Gli Arditi, Gino Covre, Cesarino Revel e tanti altri, tra i quali non mancano anche personaggi molto “caratteristici”, come nel resto d’Italia, sono i protagonisti del primo fascismo cittadino, che affronta, senza timori riverenziali, la classe padrona industriale e le masse sovversive. Sarà anche per questo che molti di loro si troveranno, con Giuseppe Solaro, “il fascista che sfidò la FIAT e Wall Street”, all’epilogo saloino.
- A fianco di questi tre protagonisti principali, sullo sfondo si muovono anche altri personaggi molto “caratteristici”, che vivranno, nel quadriennio rivoluzionario, vicende sintomatiche del “clima” del periodo.
E’ il caso, per esempio, del Tenente degli Arditi Domenico Bagnasco che è uno dei fondatori dell’Associazione Arditi, e sarà vittima, ad aprile del 1921, di un episodio forse unico. Impiegato alle Officine Savigliano, e noto per le sue idee, verrà preso “prigioniero” dagli operai comunisti in agitazione, e solo per un soffio riuscirà a scampare alla triste sorte capitata qualche mese prima a Mario Sonzini e Costantino Scimula.
Il primo, nazionalista e aderente ai Fasci di combattimento, il 22 settembre del 1920, sarà condotto, processato, condannato e giustiziato all’interno dello stabilimento occupato Nebiolo. La sua morte verrà cinicamente commentata dall’Avanti, che, definendolo un “fascista militante”, scriverà: “E il militare porta con sé questo inconveniente: di andare a finire un giorno sull’orlo di una via con la tempia forata da un proiettile”.
Sorte simile toccherà anche al ventenne Costantino Scimula, guardia carceraria, condannato e giustiziato dal tribunale operaio costituto all’interno dello stabilimento Bevilacqua, sempre a Torino.
Ecco come i due cadaveri saranno ritrovati, qualche giorno dopo, nella notarile ricostruzione del Corriere della Sera del 12 ottobre:
Giacevano uccisi per una eguale ferita d’arma da fuoco alla nuca, in una stessa posizione, cioè bocconi e a braccia aperte, e non si esitò a capire che erano stati ambedue vittime di una sommaria e truce esecuzione. Si assodò che erano stati presi a mira da tergo, mentre altri complici li tenevano stretti ai polsi, che apparivano solcati da lividure per lo sforzo disperato che avevano opposto allo scopo di fuggire all’estremo supplizio. (9)
Ci sono poi i personaggi di secondo piano, rappresentanti di quella minuta umanità che è facile trovare nelle squadre di ogni città, spesso individuati, come altrove, da soprannomi destinati a essere famosi nel piccolo mondo del fascismo locale. “Nerone” dovrà probabilmente il nomignolo alla sua “attiva” partecipazione al rogo della Camera del Lavoro, “Cocaina”, che sarà uno dei fondatori della squadra d’azione “Enrico Toti”, composta da mutilati di guerra, potrebbe dovere il nomignolo ad una iniziale dipendenza oppiacea per lenire i dolori delle ferite, mentre “Merica” sembra riferito al nome di una casa di tolleranza dalle parti di Porta Palazzo.
La cosa non deve meravigliare. Oltre a Gallian, che talora scelse prostitute per protagoniste dei suoi romanzi (e poi dei suoi quadri), il pensiero non può non andare a Piazzesi, che, per una singolare coincidenza, testimonia di frequentazioni border anche di quei giovani fiorentini, scapestrati in camicia nera, che se ne fregano dei pregiudizi dell’Italia piccolo-borghese:
Sulla cantonata di via Palazzuolo e via de’ Fossi, lì, davanti al Fascio, c’è quello che noi mortali abbiamo battezzato “L’Eden”, ma che in realtà non è altro che un albergaccio di terza categoria chiamato “Como” …
C’è tutto e per tutti i gusti…. Le labbra rosse e gli occhi bistrati delle compagne, consolatrici e mediatrici delle rudi carezze dei camion. C’è la Teresina soprattutto, Teresina nostra che porta pietosa da una camera all’altra quel suo sedere prepotente come se compisse una vera opera riparatrice. C’è il caffè sempre pronto, una abbondante dose di sudiciume, e, all’ultimo piano, le cimici. (10)
Anche con simili personaggi viene formata, già nel 1919, la prima squadra d’azione che si chiamerà “Banda Ardita” proprio perché composta in massima parte da ex Fiamme e sarà guidata dal Tenente Carlo Cherasco. Poi, anche con l’arrivo di Brandimarte, muterà il nome in “Disperata” e si chiamerà “squadra”, non più “banda”, definizione che, pure sotto il profilo terminologico voleva rimandare ad un’idea di indisciplina ed irregolarità guerresca, perché:
L’organizzazione del primo squadrismo pare trarre origine da uno spontaneismo confuso e occasionale, per nulla codificato, che sembra reggersi da un lato su relazioni di tipo amicale, e dall’altro su rapporti gerarchici mutuati dall’esperienza di guerra e conservatisi anche dopo la smobilitazione.
La mentalità presente in questa prima fase ci rimanda ad un patrimonio comune intimamente condiviso dalla maggioranza del gruppo, al cui interno si intravede una dimensione eroica, elitaria, che accetta i modelli di una romanità mitizzata, ma al tempo stesso richiama alla mente quella più recente degli Arditi, dei mutilati, dei pluridecorati o dei legionari fiumani. (11)
Ma è soprattutto Gino Covre, ex Tenente degli Arditi, a mettersi in mostra nell’irrequieto primo dopoguerra torinese. Tra il 4 e il 12 novembre del 1918, in successive manifestazioni, dopo aver guidato una cinquantina di Fiamme all’assalto di un corteo sovversivo, invade la Camera del Lavoro in corso Siccardi e per una settimana fa il bello e il cattivo tempo in città. Di lui arriverà ad occuparsi lo stesso Gramsci, scopertosi “uomo d’ordine”, su “L’Avanti” del 19 marzo 1919:
Perché Masaniello Covre poté, per ben otto giorni, scorazzare le vie e le piazze di Torino col suo codazzo di armati di coltello, poté capeggiare un pronunciamento contro la Prefettura, poté oltrepassare, le tasche piene di sassi, in un’automobile “ufficiale” il cordone di Carabinieri che circondava la Casa del Popolo di corso Siccardi, poté lanciare i sassi nel salone gremito di operai, di donne di bambini. Perché non fu arrestato? No, non è un avventuriero comune questo falso Capitano Luigi Covre….
E Torino ebbe il suo Masaniello, ebbe il suo Coccapieller, Luigi Covre, che non è un avventuriero comune, non è un volgare scroccone, ma un eroe, un eroe sociale, un uomo rappresentativo, il quale continua la serie di quegli eroi rappresentativi che nella terza Italia, nell’Italia del capitalismo, abbondano più dei Cromwell, dei Martin Lutero e dei Mazzini. (12)
Ben diversa la versione dei fatti che sarà fornita dal Chiurco:
Un eroico Capitano degli Arditi, Gino Covre, che giaceva ferito in un ospedale, esce in piazza, e con alcuni Arditi, impadronitosi di un tricolore, raccoglie intorno a sé tutti gli Ufficiali e i soldati, feriti e non, che incontra.
Cantando l’ “Inno degli Arditi”, gli animosi vanno incontro alla colonna dei forsennati, la cui testa era già in via Roma fra piazza San Carlo e piazza San Felice.
Saranno stati sì e no una cinquantina, quando si trovarono di fronte al corteo sovversivo. Al grido “Abbasso lo sporco tricolore” rispondono le revolverate e le grida di “Viva l’Italia”, “Viva l’Esercito”. Tutta quell’orda vigliacca fugge terrorizzata.
Dalle caserme, dagli ospedali, fu un rovesciarsi di ufficiali, soldati, sicché in piazza San Carlo parecchie migliaia di grigioverdi ascoltavano poco dopo la parola incitatrice e tonante di odio del Covre.
[…]
La giornata d’allora contò diversi feriti. Fu, forse, quella la prima giornata dello squadrismo fascista… (13)
Covre poi lascerà Torino e sarà, quasi “rivoluzionario di professione” della parte fascista, prima Segretario del Fascio di Udine e poi di quello veneziano, sempre non in linea con l’ufficialità del movimento, che è progressivamente avviato a scelte normalizzatrici. Aderirà alla RSI, e, per una curiosa coincidenza, morirà proprio durante le “radiose giornate” dell’aprile del ’45, ma non – come spesso si dice – per vendetta partigiana, bensì per un male incurabile, in una clinica di Padova.
A fianco di questi personaggi, che in qualche caso bordeggiano le “sublimi canaglie che si redimevano in un principio di passione etica, in una fiamma di spirito collettivo, in una disciplina anche interiore di obbedienza e sacrificio”, delle quali parlerà Camillo Pellizzi già nel 1924, sono presenti fin dalle prime riunioni, o sopravverranno in un breve lasso di tempo, giovanissimi studenti (Angelo Appiotti ha 15 anni, e pochi di più il reggino – ma studente del Politecnico – Amos Maramotti, che morirà nell’assalto, con successivo incendio, del 25 aprile del 1921 alla Camera del Lavoro), comuni impiegati (Giorgio Fabrizio e Battista Olivo) umili operai (Cesare Oddone, a seguito del cui assassinio ci fu la rappresaglia culminata nel suddetto incendio, Lietti e Pollone, che saranno protagonisti di una pericolosa attività di informatore, infiltrati tra i sovversivi), esperti sindacalisti (Umberto Lelli e Davide Fossa), indomiti borghesi (Oliviero Iurco detto “Vampa” e Ather Capelli, che sarà vittima della guerra civile), e perfino qualche esponente della vecchia aristocrazia piemontese (Giuseppe Avogadro, Conte di Casalvolone e Federico Gaschi di Bourget et Villarodin).
Un cenno meritano anche, per concludere questa breve carrellata, Luigi Voltolina, padre di Carla, futura staffetta partigiana e moglie di Sandro Pertini, che, prima squadrista, sarà poi componente del Direttorio a dicembre del 1922, e come tale coinvolto nei tragici fatti di quel mese, e il giovane Tenente di Artiglieria Cesarino Revel, futuro protagonista di primo piano dell’assalto, con successiva distruzione, della notte del 25 aprile del 1921 cui si è già accennato. Egli già nell’aspetto fisico sembra smentire l’immagine accreditata dagli avversari che vuole gli squadristi bravacci di trivio:
…già volontario di guerra, Revel, piccolo di statura, era di una bellezza quasi femminea; aveva il viso appena velato di una leggera peluria, e le sue mosse erano scattanti e feline, come quelle di un animale da preda. Portava il monocolo dal quale non si separava, credo, neppure quando dormiva. (14)
Il Fascio torinese, quindi, se con questi – ed altri – uomini esprime una poliedricità di temperamenti e caratteri, conosce momenti e scelte di campo diverse anche sotto il profilo delle posizioni politiche al suo interno.
Per tutto il 1919 i caratteri “rivoluzionari” del movimento mussoliniano in città sono sicuri ed incontestabili, tal da far barriera anche all’adesione di molti benpensanti e moderati.
Lo stesso De Vecchi, nel quale pure la tempestosa personalità stimola una smania di agire, confesserà le sue esitazioni, al momento di iscriversi, in aprile:
De Vecchi, nelle sue memorie, ricordando il momento in cui decise, dopo lunga meditazione, di entrare nelle file fasciste, dirà di aver scoperto che in queste dominavano gli elementi di sinistra e che “si attaccava senza tregua la chiesa e il Re”, pur riconoscendo che gli iscritti godevano della più ampia libertà di conservare il “proprio bagaglio di idee”; il Fascio, infatti, precisa ancora: “non era un Partito e forse nessuno pensava, allora che lo potesse diventare, poiché l’unico legame che esisteva tra gli aderenti era il comune proposito di difendere la vittoria contro coloro che senza reticenze si proclamavano senza Patria” (15)
Facile immaginare il disagio col quale un “uomo d’ordine” come lui salga ogni giorno le scale che portano alla modesta sede fascista, sorvegliata quasi fosse un covo sovversivo:
Il Fascio di Torino tirava avanti alla bell’e meglio, e dopo le dimostrazioni del maggio e del giugno era entrato in letargo. Fra l’altro avevamo sempre fra i piedi, in “abito simulato” un Maresciallo dei Carabinieri Reali, il quale, con fiuto da segugio, teneva d’occhio ogni nostra mossa. Sapeva con esattezza il numero degli iscritti e, specie dai giovani, veniva informato di ogni passo. (16)
In effetti, le Autorità fanno di tutto per rendere la vita difficile ai primi fascisti. Le cronache riferiscono di uno schieramento di truppa quasi sempre presente all’ingresso della loro sede, che impedisce l’accesso a ex Ufficiali e Arditi, di manifestini sequestrati in tipografia per il loro contenuto “eversivo”, di fermi e minacce immotivate.
Contro quello che appare il duplice nemico in questi mesi, e cioè lo Stato repressore e il sovversivismo, i primi aderenti al Fascio rinsaldano i vincoli di cameratismo e consolidano i motivi ideali alla base della loro scelta. Non sarà un caso se molti diciannovisti, i “super traditi del fascismo” come si dirà, si ritroveranno all’epilogo saloino, quando ormai, però, sarà troppo tardi:
La Banca-dati sugli iscritti del PNF torinese, nel permettere la ricostruzione dei curricula di alcuni di loro (i fondatori del Fascio repubblicano ndr) evidenzia la comune provenienza da una delle prime squadre d’azione sorta negli anni venti, ossia la “Cesare Battisti”. Si tratta, perciò, di un nucleo legato da vincoli di amicizia, composto probabilmente da Federcio Gaschi, Carlo Pollone, Goffredo Villani, il già citato Natoli, detto “gamba di legno”, Piergiuseppe Manfredini, detto “gamba di ferro”, Dante Massa, Rodolfo Chelazzi e Mario Volontè, mentre tra i più giovani figura il trentaduenne Luigi Riva, figlio del più noto segretario provinciale dei metallurgici, il sansepolcrista Celso Riva, che forse costituisce il tramite fra il gruppo e il figlio. (17)
-segue-
NOTE
- Giuseppe Bonfanti, Il fascismo, 1. La conquista del potere, Brescia 1976, pag. 76
- Mario Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano, Roma 1980, pag. 164
- Nicola Adduci, Origini e composizione dello squadrismo torinese, in: Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Torino 2005, pag. 230
- Articolo intitolato “Luigi Covre” in “Opere di Antonio Gramsci, sotto la mole 1916-1920”, Einaudi 1960, pag. 471
- Giorgio Alberto Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, Firenze 1929, vol. III, pag. 392
- Cesare Maria De Vecchi, cit., pag. 40
- (a cura di) Umberto Levra e Nicola Tranfaglia, Torino tra liberalismo e fascismo, Milano 1987, pag. 242
- Cesare Maria De Vecchi, cit., pag. 19
- Nicola Adduci, Gli altri, fascismo repubblicano e comunità nel torinese, Milano 2014, pag. 49
Foto 3: De Vecchi, Capitano al fronte
Foro 4: la squadra mutilati e invalidi di guerra “Giulio Giordani”