11 Maggio 2024
Età oscura

La Via Solare di Dante – Rita Remagnino

Nel quarto cerchio infernale Dante colloca due schiere antitetiche di peccatori, gli avari e i prodighi, che in modo diverso nella forma ma uguale nella sostanza si sono allontanati dalla giusta misura (il Centro). La loro pena è grottesca: costretti a spingere con il petto degli enormi macigni in sensi diametralmente opposti si scontrano in continuazione, rinfacciandosi a vicenda i peccati commessi con parole ingiuriose.
Come fa l’onda là sovra Cariddi, / che si frange con quella in cui s’intoppa, / così convien che qui la gente riddi” (Inferno, canto VII, 22-24). Come s’infrange l’onda presso Cariddi cozzando contro quella proveniente da Scilla, così i peccatori finiti quaggiù devono danzare la ridda, dal longobardo wridan (torcere, girare in tondo), un antico ballo popolare che si svolgeva cantando in tondo, talvolta attorno a un albero/palo.
Lo scenario infernale non stona affatto con la danza solare allestita da Dante, consapevole delle influenze spirituali prodotte sui corpi fisici terrestri dall’attività trifasica del Sole (pallido al mattino, d’oro a mezzogiorno, nero di notte). La luce è energia, si trasforma, difatti il poeta non perde il contatto con essa neppure nell’aere senza stelle dell’inferno.

 

Impossibile non pensare alle varie danze ritmate, qui scandite da un “ontoso metro”, o cantilena ingiuriosa, eseguite per millenni dalle stirpi di «tradizione solare» dislocate in vari punti dell’emisfero settentrionale. Per esempio i Greci simulavano attraverso la Danza del Labirinto una discesa nelle tenebre dell’Oltretomba completa di incontro con un’entità pericolosa e tenebrosa (come il Pluto dantesco) che l’iniziato doveva abbattere e vincere. All’alba dei solstizi le comunità celtiche rievocavano il moto del Sole muovendosi a suon di musica attorno al Druido che camminava come un fachiro sulle braci ardenti. Nella celebre Wiwanyag Wachipi il danzatore sioux imitava il volo di Wakan-tanka, emblema del Sole, l’unità divina, facendosi egli stesso uccello. In tempi più recenti le popolazioni europee danzavano attorno all’Albero della Cuccagna, un palo sciamanico fatto e finito con tanto di bandierine dei quattro colori sacri (bianco, rosso, giallo, nero) in rappresentanza delle Quattro Direzioni e delle Quattro Razze umane.
In ciascuno di questi percorsi il girotondo dei corpi era finalizzato allo straniamento, ossia al distacco delle menti dalla materialità del quotidiano. Non è un caso che Dante ne piazzi uno proprio nel bel mezzo dei materialisti confinati nel quarto cerchio. Caro lettore, ammonisce, se vuoi schivare la giostra infernale alza lo sguardo, elevati, osserva la spada di Damocle sospesa sulla tua testa.

 

Incline a lasciare sulla strada invisibili indizi affinché altri possano raccoglierli e trovare la Via, il Fiorentino invita a meditare sul contrasto tra l’avidità puerile dei suoi contemporanei e la fermezza adulta dei fondatori della civiltà, che non muovevano un dito senza pensare al senso cosmico delle proprie azioni. Non ballavano in tondo come tanti cretini in nome di una non meglio identificata «primitività», semplicemente stimavano sopra ogni cosa la trasmissione della memoria.
I riti servivano anche a ricordare gli eventi cruciali che avevano segnato in modo indelebile la Storia dell’Umanità, e tra questi vi era il catastrofico spostamento dell’asse terrestre (il palo), oggi inclinato di 23° 27′ sul piano dell’eclittica. Originariamente i due Poli erano attraversati come un fuso da un’immaginaria linea perpendicolare attorno alla quale la Terra ruotava ma poi, per cause imprecisate, l’asse era uscito dalla sua sede sconvolgendo la Terra e il Cielo.
Il caso è eccezionale ma ricorrente, va tenuto in primo piano onde evitare che certi desideri umani prendano il sopravvento, obnubilando la mente. Sebbene l’aridità morale dell’avaro sia differente dalla generosità patologica del prodigo, perché il primo provoca danni al prossimo mentre il secondo può persino alleviarne le sofferenze, è comunque assurdo legare le proprie opere a un potere materiale che non sarà mai durevolmente nelle mani degli uomini.

 

In linea con la tradizione solare Dante rispolvera in questa tappa del viaggio infero la metafora dell’axis mundi, declinata per l’occasione in una delle sue forme classiche: l’albero della nave. “Quali dal vento le gonfiate vele / caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca, / tal cadde a terra la fiera crudele” (Inferno, canto VII, 13-15). Come le vele gonfiate dal vento cadono ravvolte, se l’albero della nave si spezza, così cade a terra il capitalista decaduto Pluto.
Nell’impossibilità di affermare, o smentire, le conoscenze del Fiorentino sul Palo Sacrificale (yupa) della mitologia vedica, si può comunque ipotizzare che avesse sentito parlare degli imponenti obelischi egizi e dei misteri di Eliopoli, o della colonna sacra degli antichi ebrei (matzewa). In effetti, è sempre difficile dire cosa un iniziato sa o non sa.
Ciò che invece emerge con chiarezza da questi versi è l’impostazione culturale dichiaratamente «europea» del poeta, o per meglio dire «indoeuropea» in quanto fondata su principi di carattere solidaristico, dunque fortemente critica verso atteggiamenti sociali negativi come l’avarizia, la dissipazione dei beni famigliari, il rifiuto dell’ospitalità.
Stando bene attento a non cadere nell’eccesso opposto l’uomo degno (solare) deve essere generoso sia della propria persona che dei propri beni. Non si risparmi né si sottragga al fine di preservare la reputazione, la rinomanza, il nome della propria famiglia.
Chiaramente la gloria in questione non è futile vanagloria bensì piena realizzazione dell’idea più alta che un individuo può avere di sé. Un sentimento non scontato, né condiviso da tutte le culture, come dimostra ad esempio la «razionalizzazione economicista» dell’esistenza tenacemente perseguita nel tempo da quella ebraica.

 

All’epoca di Dante molti processi erano ancora in gestazione, per cui discuterne qui sarebbe fuorviante. Ma fino a pochi decenni fa, quando i pensatori potevano esprimersi liberamente, cosa che oggi risulta sempre più difficile, eccellenti analisti come Max Weber e l’amico Werner Sombart resero di dominio pubblico il tema dell’ascesa dell’economicismo. L’occasione venne da una pubblicazione di quest’ultimo (Gli ebrei e la vita economica, del 1911) che risaliva alle radici della ricerca permanente del profitto, parente stretto dell’avarizia. Una corsa forsennata, come quella dei lemmings, che in vista della meta assume immancabilmente i contorni del suicidio di massa.
Secondo Sombart l’inclinazione mentale ebraica per il commercio avrebbe spinto i ceti più abbienti d’Europa ad accostarsi al mondo come a un grande mercato, prima di coinvolgere tutte le altre classi sociali. In questo contesto sarebbe nata la società mercantile che da oltre due secoli e mezzo genera mostri a ciclo continuo, come in una catena di montaggio, aggravando giorno per giorno le nostre tribolazioni. Pluto dunque ci scuserà se prendiamo a prestito il suo grido di dolore: “Pape Satàn, pape Satàn aleppe!
Sulla scia di questo suono agghiacciante Dante e Virgilio accedono al «cerchio successivo», ancora più doloroso del precedente, ma purtuttavia necessario. Al momento non si hanno notizie sulla dolente ripa che toccherà percorrere a noi ultimi per uscire dal materialismo terminale dell’Età Oscura; ma ultimamente l’inaspettato accade sempre più spesso, e impiega metà del tempo a realizzarsi.

 

Il linguaggio utilizzato dalla cupidigia-lupa incarnata da Pluto è l’idioma arcano di Satana, il primogenito. Per certi versi affine alle giaculatorie, ugualmente superate e sorpassate, dei padrini dell’ideologia globalista che pensano di «ristrutturare il capitalismo» con le vecchie ricette della nonna (profitto privato e debito pubblico) dopo avere capovolto il mondo.
Se nell’immediato futuro mancherà la lungimiranza di modificare le regole del gioco con un cambiamento guidato dall’alto, c’è il rischio concreto che tale cambiamento verrà imposto dal basso, con conseguenze nefaste per tutti. A quel punto, sì, nascerà un Nuovo Ordine Mondiale, ma non sarà quello che l’avidità della finanza apolide aveva immaginato.
La dittatura planetaria del dollaro è entrata in crisi, e con essa comincia a zoppicare l’egemonia unipolare che si voleva imporre al mondo intero. Aumenta nelle masse rese schiave dal denaro il rifiuto del presente, in molti vorrebbero riprendersi il proprio destino, alcuni Stati cominciano a rivendicare un posticino nella Storia.
In giro c’è ancora molta timidezza, soprattutto nel cosiddetto Occidente. Dopo secoli di obbedienza, scarseggiano gli individui orgogliosamente solari e tradizionali. In pochi hanno il coraggio di puntare il dito, agendo di conseguenza, come invece fa Dante: o uomini sciocchi, dice per bocca del Maestro, quanto siete ignoranti! La gestione insensata del danaro conduce l’uomo all’Inferno, privandolo del Paradiso. Colui che corre dietro ai soldi è vittima di un inganno dei sensi, non s’avvede che nessuna fortuna potrà mai procurargli la pace dello spirito.

 

Chiaramente la Fortuna di cui parla il poeta non è la volubile Tyche dei Greci bensì qualcosa di gran lunga precedente. Traspare da questo breve intermezzo dottrinario la solarità del concetto di Destino elaborato dalla cultura indoeuropea, cioè di una forza superiore sulla quale l’uomo non ha alcun potere. Siamo lontani dalla visione umanistica che reputa l’uomo capace di fronteggiare vittoriosamente la Fortuna, che invece gira “la sua rota / come le piace” (Inferno, canto XV, 96).
Inconoscibile agli esseri umani questo agente incaricato di eseguire la volontà divina può portare gli avari al ravvedimento nella vecchiaia e i prodighi al rinsavimento nella povertà, salvando così qualche anima dalla dannazione eterna. Ma non si sa a chi tocca, né perché.
Il percorso della Fortuna, prosegue Virgilio, “è occulto come in erba l’angue”, cioè nascosto come il serpente che striscia nell’erba, dipendendo in toto dal Superiore. Qualcuno la elogia, altri la maledicono, ma lei se ne infischia del chiacchiericcio umano e vive serena insieme alle intelligenze angeliche. “Vostro [degli umani] saver non ha contasto a lei: / questa provede, giudica, e persegue / suo regno come il loro li altri dèi” (Inferno, canto VII, 85-87).

 

La quarta fossa dell’Inferno è piena di ecclesiastici, riconoscibili dalla tonsura. Come i Padroni Predoni contemporanei anche loro nel Medioevo dettavano legge, tirando a campare su ragioni etico-morali (il cliché è sempre lo stesso) e macchiandosi sovente di uno dei peccati più spregevoli, l’avarizia, considerata da Dante la radice di tutti i mali del mondo e la causa prima del disordine politico e morale della società.
Sebbene gli interessi economici del Vaticano siano tuttora consistenti, non c’è paragone con quelli del Trecento condannati dal poeta. Nel XXI secolo l’Oscar dell’Avidità va alle grandi società d’investimento che possiedono l’industria bellica, quella farmaceutica e l’intera rete tecno-scientifica. Solo gli armamenti movimentano negli Stati Uniti più di milletrecento miliardi di dollari all’anno, i profitti di Big Pharma sono stellari e le Big Tech più quotate in Borsa incassano quasi un milione di dollari al minuto. Se per ipotesi oggi ci fosse qualcuno in grado di concepirlo e di descriverlo, un girone dantesco non basterebbe a contenere l’avidità dei paperoni bramosi di riempire i loro depositi di oro. Neanche un Inferno intero, probabilmente.

 

Per precauzione il Fiorentino non fa nomi, affidando a Virgilio il compito di dire che la vita dissennata ha reso questi dannati del tutto irriconoscibili. “Vano pensiero aduni: / la sconoscente vita che i fé sozzi / ad ogne conoscenza or li fa bruni” (Inferno, canto VII, 52-54). In qualità di elemento autorevole compete al Maestro condannare il loro attaccamento alle ricchezze terrene, che automaticamente li ha esclusi dalla salvezza.
A giudicare dalla tela sbrindellata tutta da ritessere che ci ritroviamo fra le dita, non si può dire che le sue parole abbiano fatto breccia nel cuore degli uomini. O che sia servito a qualcosa studiare sui libri che l’economia in quanto tale non esiste, ci sono soltanto politiche che mettono in campo scelte capaci di avvantaggiare qualcuno e svantaggiare qualcun altro, motivo per cui il fantomatico «primato dell’economia» nella società è un’invenzione di sana pianta.
La conferma plastica di questo principio elementare proviene direttamente dal modello di «sviluppo» liberista, ormai antitetico al mito frigio di re Mida: quello che l’economia di mercato tocca, si trasforma in merda. E’ la vittoria della follia. Nonostante il quadro stia perdendo smalto, lasciando intravedere sfumature inedite.
E’ in arrivo da est la tempesta perfetta che gonfierà le vele della barca-banca fino a spezzare l’albero maestro, che, cadendo, ucciderà il mostro insieme alla sua ciurma ottusa. Una combriccola incapace perfino di capire che il mondo attuale non è più quello vergine che la nave aveva trovato entrando in rada bensì l’altro, quello distrutto a suon di colpi di stato, invasioni e aggressioni militari, assassinii mirati di capi di stato, rivoluzioni organizzate dall’alto a scopo di lucro.

 

In modo inconsueto la conclusione del Canto VII dell’Inferno non coincide con la visione di un determinato luogo. La situazione sospesa crea un’atmosfera di attesa. Di colpo il lettore si trova catapultato nel quinto cerchio, dove la palude Stigia che circonda la città di Dite ribolle a causa dei gemiti emessi dagli iracondi che hanno riempito la loro vita di rancori e vendette anziché donarsi alla serenità delle cose semplici.
Rabbia e livore ci attendono dunque alla prossima fermata? Se anche fosse, dalla giostra non possiamo scendere. Fino all’ultimo dovremo ballare la ridda che farà impazzire molti e rinsavire pochi altri, i quali saranno riportati sulla Via Solare che appartiene alle stirpi europee ed euroasiatiche per diritto di nascita.
Neppure per un minuto Dante ha corso il pericolo di perdere questa strada. Non tanto perché fosse un ottimista incallito che vedeva la luce come “forza vivificante, dotata di potere seminale, germinale e cosmogonico” (Treccani, Enciclopedia Dantesca), quanto per via della sua salda integrità morale e spirituale. Una pienezza proveniente da lontano, frutto di un duro lavoro ed ispirata dalle tradizioni solari degli antenati, le quali, passando per varie civiltà sono arrivate fino ad Evola ed Herman Wirth. Dove la luce si è spenta.
La mistica della vittoria e dell’imperium non si addice all’oscura Età della Rassegnazione, un’epoca cupa di totale sottomissione al dominio attraverso il denaro esercitato per mezzo di avanzate tecnologie che puntano ad invertire le regole cosmiche. In modo del tutto innaturale si vorrebbe posizionare il materiale al di sopra dello spirituale, la Terra sopra il Cielo, ma il bello di tutta questa faccenda è che nessuna fortuna potrà mai finanziare una simile operazione. Si creerà soltanto un grande caos che susciterà una speculare richiesta di ordine, come sempre, perché la vita è naturalmente ordinata.

 

(il viaggio continua)

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (ed. Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (ed. Audax Editrice). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

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