale del lavoro, forme avanzate di legislazione sociale, la cogestione nelle imprese, la distribuzione degli utili e la nazionalizzazione delle industrie di importanza strategica, senza venisse leso però il diritto all’indipendenza per i lavoratori autonomi e il sacrosanto diritto alla proprietà privata esteso con la formula del riscatto agli affittuari delle case dell’Ente Nazionale per le case del popolo.

“La Rivoluzione Fascista si era fermata, a suo tempo, davanti a un trono. Gli eventi vollero che la corona espiasse con la sua caduta il colpo mancino tirato al regime e il delitto imperdonabile commesso contro la Patria. Questa non può risorgere e vivere che sotto le insegne della Repubblica”(Mussolini).

Chi furono coloro che aderirono alla chiamata di Mussolini?Ottobre1943.i volontari repubblicai, ricevuto l'equipaggiamento, si schierano in attesa di

Senza dubbio gli entusiasti, quelli che nel fascismo avevano fede cieca, i giovani che erano cresciuti con i valori e gli ideali che il fascismo aveva trasmesso agli Italiani, persone votate all’estremo sacrificio per difendere l’onore. Fra questi figurano anche personaggi inaspettati come Nicola Bombacci, comunista e Carlo Silvestri, deputato socialista.

“E’ sui fatti che bisogna basare i giudizi, non sulle notizie diffuse dai “bollettini” della lotta clandestina, dove furono definiti eroici anche gli assassini di Giovanni Gentile, e sulle accuse sostenute in processi dove i testimoni falsi si contarono a centinaia. (Dal libro Mussolini, Graziani e l’antifascismo di C.Silvestri)

Nicola Bombacci era stato nel 1921 fra i fondatori del Partito Comunista italiano. Era nativo di Civitella di Romagna, una località poco lontana da Predappio il paese del Duce, anche lui era maestro elementare e socialista, ma essendo un estremista, ben presto si era dissociato dalla linea del partito e unito a Gramsci nella sua avventura. Si poi era recato in Russia, dove aveva visto trionfare il bolscevismo e conosciuto Lenin che in un’occasione gli disse: “In Italia c’è un solo socialista capace di guidare il popolo verso la rivoluzione ed è Mussolini!”

Bombacci pur militando nel PCI continuava a nutrire stima verso il suo conterraneo, e auspicava una terza via che potesse congiungere i due nazionalismi rivoluzionari quello fascista e quello comunista. Sostenitore di queste teorie, nel 1927, era stato espulso dal PCI e si era avvicinato al fascismo. Nel ’36 scriveva dalle pagine de “La Verità” ho fatto una grandiosa rivoluzione sociale, Mussolini e Lenin, Soviet e Stato Fascista Corporativo, Roma e Mosca. Molto dovremo rettificare ma nulla di cui farsi perdonare; oggi come ieri ci unisce lo stesso ideale: il trionfo del lavoro”

Con la proclamazione della Repubblica Sociale, Nicola Bombacci vide finalmente risorgere il vero Mussolini rivoluzionario, i funzionari, i burocrati, i dirigenti provenienti dai ceti sociali privilegiati se l’erano data a gambe e non perse l’occasione per accorrere al fianco del vecchio amico e per dare tutto il suo appoggio alla nascita di quello Stato dei lavoratori per cui avevano già combattuto insieme ai primi del novecento.

“Il Papa rosso” come era soprannominato Bombacci rimase fedele al Duce fino all’ultimo giorno, gli stette accanto serenamente fino all’ultima ora e come lui fu passato per le armi proprio dai partigiani comunisti e appeso per i piedi a Piazzale Loreto.

Aderirono alla Repubblica Sociale anche intellettuali, professori, professionisti che intendevano con questo gesto, senza farne una questione politica, prendere le distanze dal tradimento messo in atto da Badoglio. Erano persone come il prefetto Zerbino, il filosofo Gentile, come il futurista Marinetti, Giovanni Brugi dell’università di Siena, lo scrittore Ardengo Soffici, giornalisti di fama come Amicucci e Pettinato, non posso citarli tutti, ma costituirono un gruppo importante e in molti casi pagarono la loro scelta con la vita.

“Dalle narrazioni raccolte emergeva un bizzarro campione di umanità; accanto alle camicie nere più fanatiche, e a chi ricopriva cariche politiche di diversa importanza, c’erano il farmacista, il droghiere, l’impiegato comunale, la levatrice, la maestra, il ferroviere. Tutta gente che si immagina ben lontana dall’iconografia classica dello squadrista feroce, ma che pure voltava le spalle ad un popolo in festa per la fine di un’occupazione tremenda, andando dove era la Repubblica di Salò…”
(Andrea Rossi-”Fascisti toscani nella Repubblica di Salò”- Pisa 2006)

Subito dopo la nascita della RSI, si rimise in moto la macchina dello Stato, con grande efficienza e sforzo organizzativo furono trasferiti al nord i Ministeri con il personale addetto, gli archivi, le attrezzature e si riaprirono un po’ dovunque le Federazioni fasciste. A Bologna fu Giorgio Pini il direttore del Carlino a farsene promotore insieme al rettore dell’Università Coppola, ma la città che più di ogni altra ripristinò l’organizzazione in breve tempo fu Ferrara, roccaforte del Fascismo fin dai tempi di Italo Balbo quando, nel 1922, si contavano nella provincia oltre diecimila fascisti e circa sessantamila lavoratori iscritti nei sindacati nazionali del PNF, quasi tutti braccianti.

Ferrara da sempre contava più fascisti dell’intera Lombardia. Una città che, col suo circondario, aveva ottenuto grandi benefici durante il ventennio: bonifiche, opere pubbliche importanti avevano creato sicurezza, occupazione e reso migliore la vita dei suoi abitanti. La popolazione, sconcertata, incredula, dopo l’8 settembre non era scesa in piazza come da molte altre parti, ma era rimasta ad attendere con fiducia e quando i tedeschi arrivarono in città, trovarono già aperta le sede della Federazione.igino ghisellini

Il Federale era il maggiore Igino Ghisellini, ferrarese, aveva tre lauree, un uomo molto colto con grandi doti personali e professionali. Era stato volontario nel primo conflitto mondiale come ufficiale degli Arditi. Poi Squadrista della prima ora, quindi aveva preso parte alla guerra d’Africa, e alla guerra civile spagnola. Fino all’8 settembre aveva combattuto con onore guadagnandosi tre medaglie d’argento e due di bronzo, dimostrando sempre coraggio e fermezza, ma era anche un uomo equilibrato e sapeva mediare. In poche settimane sotto la sua guida la sede di Ferrara fu la più forte e la meglio organizzata di tutta la RSI. Nessuno si era defilato dopo la caduta di Mussolini, in breve tempo tutti i vecchi fascisti si iscrissero di nuovo al partito e la città estense offrì all’esercito repubblicano ben diecimila giovani volontari e un numero di iscritti inferiore in Emilia solo a Bologna. Sotto il suo mandato Ferrara fu una città tranquilla, nessuna repressione e il Federale cercava sempre il dialogo con tutti anche con quei pochi antifascisti che alla caduta di Mussolini avevano costituito il CLN locale. Indisse una riunione con i rappresentanti più autorevoli alla quale non volle partecipare il comunista Farolfi e durante la quale si stabilì di convivere in pace senza spargere sangue fratricida. In quello che fu sicuramente un incontro fra persone oneste che sapevano anteporre l’interesse della città a ogni altra aspirazione politica, si decisero inconsapevolmente le sorti di tutti i partecipanti. L’incontro non era stato digerito dai comunisti che vedevano nel serbatoio ferrarese una buona risorsa umana per il loro partito.

Infatti, poco tempo dopo, Ghisellini, mentre si allontanava da Ferrara diretto al congresso di Verona, la sera del 13 novembre 1943, fu freddato a colpi di pistola. La reazione dei fascisti fu immediata e il giorno 15 vennero giustiziati, per tale agguato, undici antifascisti del CLN, colpevoli di aver interrotto la tregua.

I comunisti erano rimasti fuori da ogni disputa, non avevano perso un uomo e avevano ottenuto quanto auspicato. Per anni sostennero che la morte di Ghisellini fosse dovuta a una “faida interna” al partito fascista e le morti che, per conseguenza, essi avevano volutamente provocato furono la loro bandiera di antifascismo.

In realtà gli stessi comunisti, più tardi, confessarono l’intento di scatenare la rappresaglia per scuotere la città , per creare una reazione nella popolazione “dormiente” e così fedele al regime. Questo però venne appurato, dopo varie inchieste, soltanto nel 1983 come racconta così bene Pisanò nel suo “Sangue chiama sangue”, quando la vulgata comunista ancora faceva largo uso della terminologia “faida interna” per coprire gli orrendi crimini da loro commessi.

La prova del macabro disegno perpetrato dai comunisti è che le prime vittime successive a Ghisellini, furono allo stesso modo scelte per creare rappresaglie e reazioni nei cittadini: nel dicembre 1943 toccò ad Aldo Resega Federale di Milano, il 25 gennaio 44 fu la volta di Eugenio Facchini, Federale di Bologna poi il 10 febbraio infine, ma non ultimo, toccò ad Arturo Capanni, federale di Forlì.

Tra la fine del 1943 e gli inizi del 1944 furono molti i fascisti uccisi dalle squadre comuniste che a volte ottennero la sperata reazione di rappresaglia. Chi pagò furono spesso civili innocenti che cercavano soltanto di sopravvivere senza essere coinvolti in quella che stava diventando una guerra civile. In realtà la tanto auspicata insurrezione popolare non ci fu mai ed è legittimo dunque pensare che se i comunisti non fossero intervenuti con azioni terroristiche, molte inutili morti si sarebbero evitate.

“Dei diciannovemila fascisti uccisi fra l’ 8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, dodicimila furono eliminati dai “gappisti” in azioni individuali. “ ( G.Pisanò)

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