10 Aprile 2024
Appunti di Storia

ASPETTANDO LA RIVOLUZIONE: Ugo Pepe offre la sua vita (Milano, 24 aprile 1922) 2^ parte – Giacinto Reale

“Ferito all’osso frontale da proiettile di moschetto, fasciata sommariamente la ferita, e ripresa l’arma, ritornava nel vivo della mischia, concorrendo in maniera notevolissima, col suo indomito coraggio e magnifico esempio, al completo successo della grave situazione”.

(Motivazione della medaglia concessa dal Fascio veneziano a Pepe, dopo la spedizione su Treviso)

C’è molto spirito di emulazione anche nella sua decisione, nella notte tra il 12 e il 13 luglio del 1921, di partecipare alla spedizione su Treviso (che poi si protrarrà fino al 14, con una vera occupazione della cittadina), dove social-comunisti, repubblicani e popolari insieme rendono la vita difficile ai pochi fascisti, grazie anche alla presenza tra loro della carismatica figura di Guido Bergamo, già fondatore “pentito” del Fascio di Bologna, nel 1919.

Qui parleremo solo del ruolo avuto in quelle giornate da Ugo Pepe, perché non è questo il luogo per fare la cronaca minuta di scontri sanguinosi, devastazioni di giornali antifascisti e sedi di Partito e sindacali, che si sovrappongono alla memoria di episodi divenuti, all’epoca, famosi, come quello verificatosi nel corso dell’assalto alla sede del Partito repubblicano, difesa da alcune centinaia di uomini bene armati.

Quando i locali sono espugnati dagli squadristi, in una stanza, affidati alle cure di due loro compagni, vengono trovati due feriti, Alvise Pavan e il ventiseienne Capitano Mozzoni, già Comandante di un Battaglione Arditi, decorato con tre medaglie al valore. E qui accade ciò che potrebbe sembrare incredibile, come pare credere l’Autore del brano che segue, costretto comunque, ad ammetter la realtà dei fatti:

 

Uno dei Comandanti fascisti, il Capitano Parolini, ex Ardito e compagno di guerra del ferito repubblicano Capitano Mozzoni, alla vista dell’amico valoroso combattente e decorato al valore, sentì tutta la gravità del momento. Questo capo fascista è decritto abbracciare con le lacrime agli occhi l’avversario ferito. Non sappiamo quanto di autentico ci sia in questo episodio dal sapore romantico: resta un dato certo, e cioè che i feriti furono rispettati, anzi furono trasportati con un camion (certamente fascista) a Villa Bianca, la clinica del prof. Grollo, dove Pavan subì l’amputazione dell’avambraccio destro. (1)

 

Egualmente farà scalpore l’avventura che, ad occupazione finita, vedrà protagonisti due ex fiumani molto sui generis, fino ad allora in piazza con le squadre fasciste: Giovanni Comisso e Guido Keller. Essi, che il 13 e il 14, al loro solo apparire, si sono posti al centro dell’attenzione, festeggiati in particolare dai molti presenti che con loro erano stati agli ordini di d’Annunzio, rimasti in città dopo la partenza dei fascisti, sono protagonisti di un curioso episodio, che vale la pena raccontare, perché può darci anche una traccia delle idee di Pepe, che in quell’ambiente veneto si formò, e non potè non subire il fascino di tali personaggi:

 

Arrivati a Treviso, mentre si passeggiava verso una delle porte della città, sentivo che qualcuno ci seguiva, poi ci sorpassava, ci guardava, e ritornava indietro. Lo dissi a Keller, ma continuammo a parlare di fantasiosi progetti per l’avvenire, poi si andò alla casa della mia amica Nevra Garatti. Poco dopo venne suo padre, che di sotto aveva un’osteria, spaventato perché i rossi volevano incendiare la casa, sapendo che v’eravamo noi. Scendemmo: la strada era fitta di gente che, nel vederci apparire, gridò che avevamo comandato le squadre dei fascisti. A quelle grida Keller rispose andando diritto verso il gruppo più agitato, e disse forte: “Vengano fuori i capi”.

Vi fu un attimo di silenzio, uno quasi timidamente rispose che non ve n’erano. Keller replicò: “Andateli a cercare, io sono un capo, e parlerò solo con i capi”.

La stessa voce rispose servile che lo avrebbe fatto subito, tutti sembravano incatenati allo sguardo di Keller. Poco dopo, un altro venne a presentarsi come capo di quella gente, e Keller lo invitò a salire dalla mia amica. Keller prese allora a parlare di popoli oppressi e di popoli oppressori, della necessità di una rivolta mondiale contro le nazioni capitalistiche. Disse che si doveva rinnovare tutta la civiltà europea, ma prima bisognava rivangare profondo, distruggere dalle fondamenta la vecchia Europa, invitare i barbari a scendere dalla Moscova per portare un nuovo angue all’esausta Europa, e altro di cui si discuteva a Fiume.

Il capo dei rossi si faceva sempre più timidamente attento, e quando Keller pareva avere finito, disse: “Senta, signor Keller, io ho a mia disposizione nella provincia duemila organizzati, li offro a lei per fare quello che si deve”.

La Garatti e io si stentava a non ridere, e Keller, togliendosi la sigaretta dalle labbra, guardando fisso in avanti: “Grazie – disse – ma io dipendo dal Comandante d’Annunzio, comunicherò la vostra offerta”. (2)

 

Il messaggio, infatti, sarà affidato a Federico Florio, al quale abbiamo dedicato il primo articolo di questa serie dedicata al 1922, ma il Comandante non risponderà.

Lo spirito, comunque, come si vede, è ancora tutto “fiumano”, e comprende, nelle due giornate dell’occupazione della città, continue gare di coraggio tra i partecipanti, alle quali non può e non vuole sottrarsi Ugo. Quando sarà il momento dell’azione, farà la sua parte.

Alle ore 4 del pomeriggio del giorno 13, gli squadristi provano l’assalto alla sede del Partito repubblicano, incontrando, però una forte resistenza da parte degli uomini armati asserragliati all’interno. È allora che:

 

Alcuni fascisti, i più audaci, cercano, dalla parte di via Avogari, come narra anche il Vicentini, di portare un tubo di gelatina sotto il portone col proposito di farlo saltare. Tra i fascisti si distingue per decisione e coraggio lo studente veneziano Ugo Pepe, ma l’operazione dinamitarda fallisce, perché i difensori repubblicani, a corto di munizioni, lanciano da una finestra contro gli assaltatori, un pesante attrezzo d’ufficio, una copialettere a mò di missile.

In un secondo tentativo, non riuscito, di far saltare il portone, il Pepe riceva sulla fronte una pallottola che gli provoca tuttavia solo una lieve ferita. (3)

 

Lieve o no che sia stata la ferita, il gesto di audacia resta, e per questo, oltre che per il suo complessivo comportamento, gli viene assegnata l’unica medaglia, d’argento al valore, del Fascio veneziano, consegnata da Giovanni Giurati, con la seguente motivazione:

 

Ferito all’osso frontale da proiettile di moschetto, fasciata sommariamente la ferita, e ripresa l’arma, ritornava nel vivo della mischia, concorrendo in maniera notevolissima, col suo indomito coraggio e magnifico esempio, al completo successo della grave situazione. (4)

 

Per una singolare coincidenza, il ferimento di Pepe si incrocia, praticamente nelle stesse ore, con un altro grave episodio di cui è vittima un altro giovane squadrista del Fascio veneziano, il diciottenne Annibale Foscari, anche egli assente all’appuntamento bellico per motivi anagrafici, ma poi volontario a Fiume, e camicia nera a Firenze dove si è trasferito per motivi di studio.

Destini incrociati, ma all’incontrario: Pepe, che può considerarsi milanese, viene ferito mentre fa la sua battaglia nelle squadre del fascismo veneziano, Foscari, veneziano, va incontro alla morte a Firenze.

Egli, la sera del 13 luglio (in verità, da qualche parte si dice il 14: la solita incertezza sulle date), si trova a passare per via dei Pilastri, con alcuni camerati, quando, all’altezza di via Farini, ode un odioso canto, che è però gli è ben noto:

“Hanno ammazzato Giovanni Berta

Figlio di pescecani

Beato il comunista

che gli tagliò le mani”

 

Il riferimento degli ignobili versi è a Giovanni Berta, aggredito il 28 febbraio dello stesso anno sul Ponte Sospeso da una turba inferocita, stordito a pugni e bastonate, e buttato nell’Arno, dove è morto.

Uno dei fascisti, individuato da dove proviene il canto, una bottega di ciabattino, vi si dirige, in compagnia di un camerata.

Sono appena entrati, per chiedere ragione di quell’insulto, che il proprietario, insieme al suo lavorante, li aggredisce a colpi di trincetto.

L’attacco, improvviso, è così violento che i colpi – sei, terribili – provocheranno, dopo tre giorni di agonia, la morte di Foscari, mentre l’altro, ferito, sopravviverà.

Il 31 luglio, nel gran salone del Ridotto, a Venezia, toccherà a Piero Marsich la commemorazione ufficiale, che sarà un’orgogliosa rivendicazione, insieme, della “venezianità” del caduto e dell’idealità che spinge i fascisti all’azione e a rischiare la vita stessa. L’oratore pronuncia, quasi con triste preveggenza, parole che saranno riferibili, un anno dopo a Pepe:

 

Oh, a chi ci vitupera e ci rinnega descrivendo il fascismo come una banda sanguinaria di armati o come i mercenari assoldati a quella o a questa casta borghese, rispondete, o compagni, ricordando il nome di questo purissimo fra i nostri morti, di questo fratello di nostra passione, per cui la vita non fu se non un’offerta generosa d’ogni giorno all’Idea che egli serviva; di questo fanciullo che, dodicenne, voleva partire per la guerra, che, sedicenne, fu Granatiere e Legionario a Fiume; che diciottenne, dopo aver preso parte a quarantadue spedizioni audacissime, cadde sopraffatto da un assassino senza legge e senza Patria. (5)

 

È la migliore gioventù d’Italia, che si batte ovunque, nella consapevolezza della gravità della situazione nazionale, che non conosce confini cittadini o provinciali, accetta il rischio della vita, e sfida i rigori giudiziari di un sistema che capisce di essere alla fine, e più infierisce su chi questa fine ha provocato.

A Treviso, per esempio:

 

Il 15 luglio, verso le sei del mattino, il Colonnello Bosisio, Comandante dei Carabinieri, con un centinaio di militi, il comm. Becchi, Ispettore generale di PS, il Questore Chieravallotti, il commissario Marasciullo, con tutti gli agenti disponibili, dopo aver lungamente studiato un piano di operazione, decidono l’assalto dei 28 fascisti, di cui due feriti, che dormono saporitamente.

A tal uopo, il loro albergo è circondato da plotoni di cavalleggeri e da Carabinieri, ed il Colonnello Bosisio, con altri numerosi militi, coraggiosamente penetra nell’albergo e ordina la sveglia dei 28 fascisti.

I poveri diavoli, stanchi ed addormentati, che non comprendono la ragione dello spiegamento di tanta truppa, sono caricati su un camion e, tra le urla dei sovversivi, diventati tutt’a un tratto fegatosi, sono condotti in Questura, scortati dalla cavalleria. Alle sette, sempre con molta solennità la trentina di fascisti fa la sua entrata nel carcere di Treviso. (6)

 

Si chiude così l’avventura trevigiana. Pepe non c’è, perché tornato in sede a curare le ferite. Non sono le prime, da che ha iniziato il suo percorso squadrista.

Non saranno, purtroppo, nemmeno le ultime.

 

NOTE SECONDA PARTE

  1. Francesco Scattolin, Assalto a Treviso, Verona 2001, pag. 84
  2. Giovanni Comisso, Le mie stagioni, Milano 1985, pag. 115
  3. Francesco Scattolin, cit., pag. 81
  4. Giulia Albanese, Alle origini del fascismo la violenza politica a Venezia 1919-1922, Padova 2001, pag. 140
  5. Anonimo, Alla memoria Eroica e Gentile di Annibale Foscari, Firenze 1922, pag. 59
  6. Raffaele Vicentini, cit. pag. 140

 

 

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