10 Aprile 2024
Antico Egitto Tradizione Egizia

L’occhio della Regina – Rita Remagnino


di Rita Remagnino

 

 

Ultimamente su questo sito si è scritto a più riprese di Akhenaton e della parentesi monoteistica del periodo amarniano. Nessuno ha citato però la consorte che in quella svolta ebbe un ruolo di primo piano, per cui vi farò un accenno. Impresa tutt’altro che semplice, perché quando si scava nelle profondità del tempo non si può essere mai sicuri di niente.

Collaborando nelle catalogazioni e nei rilievi effettuati a Ninive, Tell Brak e Nimrud con il secondo marito Max Mallowan – un archeologo instancabile e intuitivo che segnò la storia dell’archeologia mesopotamica come pochi altri – la leggendaria Agatha Christie non poté fare a meno di constatare quanto fossero simili le indagini del criminologo e le ricerche dell’archeologo, che, in caso di bisogno, potevano essere anche un’ottima copertura per acquisire utili informazioni sulla politica, l’economia e la geografia di un determinato territorio. Una lungimirante anticipazione di quello che avrebbero messo in campo molte agenzie governative di Intelligence (va da sé, la CIA al primo posto) dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Uno dei principali «casi irrisolti» della Storia riguarda proprio l’Antico Egitto. E così dicendo non mi riferisco alle piramidi, che sono e rimangono un rebus, ma a una delle costruzioni più enigmatiche e leggendarie, di cui purtroppo non sono rimaste né fondamenta né macerie ma qualcosa come 250.000 pietre, gran parte delle quali catalogate e decifrate. Parlo del tempio di Karnak consacrato ad Aton: un edificio mastodontico lungo un chilometro e seicento metri sulle cui colonne la regina Nefertiti con i capelli ornati dalla corona di piume, il disco solare di Aton e il cartiglio con il suo nome compaiono 564 volte mentre il marito Akhenaton è citato, o raffigurato, soltanto 320 volte.

Prima di allora non s’era mai visto un faraone che fosse meno importante della sua «consorte regale», una constatazione doppiamente stupefacente se si pensa che stiamo parlando del fondatore della nuova religione monoteista. Cosa ci faceva sulle rive del Nilo una fanciulla con fattezze così poco egizie? E perché la sua testa venne dipinta con un solo occhio?

Risulta dalle lettere di Amarna che il re dei Mitanni, uno dei «popoli delle montagne» originario della zona montagnosa che si specchiava nel lago Van, nel XIV secolo a.C. diede in moglie al vecchio obeso e sdentato Amenofi III la figlia Taduchipa (la futura «Nefertiti») in cambio dell’oro che gli serviva per l’edilizia pubblica. La provenienza della giovane sposa è confermata dalle numerose immagini che la raffigurano con il copricapo azzurro e conico (nessuna sovrana d’Egitto ne ebbe mai uno uguale), mentre ai Mitanni viene attribuita l’introduzione nell’area mesopotamica di alcune divinità vediche (Indara, Uruvna, Mitira e Nasatiyra che in pratica erano omologhi di Indra, Varuna, Mitra e Nakshatras), unitamente a una cultura che mostra di possedere più di altre l’impronta profonda di una precedente formazione proto-ariana.

A quei tempi la terra dei faraoni era ricchissima di oro, parte del quale prendeva la strada del Nord e veniva speso presso i Mitanni per comprare dalle caste più elevate di quella stirpe guerriera, di nobile origine urartea ma ormai squattrinata, le loro bellissime e giovanissime figlie.

Ciò non significa che «sulle montagne» le donne fossero considerate merce di scambio, anzi, nella sfera d’influenza degli ittito-mitanni la sposa del re partecipava attivamente al governo del Paese. Ma il matrimonio era un contratto e gli affari erano affari, sulle scappatelle d’amore pertanto si chiudeva un occhio, spesso tutti e due, così che il gioco delle parti poteva continuare senza intoppi.

L’eco di questi «commerci» risuonò fin nelle cronache greche dove alla dea Hera, per esempio, s’accompagnava l’epiteto leukṓlenos, «dalle braccia bianche». Una piacevole eccezione. Nessun poeta greco ha mai sentito il bisogno di soffermarsi sul colore della pelle di Atena, o di Artemis, mentre Esiodo cita espressamente il biancore di Persefone e l’Iliade chiama in causa Andromaca, altro esemplare femminile «dalle braccia bianche». Nei papiri che conservano brandelli del Catalogo delle donne le «sottili caviglie» definiscono personaggi di rara bellezza come Tanísphyros, Europa ed Atalanta, oltre che Elena, segno che il commercio delle donne caucasiche era ancora in voga nella classicità.

Simili caratteristiche dovevano appartenere anche alla «Bella-Che-Qui-Viene» (era questo il significato del nome «Nefertiti» in egiziano antico), che arrivò in Egitto accompagnata dalla statua di Ištar di Ninive, un particolare di enorme importanza dal punto di vista culturale e religioso. Per sua fortuna il matrimonio col vecchio faraone durò pochi mesi, e comunque meno di un anno, dopodiché la principessa dei Mitanni fu data in moglie al giovanissimo figlio del re defunto, Amenofi IV, il futuro Akhenaton. Lei aveva diciannove anni e lui cinque di meno, motivo per cui era salito al trono sotto la supervisione della madre Teje, carismatica dominatrice dell’Alto e Basso Egitto, che fino a quel momento con il figlio aveva diviso anche il letto. Un particolare sul quale Taduchipa non ebbe nulla da ridire poiché l’incesto era tacitamente tollerato dalle ultime dinastie egizie, ormai corrotte e decadenti.

Ben presto i due giovanissimi faraoni impararono a conoscersi e piacersi, scoprendo di amare entrambi la natura e la fauna esotica, quella che ancora oggi si vede sull’isola di Kitchener del grande fiume. Sotto il loro regno sorsero parchi dappertutto con piante rare che gli schiavi, camminando per settimane, portavano dal cuore dell’Africa. Nei laghetti artificiali, fatti per bagnarsi, c’erano pesci rossi e anatre. Un vero paradiso. Grande impulso ebbero anche l’architettura, la scultura e la pittura, e molte cose cambiarono anche nei rapporti sociali.

Fino a quel momento gli artisti egizi avevano modellato le statue maschili con una gamba più avanti dell’altra, in segno di attività, mentre quelle femminili avevano le gambe parallele o unite, simbolo di attesa. Mentre i ruoli adesso erano rovesciati: Akhenaton veniva rappresentato con le gambe unite mentre Taduchipa/Nefertiti ne portava una più avanti dell’altra. Inconsuete erano anche le immagini che ritraevano scene famigliari, nessun figlio di Ra prima di allora si era mai mostrato alla sua gente in modo così «umano» ed intimo.

Il buon accordo fra i coniugi fece della sovrana «straniera» un idolo per il popolo, ammaliato anche dalla sua straordinaria bellezza. Cresceva intanto l’ascendente che la principessa asiatica esercitava sul marito, che alla politica preferiva gli uccelli nel giardino del palazzo, le farfalle sui fiori, le anatre tra le canne. È quindi assai improbabile che la rivoluzione monoteista sia stata tutta farina del suo sacco, nonostante Akhenaton non fosse affatto uno sprovveduto.

Odiando cordialmente il padre egli aveva preferito trascorrere la fanciullezza all’estero, lontano dall’Egitto, dove entrò in contatto con altri popoli ed ebbe più di un’occasione per ampliare i suoi orizzonti culturali, alimentando di conseguenza i dubbi su tutti quegli dèi che, cambiando Paese, cambiavano aspetto e nome.

Le più recenti ricostruzioni fatte dai nuovi mezzi tecnologici del gigantesco tempio di Aton a Karnak rivelano che Nefertiti fu una seguace della religione di Aton molto più ardente del marito. Un fatto comprensibile, trattandosi di una principessa cresciuta alla corte dei Mitanni, un popolo che onorava la Sacra Triade composta dal dio-sole Utu-Shamash, dal dio-luna Sin e dalla dea venusiana Ištar. A modo di vedere della bella caucasica, il caotico culto degli déi antropo-animaleschi d’Egitto era nettamente inferiore rispetto a quello di più ampio respiro dominato dall’astratto disco solare di Aton, il Sole fisico propriamente detto, diverso da Ra (il Sole del Solstizio d’Inverno, il silenzio dello spirito), e da Khepry, (il Sole di Primavera, nel suo incessante crescere e divenire).

Le idee «rivoluzionarie» della regina non piacquero affatto alla casta sacerdotale, che un giorno dopo l’altro vedeva sgretolarsi con le antiche statue anche il proprio potere. Akhenaton si schierò a fianco della moglie, un comportamento che risucchiò la stessa persona del faraone in una spirale di odio. Da una parte c’erano i detentori del potere religioso, dall’altra le moltitudini fanatiche che approfittarono della situazione per vendicarsi dei sacerdoti che da secoli tenevano il popolo sotto la cappa del terrore.

La situazione sembrava volgere a vantaggio degli sposi reali, quando, nel quarto anno del suo regno, pesante come un macigno piombò addosso al faraone una terribile malattia. I rilievi delle tombe e dei cippi confinari di Amarna rivelano in Akhenaton, che aveva allora diciassette anni, la comparsa di pesanti anomalie anatomiche destinate a influire sulla struttura della sua personalità: la testa si trasformò in quella di un idrocefalo, le braccia e le gambe dimagrirono in modo impressionante, i seni si gonfiarono come quelli di una donna e le cosce diventarono enormi. Una statua conservata al museo del Cairo lo raffigura addirittura privo di organi genitali, forse un modo per dire che gli attributi del poveretto regredirono a tal punto da diventare pressoché invisibili.

Nefertiti non si lasciò vincere dalla mala sorte, al contrario di quel giovane fragile e ipersensibile che aveva soppresso la pena di morte e amava l’arte, gli animali e la natura, il quale si fece letteralmente travolgere dalla disgrazia, rifiutando con rabbia persino la mano tesa della consorte. Nessuno poteva compatire il faraone, neppure la regina.

Sul trono di Nefertiti, ripudiata e umiliata, fu messo Smenkhkara, un uomo che divenne correggente del faraone, oltre che il suo amante ufficiale. A quel punto la bella caucasica si ritirò dietro le alte mura del palazzo Nord, da dove comunque continuò a fare politica comandando personalmente la guardia reale. Quanto agli alti funzionari di corte, come sempre accade nei momenti di acceso conflitto, essi si divisero in due fazioni: i seguaci della regina asiatica da una parte, quelli del faraone invalido dall’altra.

Appoggiati dal correggente i sacerdoti iniziarono a vendicarsi dell’«intrusa», cancellando tutto ciò che la ricordava. Nessuno doveva pronunciare più il suo nome e là dove stava scritto fu fatto sparire con una pennellata di colore, o coperto col gesso, o distrutto a martellate come le statue e i bassorilievi che ritraevano la regina. Niente di nuovo sotto il sole: conosciamo tutti gli esiti distruttivi di certe derive iconoclastiche per avervi assistito innumerevoli volte nel corso della Storia, e persino nell’attuale Era iper-tecnologica che si dà arie da campionessa di progressismo.

Ultimamente abbiamo visto giovani ignoranti jihādisti distruggere con il martello pneumatico le mura di Ninive insieme a statue di antiche divinità mesopotamiche e giovani ignoranti statunitensi abbattere le statue di Colombo, odioso scopritore dell’America, e di Miguel de Cervantes, il padre di Don Chisciotte, colpevole di essere uno spagnolo come i conquistatori guidati da Cortez. È vecchio come il mondo il desiderio umano di far sparire, annientare, cancellare cose, idee, tracce e ricordi appartenuti a epoche e personaggi particolarmente odiati e detestati. I Romani diedero a questa pulsione irrazionale il nome di cupio dissolvi. Con la differenza che negli Anni della Fine, i nostri, l’iconoclastia è proporzionata all’infimo grado di cultura dei suoi protagonisti, incapaci di elaborare un pensiero finito, per cui le loro azioni al posto di impaurire le masse oscillano tra l’incredulità e il ridicolo.

Spiace per i Padroni Globali che stanno finanziando le azioni partite in America dal movimento “Black Lives Matter” pensando di velocizzare la cosiddetta «Grande Risistemazione» dell’assetto sociale planetario, ma neanche questa volta funzionerà il giochetto di «satanizzare» il passato allo scopo di esaltare il presente e fare largo ai suoi nuovi eroi salvatori.

Se ne fossero capaci, gli analfabeti violenti dovrebbero invece suscitare l’interesse dell’opinione pubblica contrapponendo un’opera all’opera. Nergal non è conforme al culto di Allah? Colombo e Cervantes non vanno più bene? Si creino allora nuove sbalorditive effigi in grado di fare discutere non solo la società attuale ma anche d’interrogare le generazioni future. Come fece l’ideatore della testa senza un occhio di Nefertiti, oggi conservata nella teca di cristallo di un museo di Berlino e considerata uno dei capolavori del periodo di Amarna, il quale lasciò i posteri ad arrovellarsi sul suo significato.

Per quale motivo la foga iconoclasta del tempo spazzò via quasi tutti i ritratti della regina avendo cura di conservare la sua testa «menomata»? Il caso ha voluto così? Pura combinazione? Un lavoro incompiuto non interessa a nessuno e rimane in magazzino? Oppure, un’azione studiata? Una spedizione tedesca ritrovò il busto calcareo ricoperto di gesso agli inizi del Novecento nel laboratorio del capo degli scultori Thutmosi, il quale ritrasse la sovrana innumerevoli volte, sebbene una minima parte delle opere a lei dedicate siano state risparmiate dall’odio del marito e dei suoi successori, Horemheb e Ramses II.

Si dice che Thutmosi fosse incantato dalla bellezza della regina ripudiata dal faraone e la vedesse più di chiunque altro, essendo molto spesso impegnato a ritrarla nuda e vestita, ad eseguire impronte del suo capo e di parti del suo collo. Sembra che il rapporto tra i due sia stato per un certo periodo particolarmente intimo, prima che la sovrana dirigesse altrove le sue attenzioni. Secondo i più romantici l’occhio sinistro che manca al busto di Nefertiti (il quale altrimenti sarebbe perfetto), andrebbe interpretato come la vendetta di un amante piantato in asso. Ma è solo un’ipotesi tra mille altre.

E se fosse stata proprio la regina detronizzata a farsi ritrarre senza un occhio? Non dimentichiamo che Nefertiti era una principessa nata e cresciuta alla corte dei Mitanni e le mitologie di matrice indoeuropea abbondano di mezzi orbi dotati di singolari forze spirituali. Tra gli altri vi fu l’indiano Bhaga, il dio cieco che conquistò il potere di comandare il futuro grazie alla sua menomazione. Ma anche Odino per soddisfare la sua inestinguibile sete di sapienza pura, primordiale e originaria, cedette uno dei suoi occhi alla sorgente di Mimisbrunnr, fonte di ogni sapere. Un gesto di grande potenza simbolica poiché la perdita della vista, o di parte di essa, favoriva nei grandi personaggi della tradizione indo-aria la comparsa di una vista ben più acuta e importante: quella dell’occhio interno, il «terzo occhio», che permetteva di guardarsi dentro ottenendo il massimo della sapienza.

L’uomo tecnologico ignora la simbologia tradizionale ed è completamente uscito dal racconto cosmogonico, per cui passa davanti alla testa monocola di Nefertiti e poi va a farsi un panino al bar, prima di comprarsi un gadget con l’immagine della bella regina stampata sopra. Nell’Era del Grande Adesso interrogarsi non serve, basta consumare l’attimo, sempre fuggente. Ma probabilmente neanche l’arguta Agatha Christie saprebbe risolvere il mistero dell’occhio mancante: vendetta o desiderio d’immortalità? Vale la pena di chiederselo mentre aspettiamo che la Fine lasci il posto a un nuovo Inizio, l’attesa è la ragione d’essere del tempo che abbiamo ma stare con le mani in mano nel frattempo non è affatto una buona idea.

 

 

 

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (ed. Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (ed. Audax Editrice). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

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