11 Aprile 2024
Appunti di Storia Storia

La volontà di rivincita: nascono i FdC, Bologna 1919 (seconda parte) – Giacinto Reale

La tensione accumulata in città, dove a chi vuole difendere le ragioni e il sacrificio della guerra vittoriosa si contrappone chi, guardando all’esperimento russo, sogna la rivoluzione, deve, per forza di cose sfociare nello scontro. A fare la differenza sarà la caratura umana degli uomini in campo.

Saranno proprio giovani ed ex combattenti,  con l’appoggio anche di alcuni Ufficiali in servizio, a rendersi  protagonisti  della prima  azione –che potremmo definire “protosquadrista”- degli antibolscevichi bolognesi. Qualche settimana dopo la costituzione del Fascio, il 15 giugno, si ha  un assalto (altri ne seguiranno negli anni a seguire) alla odiatissima Camera del Lavoro, che –come si è accennato- per scherno, in città viene anche chiamata chiamano “Camera dell’Ozio”.

Ad innescare la scintilla   è la manifestazione indetta dalle Leghe, che fanno confluire a Bologna  oltre 50.000 contadini dai paesi vicini, in un minaccioso corteo che attraversa il centro cittadino, per concludersi, visto il gran numero di partecipanti, difficile da stivare in un’unica piazza, con ben tre comizi, in piazza S. Francesco, in piazza Malapighi e in via Pratello.

Sembra, e probabilmente vuole essere, la dimostrazione quasi fisica di quella “città assediata dalle campagne” che Mario Missiroli preconizza nei suoi articoli.

Nelle campagne il clima di violenza è più pesante che non nel capoluogo, dove pure la Camera del Lavoro fa il bello e il cattivo tempo, imponendo scioperi e assumendo la direzione di movimenti all’origine spontanei, come quello contro il caro-viveri.

Si tratta di una violenza diffusa, non di rado tollerata anche dai piccoli presidi di forza preposti alla tutela dell’ordine pubblico nei centri minori, che si esalta nella pratica delle cosiddette “bastonature a contatore” sapientemente calibrate per non superare, cioè, una prognosi di nove giorni, tale da richiedere la denuncia dell’interessato (che, per paura di ulteriori “punizioni” non c’è quasi mai), perché non procedibile d’ufficio.

Sono proprio i “bastonatori” a condurre la  massa che, dopo i comizi,  si disperde per le vie cittadine, con aria da padrona, a dimostrazione del “nuovo corso” che intende imporre, e ne nascono incidenti con chi non intende sottostare alle prepotenze.

Dopo  un conflitto a fuoco con due Ufficiali intervenuti, in via Ugo Bassi,   in difesa di alcuni negozianti ai quali i manifestanti vogliono imporre di ritirare il tricolore esposto fuori dai negozi, e una carica di cavalleria nei pressi di palazzo d’Accursio, scatta la contromobilitazione di Arditi, studenti e “Sempre Pronti” (denominazione che pare si debba proprio al bolognese Zanetti), che intervengono soprattutto a difesa dei tricolore esposti.

Alle ore 18,00 la situazione è di estrema confusione, al punto che alcuni manifestanti strappano un drappo rosso esposto alla finestra, senza sapere, però, che si tratta di un cimelio che il proprietario, un vecchio garibaldino, ha tirato fuori con intenti “nazionali”.

Seguono scuse e restituzione dei brandelli da parte dei  “nazionali” che, ormai, si sentono padroni della situazione. e, infatti, con una tecnica già collaudata negli anni di guerra, Zanetti e alcuni dei suoi forzano una porta laterale di palazzo d’Accursio e penetrano all’interno.

Riescono così ad  improvvisare un comizio dal balcone della sala d’Ercole, e cazzottano qualche socialista trovato, nella stessa piazza Vittorio Emanuele (ora piazza Maggiore), al caffè Re Enzo, noto ritrovo di sovversivi.

Si dirigono poi d’improvviso, cogliendo di sorpresa le Forze dell’Ordine, che pensano tutto sia finito, verso la Camera del Lavoro che, per il suo significato simbolico e pure per il ruolo che svolge, di vero centro organizzativo e propulsore del sovversivismo cittadino, è anch’essa, come il Municipio,  destinata a diventare meta abituale delle azioni squadriste.

L’attacco all’edificio è condotto  da tre parti, via Cavaliera, via Goito e via Albari, ma incontra la forte reazione di quanti, evidentemente in attesa, si sono stipati all’interno. Nasce   un vivace conflitto a fuoco   che, però, non fa grossi danni (due i  feriti da parte nazionalista), e che, come scriverà “Il Giornale del Mattino”: terminò non per l’intervento delle Autorità, ma perchè i caricatori delle armi erano esauriti”. È allora che  la truppa   circonda la  sede sindacale, procede all’identificazione degli assalitori e provvede al fermo dello stesso Zanetti.

L’episodio ha poi un curioso epilogo quando,  una mezz’oretta dopo la fine della sparatoria, un uomo, tale Armando Ferrari, è fermato all’interno dello stabile sindacale e, sottoposto a perquisizione, gli viene trovato, sotto la giacca, il gagliardetto degli Arditi. Interrogato dagli stessi sindacalisti,  egli, prima di essere consegnato ai Carabinieri, dice che contava di esporlo, in segno di sfida,  sul tetto dell’edificio. Il gagliardetto, inizialmente trattenuto dai sindacalisti, un po’ di tempo dopo sarà restituito ai legittimi proprietari, per evitarne la sacrosanta reazione.

Sembra quasi la prova generale di quello che accadrà il 4 novembre dell’anno dopo, quando, però, l’iniziativa sarà del Fascio di Combattimento, mentre alcuni dei protagonisti saranno gli stessi, primo fra tutti il Tenente degli Arditi Attilio Pappalardo.

Al suo fianco c’è un altro Ufficiale smobilitato, il Tenente degli Alpini Mario Jacchia. Un curioso destino li attende negli anni a venire. Pappalardo sarà tra le prime vittime gappiste a Bologna e si vedrà intitolata la Brigata Nera Mobile, mentre  Jacchia cadrà da partigiano e sarà poi decorato di medaglia d’oro.

Percorsi sicuramente imprevedibili questo 14 giugno, quando  la prova di forza e coraggio data in piazza accresce, in una situazione generale che sembra andare in una direzione sempre più contraria agli elementi “nazionali”, la fama di invincibilità di questi primi squadristi, che già il 15 aprile, a Milano, avevano assaltato e distrutto la sede dell’Avanti .

Realtà e mito, quindi, si intersecano e sono destinati a durare nei racconti, nelle voci e nelle dicerie. Quello del coraggio è, da subito,  uno dei motivi del successo fascista per una cittadinanza “tradizionalmente portata ad ammirare la bravura”. Dinanzi alla Commissione Parlamentare lo testimonierà il Senatore Nerio Malvezzi “neutrale” tra le parti in causa:

Non avendo appartenuto mai a Fasci parlamentari, non ho avuto contatti con quelle che chiamerò milizie fasciste.

Debbo convenire che sono diventate popolarissime nelle città e nelle campagne, soprattutto perché sono state considerate come una valida difesa alle sopraffazioni. E’ piaciuto il coraggio di questi giovani, in una regione in cui si ha il culto del coraggio, come sono diminuiti nell’opinione pubblica alcuni capi socialisti che si sono dimostrati pavidi e paurosi.

Io, come liberale convinto, non posso ammettere che armi rosse o bianche assumano l’ufficio che deve tenere lo Stato, ma ribadisco questo concetto che, stando così le cose, i fascisti si sono acquistata una grandissima popolarità. (1)

 

Il “coraggio di questi giovani” come elemento catalizzatore delle simpatie dei pavidi e formativo del successo, è un dato di fatto che viene riconosciuto anche da osservatori ostili come l’anarchico Luigi Fabbri:

Né gli aiuti morali, materiali e finanziari del capitalismo industriale e terriero, né la complicità della forza pubblica, né l’adesione di  tutti i supini adoratori del successo avrebbe bastato a far forte il fascismo; anzi, tutti cotesti coefficienti sarebbero mancati, se non vi fosse stato all’inizio un nucleo di persone dotate di forza di volontà e di spirito di sacrificio che, a proprio rischio avessero per primi spezzato il ghiaccio della indifferenza degli amici e delle ostile noncuranza nemica; se –odio o amor che fosse- una forza morale interiore non li avesse scaraventati nella mischia, noncuranti anche della vita. Ed alcuni vi hanno trovato la morte. Questi pochi, animatori dei molti, misero in movimento tutto l’insieme che ora appare così forte; e furono i più oscuri. (2)

Nel contempo, si fa manifesta anche  la inadeguatezza dei capi sovversivi, e della loro incapacità di far seguire i fatti alle parole, preferibilmente esponendosi anche in prima persona.   Lo ammettono gli stessi socialisti. L’organo ufficiale della Confederazione Generale del Lavoro, trattando a fine gennaio dell’anno dopo dei conflitti di Modena e Bologna, così si esprimerà:

Poi…poi, spettacolo triste ed umiliante! Si hanno le fughe, che veruna giustificazione sottrae alla riprovazione ed alla attestazione di un contegno onde ormai vanno famosi troppi teorizzatori della violenza. (3)

E più avanti, attaccando, in particolare l’Onorevole Ferrari, segretario della Camera del lavoro di Modena, lo colloca tra coloro:

…i quali non hanno coscienza del loro dovere nei momenti più difficili, e sono i primi a scappare, quando maggiormente è richiesta l’opera loro e  la loro presenza…l’incoscienza di coloro che determinano situazioni insostenibili è tanto più dannosa in quanto alle conseguenze di esse essi si sottraggono, affibbiandole a quelli che devono restare e soffrire. E’ proprio ciò che è avvenuto a Modena (4)

Ancora prima e ancora più sconfortato era stato il giudizio dell’ “Avanti”, quando il fascismo era in culla, di fronte alle avvisaglie di ciò che si profilava all’orizzonte:

E possiamo egualmente riconoscere che nell’uso della violenza e della prepotenza sono meglio preparati e più fortemente muniti i nemici nostri. Sì, a Milano, a Roma, a Pola, a Trieste, a Fiume, il fascismo e l’arditismo hanno dato largo esempio di capacità all’azione -infinitamente superiore alla nostra- e noi saremmo davvero ridicoli, più che a quelli degli altri, ai nostri occhi stessi, se non ci accorgessimo che, mentre taluni dei nostri fanno la voce grossa, i nostri nemici ingrossano il pugno e colpiscono forte ed inesorabilmente. (5)

La prova di forza del 14 giugno non basta, però,  a rianimare il fronte fascista bolognese. Nell’estate Nenni e alcuni altri si allontanano, altri abbandonano la politica e passano ad un impegno esclusivamente reducistico, soprattutto nelle file degli Arditi, l’incertezza e lo sbandamento fanno da padroni.

Di contro, fa la sua comparsa un personaggio, già abbastanza noto in città, ma destinato ad assumere un ruolo che forse pochi possono prevedere: Leandro Arpinati.

L’occasione è la proclamazione dello sciopero internazionale di solidarietà alla Russia sovietica, contro la quale, proprio per il suo carattere “antinazionale” insorgono i Fasci e i lavoratori del nascente sindacalismo corridoniano.

All’assemblea dei ferrovieri del 20 luglio si presenta proprio Arpinati, già molto attivo nelle battaglie interventiste, che si scontra con i suoi colleghi favorevoli all’astensione dal lavoro:

Ma al comizio, convocato nel circolo macchinisti e fochisti per adottare una decisione, l’operaio Arpinati –come dicono i giornali del tempo- solo e senza seguito, si oppone risolutamente alla proclamazione dello sciopero, spiega come sia pazzesco  per un popolo senza riserve qual è l’ italiano, prestarsi a certi giochi internazionali, e conclude con una categorica affermazione: “Quanto a me, io resto in servizio, e nessuno riuscirà ad impedirmelo”.

Si scatena l’infermo: tutto il comizio, come una bolgia, si riversa al linciaggio del ribelle, che frattanto provvede alla propria difesa, fieramente, a calci e colla rivoltella in pugno, finchè è sopraffatto ed espulso dalla sala. Il caso, in questa contingenza, ci offre un incontro simbolico.

Arpinati, entrando nella stazione, vi scorge l’onorevole Francesco Zanardi. Gli si avvicina, e, con accento risoluto: “Vede, dott. Zanardi, lei è più contrario di me a questo sciopero insensato, ma, stando qui, e non avendo il coraggio di dire il suo pensiero, lei esercita una influenza deleteria sull’animo dei ferrovieri. Favorisca  andarsene!”

E Zanardi se ne va, con atteggiamento incerto, borbottando: “Ma lei vuole filosofare!” (6)

 

Arpinati  condivide, con molti protagonisti del primo fascismo, la singolare caratteristica di essere un personaggio fuori dal comune. Nato in una famiglia di umili condizioni, alla fine delle scuole elementari viene mandato a Torino, prima come sguattero in un albergo, e poi operaio in fabbrica, ed è qui che  si accosta, per la prima volta,  alla predicazione anarchica.

Alterna frequenti periodi fuori da Civitella, il suo paese natale, a più brevi permanenze a casa, ma ormai   il demone della politica si è impadronito di lui. Da bravo anarchico viene coinvolto in epiche litigate (al limite dello scontro fisico, come usa in Romagna a quei tempi)  col socialista Mussolini, finchè, condividendone la svolta intervista, diventa uno dei suoi più sicuri e apprezzati seguaci.

Assunto in Ferrovia, da “ferroviere mobilitato” gli è impedito di partire per il fronte, ma per lui nessuno si azzarda a parlare di “imboscamento”, come qualcuno imprudentemente  farà a Cremona per Farinacci, per poi  rimetterci le penne sia in Tribunale che nelle piazze.

Questo anche perchè il giovane Arpinati si porta appresso una fama di coraggioso, attestata, per esempio,  dal suo comportamento allorchè, da solo, a Civitella, poco più che adolescente, ha affrontato e ridotto a miti consigli  il falegname del paese che, impazzito, aveva ucciso la cognata e minacciava di uccidere la moglie e un’amica.

La sua “scanzonata impudenza”, lo mette ben presto in mostra nella Bologna di guerra, per le numerose  zuffe con i neutralisti, che  alterna all’assidua frequenza delle scuole serali, dove cerca di farsi la cultura che gli manca. La costanza e l’aggressività del suo impegno politico è tale che, sempre in prima linea, si vede costretto –lo racconta quasi divertita la figlia-  a  sostituire la fluente capigliatura con un taglio “a spazzola”, con il dichiarato scopo di  evitare che la chioma offra facile appiglio a chi voglia immobilizzarlo per meglio picchiarlo durante le frequenti zuffe.

Dopo l’episodio del 20 luglio, aderisce al Fascio,  e  già a ottobre  è nella delegazione bolognese al Congresso di Firenze, al termine del quale, dopo ripetute cazzottature con i rossi che vogliono impedirne lo svolgimento, mentre accompagna Mussolini che, anche per le minacce ricevute, torna a Milano in auto, resta con lui coinvolto in un incidente alle porte di Faenza. Dà così  prova, insieme,  della sua affidabilità come “uomo di mano” e della personale devozione al Capo, che lo ricambia di affettuosa considerazione.

Eppure, le cose tra loro non sono sempre andate così.

Il 13 marzo del 1910 Mussolini, agitatore socialista, si era recato a Civitella per commemorare Andrea Costa, che, però, in zona non era ben visto perché aveva lasciato -40 anni prima !-  la causa anarchica per quella socialista

Capo degli anarchici locali era proprio  Leandro Arpinati, che, con alcuni suoi seguaci, dopo aver tappezzato il paese di manifesti contro il “traditore” Costa, si è recato in piazza ad aspettare l’oratore, con il coltello in saccoccia.:

Quando Mussolini apparve alla tribuna, aveva gli occhi di bragia, ai quali davano un tetro risalto l’incolta barba nera e l’incipiente calvizie. Egli sapeva dei manifesti, ma non li aveva neppure voluto leggere. Come un nume irato, squadrò due o tre volte in lungo e in largo la folla, si aggiustò la cravatta nera, e tirò fuori il discorso più silenziario che abbia mai fatto in vita sua,

“Compagni, cittadini –disse- Di Andrea Costa imitate l’esempio: i necrofori non contano !”

E saltò giù dalla tribuna, tra una folla delirante che aveva capito. (7)

GIORNALI Anno I, numero 7 della rivista ‘La Lotta di Classe’, organo della Federazione Collegiale Socialista Forlivese, con un articolo firmato da Ben…

La cosa, però, non finirà lì. Qualche settimana dopo, indignato per il tono antianarchico di alcuni articoli del giornale mussoliniano “La lotta di classe”, sempre Arpinati si recherà in bicicletta da Civitella a Forli a trovare il maestro di Predappio “per metterlo a posto e riporre le ossa in un canestro”.

I due, però, non si incontreranno, e il corso della storia prenderà, quasi immediatamente,  una direzione diversa. Infatti inizia in questo periodo la collaborazione arpinatiana al giornale di Mussolini e la sua partecipazione –da sostenitore d’ora in poi- ai comizi del predappiese.

Nasce, all’incirca nello stesso tempo, l’ amicizia con il rivoluzionario socialista Torquato Nanni –anch’egli legato a Mussolini- che durerà sino alla fine, quella mattina del 22 aprile del 1945, quando un commando partigiano li fredderà entrambi a Malacappa, piccolo borgo alle porte di Bologna.

NOTE

  1. Commissione parlamentare per l’accertamento dei fatti avvenuti in Bologna, Relazioni finali, Roma 1921, pag. 45
  2. Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva, Bologna 1922, pag. 96
  3. In: Giorgio Alberto Chiurco: Storia della rivoluzione fascista, Firenze 1929, vol. III, pag.44
  4. Ibidem, pag. 45
  5. L’”Avanti” del 27 ottobre del 1920, in: Attilio Tamaro, Venti anni di storia, Roma 1953, vol. I, pag 109
  6. Torquato Nanni e il fascismo bolognese, Bologna 1927, pag. 108
  7. Ivi, pag. 30

FOTO 1: nota foto che testimonia lo specialissimo rapporto tra Arpinati e Mussolini

FOTO 2: La lotta di classe, il giornale mussoliniano al quale collaborò anche Arpinati

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