10 Aprile 2024
Appunti di Storia

ASPETTANDO LA RIVOLUZIONE: Ugo Pepe offre la sua vita (Milano, 24 aprile 1922) 1^ parte – Giacinto Reale

 “Il piccolo borghese è la cosa più stupida ed ibrida che sia mai esistita. Nel loro animo è tutto un confusionismo barocco di putrido socialismo ed anarchia. Il tutto messo insieme forma la più puerile e conigliesca miscela che muove a riso…se non a schifo”.

(Lettera di Ugo Pepe alla madre, 1920)

 

Ugo Pepe nasce a Gaeta il 29 maggio del 1901. Il padre è Ufficiale di Marina, in aderenza ad una tradizione familiare che ha un importante precedente nel nonno Guglielmo, che, oltre ad indossare l’uniforme, fino a raggiungere il grado di Generale, fu   politico e storico militare, ma, soprattutto, una delle figure più significative del Risorgimento, definito da De Sanctis “uomo delle tre rivoluzioni”, distintosi particolarmente nella difesa di Venezia contro l’Esercito austriaco.

Anche per questo, il legame dei Pepe con la città lagunare resterà sempre forte, e lì, infatti, il padre di Ugo, dopo la promozione ad Ammiraglio, sarà Comandante in Capo della Piazza Marittima.

Con queste premesse, sarebbe normale aspettarsi dal giovane che non ha fatto in tempo a partecipare alla guerra per motivi anagrafici, un brillante avvenire, con ogni probabilità contrassegnato dalla scelta della carriera militare, come sembra indicare anche la sua frequenza, adolescente, del Collegio Militare di Roma.

E invece, egli, nutrito dalle idealità patriottiche che si respirano in casa, sceglie la strada dell’impegno politico, in prima persona, tra i mussoliniani, fin dall’inizio.

Iscritto al Fascio di Milano (città nella quale la famiglia si è stabilita al seguito del padre, colà trasferito) dal 1° novembre 1919, partecipa, con la squadra “Cesare Battisti” a molte azioni nel capoluogo lombardo. Resta, comunque, forte, anche per i motivi sopra detti, il richiamo di Venezia, la città “sorta dal grembo del mare”, dove si reca spesso a trovare il padre colà nuovamente comandato, e trova il tempo di distinguersi – anche come alfiere della squadra “Spartaco Bello” – in molte occasioni.

Vive la sua vita da squadrista, viene aggredito in treno per essersi rifiutato di staccare il distintivo dal bavero della giacca, e arrestato a Mestre, noto covo bolscevico, nel corso di una spedizione tesa a distruggere la Camera del Lavoro:

 

Ammaina in pieno giorno la bandiera rossa dalla vecchia antenna della piazza, la lacera e vi issa il tricolore: è arrestato, e ad una domanda della Polizia (che tenta usargli un riguardo speciale) se egli sia figlio del Comandante in Capo della piazza, risponde evasivamente, ma fieramente, che è fascista come gli altri. Ottiene così di rimanere con i propri camerati e di dividerne la stessa sorte in carcere. (1)

 

È una scomoda posizione la sua: mentre il padre rende per dovere di ufficio gli onori alla missione francese in visita in Italia, egli, in piazza San Marco, protesta con i suoi camerati contro l’alleato di guerra trasformatosi in nemico delle aspirazioni italiane dopo la pace. Viene ferito, a colpi di calcio di moschetto dalle Guardie Regie e arrestato con gli altri “facinorosi” ai quali si è unito, gente comune, spesso proletari presenti nel Fascio cittadino perché animati dallo stesso amor di Patria di quei giovanotti in camicia nera.

Il suo rifiuto della buona società è totale. Scrive alla madre, sempre da Venezia, dove si trova col padre:

 

Ieri papà mi ha condotto ad un ballo della élite veneziana. Sorrisi, fiori, flirts: figurati che papà voleva farmi ballare con una di quelle belle damine. Puoi immaginare la mia confusione, Io che non so muovere nemmeno un piede. Mi sono messo in un angolo a meditare su queste ultime maschere di un mondo che scompare. Cosa serba l’avvenire?

…Il piccolo borghese è la cosa più stupida ed ibrida che sia mai esistita. Nel loro animo è tutto un confusionismo barocco di putrido socialismo ed anarchia. Il tutto messo insieme forma la più puerile e conigliesca miscela che muove a riso…se non a schifo (2)

 

Parole che non possono non ricordare quelle che, da Firenze, scrive Piazzesi, più o meno in contemporanea, nel suo Diario, in una situazione simile, a riprova che si tratta di un comune sentire, diffuso tra la gioventù delle squadre:

 

15 febbraio 1921

Questa sera farò il ganimede: lei andrà al ballo, al ballo ci andrò anch’io ed è bene che ci vada, perché in casa di Luigi è un pezzo che non mi faccio vivo.

Parto tiratissimo in uno smoking nuovo fiammante. C’è lei, ci sono tutti gli amici di casa, il giro delle nostre famiglie, denaro, baciamano, discorsi slavati. Carlo per ballare si è levato il guanto della mano destra, e questo è stato giudicato molto ardito. Lei mi sembra incantevole e civetta con la grazia dei suoi sedici anni, si parla di studi, di come si balla il broken-doll….

“È vero che porti la rivoltella in tasca?”

“Ma come, hai anche sparato?”

Gelo per le risposte. Alcuni mi guardano un po’ di traverso. Devo apparire loro quel brutto tipo come da tempo mi hanno catalogato.

…Gigi, con quella faccina da San Luigi strapazzato, mi tocca in un braccio, e mi dice che suo padre mi vuole parlare.

“Sì, ho da parlarti Mario, e molto seriamente…che era tanto che te lo volevo dire e da quel bravo ragazzo che sei devi farla finita di imbrancarti con quei facinorosi, e non protestare che ti hanno visto correre verso le Cure con quegli Arditi, e che un ragazzo di ottima famiglia non va in compagnia di quei tipi.

…E te lo dico con vero dolore, Mario, sai anche per le ragazze, è bene insomma che se non abbandoni quella compagnia tu diradi le visite, perché (qui rinforzò la voce) le Guardie Regie stanno nelle loro caserme, e non frequentano le nostre sale,

Me ne vado mortificato, ormai siamo Guardie Regie, volgari prezzolati per gli uni e per gli altri. Si rompono i ponti con la cosiddetta buona società (3)

 

Per Ugo l’alternativa assume le forme della “squadra”, nella quale trova il suo ambiente ideale, fatto di coraggio, imprudenze ed entusiasmi, come si conviene ad un giovanotto che, per l’ingiustizia anagrafica, a maggio del 1918, appena compiuta l’età minima di diciassette anni, si è offerto volontario per il fronte, senza però mai raggiungere la linea del fuoco.

Troppo tardi, infatti. La guerra finirà di lì a qualche mese, appena dopo aver passato la visita medica che lo ha classificato, come con orgoglio scrive a casa “più che abile”.

Non gli resta che pensare agli studi, per offrire il suo contributo alla nuova Italia che, come tutti, sogna dopo la vittoriosa conclusione del conflitto. A Milano si iscrive all’Università, alla facoltà di Ingegneria.

Onora il suo impegno sui banchi, ma ormai il demone dell’azione si è impossessato di lui. La lettura del suo Diario ne fa fede:

 

25 gennaio 1921: fuoco alla Biblioteca dell’Avanti! Che gusto!

30 gennaio 1921: tafferugli. Sono stato scambiato per un socialista, ed ho avuto un carico di legnate. Fortunatamente sono stato riconosciuto. Però mi sono sfogato schiaffeggiando Schiavello.

4 febbraio 1921: studiare meccanica e ragioneria, geometria, prospettiva e descrittiva.

20 febbraio 1921: prendo parte dalla dimostrazione. Vengo arrestato e condotto a San Fedele.

21 febbraio 1921: da San Fedele vengo trasportato a San Vittore.

22 febbraio 1921: in prigione.

23 febbraio 1921: in prigione.

24 febbraio 1921: in prigione …e prigione.

28 febbraio 1921: finalmente alla sera vengo scarcerato. (4)

 

Solo all’uscita dal carcere, lo stesso giorno 28, per evitare un intervento a suo favore che ne farebbe un privilegiato agli occhi dei camerati, scrive al padre, che è a Venezia, una lunga lettera che aiuta a conoscere il personaggio e fornisce una testimonianza dei tempi veramente interessante:

 

“Caro papà, soltanto ora che tutto è finito, e che posso, ti do notizia di ciò che mi è accaduto in questa settimana….

Domenica 20, come tu avrai letto, vi fu il comizio fascista e conseguente corteo: io, com’era mio stretto dovere, mi vi recai armato di un bastone, al cui confronto quello di Venezia era un frustino.

Finito il comizio, andammo in corteo per le vie di Milano, tentammo verso la fine di raggiungere l’Avanti, ma fummo fermati e dispersi dai Carabinieri.

Tutto sembrava finito e ce ne ritornavamo a gruppetti. Per mia disgrazia, ero rimasto fra gli ultimi, così che fui adocchiato da un delegato di PS, che, insieme ad altri agenti, seguiva il corteo; questi viene e mi vuole strappare il bastone, dicendo che è troppo grosso; io, innanzi a tale arbitrio, vado su tutte le furie e tengo duro, chiamando i compagni; questi corrono, e gli agenti stavano avendo la peggio, allorchè, chiamati a gran voce da questi, corre un nuvolo di Carabinieri.
Grida, pugni, bastonate, moschettate, e come il solito, siccome loro sono i più forti, con mia grande rabbia debbo abbandonare il bastone e li seguo in Questura. Lì sarebbe tutto finito, e me ne sarei andato per i fatti miei, se fossi stato un altro che subisce le cose passivamente. Ma a me le prepotenze danno il sangue alla testa: così, al delegato che mi interrogava, per mettermi in libertà, invece di rispondergli, gli ho gridato sul muso che erano una manica di prepotenti vigliacchi.

Allora, senz’altro sono stato messo dentro, e da quel momento trattato in modo indegno. Per un solo minuto non ho potuto vedere la mamma, e l’indomani, insieme ad ogni sorta di malviventi, sono stato ammanettato, buttato nel carrozzone e condotto alle carceri giudiziarie. 

Qui ho trovato della brava gente, e, nei limiti del possibile, trattato molto bene. Mi hanno fatto un verbale che è pietoso ed è una bugia da capo a fondo: il vero fatto è che io non ho risposto all’alta personalità del delegato, il quale, non potendo mandarmi in galera per questo, ha inventato una quantità di stupidaggini.
Con me sono stati arrestati altri cinque fascisti, tutti per sciocchezze, ma di tutti noi, l’unico ad essere stato posto in libertà provvisoria sono io (l’hanno capito il loro granchio ?) e questo lo debbo anche specialmente alla mamma che non è stata ferma un minuto, ma protesta di qua, protesta di là, prega di qua, prega di là, ha ottenuto ciò che voleva. È stato anche molto gentile l’avvocato Aversa del Fascio, che è andato per noi a dritta e a sinistra e che mi dovrà poi difendere al io processo alla Pretura, senza voler poi accettare nemmeno un soldo.

Così è finita fortunatamente, dopo soli sei giorni questa nuova prigionia
Che raccontarti di essa? È una serie di impressioni che si sono succedute e mi turbinano ancora in testa. È un mondo nuovo, e un’anima nuova con cui sono stato a contatto per breve tempo. Quella delle “canaglie”, dei diseredati, dei rifiuti della società. Mi è sembrato di attraversare una novella di Massimo Gorki.
La prima sera, in camera di sicurezza, mi sono trovavo insieme a due arrestati per vagabondaggio, uno per ubriachezza, un altro per furto e un altro che tornava dall’ergastolo: siccome videro che ero rimasto senza mangiare…mi invitarono a colazione, e, siccome non ero molto allegro, cercavano tutti di consolarmi; poi hanno parlato, parlato, parlato, mi hanno raccontato una quantità di cose, tutti brani della loro vita, che certamente per me assumevano un’importanza grandissima.
E, dacchè sono stato dentro fino all’ultimo minuto, non ho avuto dai malviventi che atti di gentilezza e di una rozza bontà. E così anche tra loro. Certamente sono il dolore e la sofferenza che accomunano”
(5)

 

È, insomma, Pepe, come quei tanti che si affollano nelle squadre, talora anche più giovani di lui, quello che si definisce uno “squadrista d’azione” (contrapposto ai “fascisti di seminario” della lapidaria definizione di Farinacci al Congresso di Roma).

Vi è, inoltre, nel brano, una presenza  destinata a diventare   costante nella memorialistica degli squadristi più giovani: quella della mamma.

Mario Piazzesi le dedicherà il suo già citato Diario, con la scritta sul frontespizio: “Al pianto silenzioso di mia madre quando mi sapeva sul camion della spedizione” e non diverso sarà l’affettuoso ricordo di Pippo Ragusa, che agisce in  una realtà diversa, come quella siciliana: “Squadristi fummo tutti coloro i quali, alla mattina all’alba, nell’uscire di casa col sorriso sulle labbra, baciammo la mamma, quasi convinti che quel bacio poteva essere l’addio !” (Lo squadrismo palermitano, Palermo 1934).

Commovente è, infine, la preoccupazione che traspare dal Diario di Pepe, alla data del 5 maggio 1921:

Papà mi aspetta. La mamma, emozionatasi nel vedermi partire per una spedizione punitiva, ha avuto un accesso di tosse e ha sputato sangue. Mio Dio, se è vero che esisti, finisci di far soffrire una creatura tanto disgraziata e che pure ha una così illimitata fede in te! (6)

 

Poco più che ragazzi, quindi, ma tutti egualmente indifferenti al rischio e accomunati dal disprezzo per le classi sociali dalle quali eventualmente appartengono. La descrizione più efficace è di uno che li aveva frequentati, anzi, meglio, era stato uno di loro, Marcello Gallian:

 

Moltissimi squadristi, che moriranno per mano armata o cruenta, così si dice ancora in ogni caso, furono chiamati “monelli” “discoli” o “forche”, come a Perugia, e ancora, ragazzi, bevilatte, bambinetti, vagabondi appena nati, fanciulletti in fregola di botte e colpi, pagliaccetti con i calzoncini corti, pinocchi da burla, nati male, balilla sbagliati, studentelli mangiapane a ufo, damerini guasti, bimbetti in vizio di morte, sputanaso, slarga bocca, occhiettoli d’assassini, tarme schifazzate, puttanelle, gentiluomini, signorini, duchini, brache sporche, e altre diciture in gergo di villania o forse anche di rimorso. Tutti eran più grandi di loro per età o per “esperienza”, sì che potevano apparire quasi a modo di nani o di pigmei che aspirassero a diventare normali di statura o di fisionomia passabile.

E come in antico il padre aveva diritto assoluto sulla vita e sula morte dei propri figli, così quei “grandi” cercarono di punire quei figli malandrini e scostumati. Questi maschietti ciondolanti nelle fasce alle gambe, ciuffi di capelli ribelli sulla fronte, per mancanza di rispetto verso i “maggiori”!

Sdruciti nelle vesti, a bracaloni i calzoni, le camicie nere messe a parapetto, perché talvolta non potevano mettere altro, stracci neri, nastri neri, larghe fettucce nere, lacci di segnale antico, fu tanta la loro azione che il supplizio dato dal padre romano, quello cioè di piegare il discolo fra due coppie di vacche e di farlo scosciare per indirizzi opposti, è cosa che rassomiglia al supplizio di quattro grandissimi fiori da spetalare assieme ai figli più piccoli. (7)

 

Se non in tutte, in molte delle   ventitre definizioni adattate a questi giovani entusiasti possiamo riconoscere anche il nostro figlio di Ammiraglio, che ai comodi ed ai vantaggi che la posizione del padre gli garantirebbero, preferisce il cameratismo della camicia nera.

Nella scelta tra Milano e Venezia, è nella realtà di una città in fondo piccola come la seconda, che il giovane Pepe si trova meglio che non a Milano, dove è rimasta la madre, che non ha seguito il marito, promosso di grado.

Anche la comunità fascista (qualcuno dirà “controsocietà”) è, tutto sommato lì più compatta ed omogenea del dispersivo capoluogo lombardo, dove sono anche possibili incidenti come quello del “mancato riconoscimento” (e conseguente cameratesca bastonatura) lamentato nel brano del Diario sopra riportato.

A Milano, infatti, le squadre sono spesso su base rionale, formate da elementi che si conosco da sempre, spesso hanno fatto la guerra insieme, e proseguono ora la loro fraternità d’armi, non di rado in concorrenza tra loro.

Questo elemento, che favorirà, a seguire, la trasformazione delle stesse squadre in “Gruppi rionali”, non di rado conservando le stesse gerarchie, a Venezia non c’è, e ne consegue un più facile inserimento di un elemento estraneo e nuovo venuto.

Il Fascio, che si vanta di una costituzione addirittura precedente alla stessa riunione del 23 marzo del 1919, ha il suo personaggio più autorevole – anche aldilà dell’alterna fortuna delle cariche –  in Pietro Marsich, il più dannunziano dei fascisti, ma non senza che manchino le polemiche.

L’argomento principe (che, a dimostrazione di quanto essa colpisca la sensibilità dei mussoliniani, è comune anche ad altre realtà locali) è la sua mancata partecipazione alla guerra, a seguito di riforma (della quale egli sempre si dorrà) per debole costituzione fisica. Il particolare rappresenta, peraltro, un indubbio elemento in controtendenza nella rappresentazione che il fascismo stesso, (movimento di “interventisti intervenuti”) vuol dare di sé, ed offre un’arma agli avversari che, ad ogni piè sospinto, e strumentalmente, oppongono il mite avvocato all’ex Ufficiale degli Arditi Gino Covre, giunto in città il 12 giugno da Udine, dove si è guadagnato la fama di temibile castigamatti dei sovversivi.

E’ così che, già una decina di giorni dopo il suo arrivo, il nuovo venuto viene eletto, per acclamazione, Segretario del Fascio. Tra i seguaci di Covre non può mancare il giovane Pepe, già coinvolto, con gli altri irrequieti delle squadre, in una gara di emulazione che lo vede sempre in prima fila.

 

 NOTE PRIMA PARTE

  1. Gruppo Universitario Fascista Milanese “Ugo Pepe”, Ugo Pepe, Scuola di Mistica fascista, Milano 1936, pag. 23
  2. Ibidem, pag. 18
  3. Mario Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano, Roma 1980, cit., pag.107
  4. Gruppo Universitario Fascista Milanese “Ugo Pepe”, Ugo Pepe, Scuola di Mistica fascista, Milano 1936, pag. 27
  5. Ivi, pag. 28
  6. Ivi, pag. 32
  7. “Antieuropa” numero speciale dedicato allo squadrismo, Roma 1939, pag. 65

 

1 Comment

  • Raff 1 Aprile 2023

    GRAZIE! Bellissima testimonianza

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