9 Aprile 2024
Bushido Mishima Punte di Freccia

La mano e il pugno

di Mario M. Merlino

          Kimura: ‘Quando apriamo la mano, che cosa diventa il pugno?’ recita una parabola Zen. Dove si realizza la massima coincidenza della carne e dello spirito è, al contempo, il momento della loro dissolvenza.

Kawasaki: Come nel coito!

          Così termina la trasposizione in forma teatrale del racconto La voce degli spiriti eroici(1966) di Mishima Yukio, ideata elaborata realizzata dal sottoscritto (schizzi di vanità!) con la collaborazione di un gruppo di giovani esordienti ed entusiasti e dimostratisi capaci. Nel quarantesimo anniversario, 25 novembre 1970, del suo suicidio rituale, il seppuku, fu possibile rappresentarlo all’interno del Museo della Civiltà Romana. Evocativo spazio dove lo spirito guerriero – quello di Roma, ‘vivere militare est’, e del bushido, ‘fra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il samurai’ – hanno trovato legittima sinergia, comune e profonda atmosfera. Presente, pur se in forma privata, l’ambasciatore del Giappone. Su invito oltre cento spettatori che di più non c’era concesso. Il solo rammarico che la complessità di scenografia, costumi, i bravi suonatori di strumenti originali e di musica tradizionale, non ha consentito farne uno spettacolo itinerante, dimostrando ancora una volta che fummo sì ‘la spranga sui denti’ (così doveva intitolarsi il mio libro E venne Valle Giulia) ma che sapemmo raccogliere il meglio del Novecento in uomini e idee.

          L’amico Josè Luis Ontiveros, nel 1987, pubblica in Messico Apologia della barbarie, un breve saggio ove traccia alcune linee guida per comprendere appunto Mishima Ernst Jùnger ed Ezra Pound, di cui mi spedì copia. E da cui ho tratto la parabola Zen della mano e del pugno. La fugacità delle parole con cui s’intende descrivere il mondo mentre la dottrina buddhista allude e tace. Ricordo un vecchio film francese di propaganda durante la guerra d’Indocina, ancora in bianco e nero. Il commissario politico dei viet-mihn mostra agli abitanti del villaggio come un uovo nella mano, se schiacciato, perde il bianco della chiara mentre rimane il giallo del tuorlo. I francesi saranno scacciati ben presto, gli orientali rimarranno. Una raffica di mitra lo stende e il mercenario, già soldato tedesco, che si è aggregato al giovane tenente, uscito da poco dall’accademia e ancora prigioniero di convenzioni regole ordinamenti, spiega che, oltre il bianco ed il giallo, c’è qualcosa che unifica: il rosso colore del sangue. La guerra rivoluzionaria di cui narrano i romanzi di Jean Lartéguy. Qui, va da sé, diamo altro significato…

          Se le dita sono le parole, il pugno è la realtà fenomenica o, con altra metafora, ‘la luna e il dito che la indica’ tutta l’esistenza si svolge all’interno di questo conflitto tra l’essenza delle cose e l’intento di volerne trarre una compiuta descrizione. Allora il distacco da sé, realizzato da Mishima nell’atto di consegnarsi alla morte, incarna sotto il gesto della wakizashi, la corta spada del samurai, la sfiducia dello Zen verso ogni forma verbale d’espressione. Ecco perché abbiamo potuto scrivere, credo in Inquieto Novecento, che ‘non fa male’, ovviamente non fissando la riflessione sulla feroce e acuta lacerazione della carne… E sempre il sangue si fa risolutore. Aveva ammonito Nietzsche: ‘Scrivi con il sangue e scoprirai che il sangue è spirito’… Se il linguaggio della mente domina con la sua razionalità, qual è il compito del linguaggio del corpo, a cui sovente siamo così poco attenti, eredi magari inconsapevoli del Socrate del Fedone che chiede a Critone di offrire, alle soglie della sua morte, un gallo ad Asclepiade? Il pugno e le dita, così in contrasto fra loro, inconciliabili, ove la presenza dell’uno esclude le altre e viceversa, eppure… eppure unica è la mano…

          ‘Che potenza, che poesia, che benedizione! Essere capaci di fermare il tempo quando si presenta alla vista la risplendente bianchezza della vetta…’, così la bellezza si eternizza e qui sta lo spartiacque tra quel morire al momento giusto e l’avvizzire, la decadenza, la bruttura della vecchiaia (mi permetto di riproporre questo tema di Mishima perché devo fare, comunque, i conti con l’anagrafe impietosa). Una dottrina che si fa azione e l’azione che si nobilita divenendo dottrina, parafrasando Camillo Pellizzi, giustifica e s’impone nella nostra immarcescente convinzione di scegliere per non essere scelti, di esseri in cammino, di essere contro. Le dita e il pugno, allora, sono soltanto forma di quel dominio della mano che il filosofo Anassagura indicava quale luogo dell’intelligenza…

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