9 Aprile 2024
Breviario Ribelle Cultura

La guerra delle parole. Differenza versus diversità – Roberto Pecchioli

Il diavolo si nasconde nei dettagli: alzi la mano chi conosce la differenza tra … differenza e diversità. Qualche sfumatura esiste, compresa da pochi linguisti pignoli. Il dizionario Zingarelli alla voce “differenza” indica come primo significato “ diversità” e viceversa. Invece no. Nella guerra delle parole che il potere conduce contro di noi, vietandone alcune e obbligando all’uso di altre, differenza e diversità non sono più sinonimi. Nella nuvola rosa della neolingua il primo termine è cattivo, il secondo buono.

Sembra un gioco di parole e in parte lo è, per nulla neutrale e niente affatto innocente. Il politicamente corretto prima, la neolingua poi, hanno distorto senso e significato di parole, espressioni, modi di dire, per adattarle al modo di sentire, pensare, parlare, voluti dal potere. Ecco dunque che due termini come differenza e diversità divaricano i significati sino ad assumere opposte connotazioni. Gabriele D’Annunzio, immaginifico giocoliere del linguaggio, scriveva nella prima delle Laudi (Laus Vitae): “ O diversità delle creature, sirena del mondo, io sono colui che t’ama”. Il Vate pescarese intendeva riferirsi al meraviglioso caleidoscopio delle differenze, al fascino della straordinaria varietà del creato e delle creature.

Non incorre nell’odierna polizia del pensiero perché ha usato la parola “diversità”. La “differenza” non è vista di buon occhio nel serraglio neolinguistico. Evoca infatti la disuguaglianza, uno dei divieti insormontabili della post modernità. Il teorema egualitario si fa postulato, ossia verità autoevidente, benché indimostrabile. Il mistero buffo è perché il tabù si arresti all’altezza del portafogli, accettando la più ingiusta delle differenze (o diversità…), quella dei mezzi economici. L’uguaglianza si trasforma in equivalenza, ossia in-differenza qualitativa, proibizione di emettere giudizi o avere pareri difformi su un numero crescente di temi sottratti al libero pensiero.

Essere a favore delle differenze tra esseri umani, civiltà, prendere atto dell’infinita varietà del mondo espone a un’accusa sanguinosa, il cosiddetto “differenzialismo”. Il termine è recente e la sua definizione partigiana è tratta, ahimè, dalla pagina web di una scuola piemontese. “ Variante, oggi assai in uso, del razzismo. La posizione di chi ritiene necessario difendere e/o preservare le differenze culturali dai processi di massificazione ed omogeneizzazione tipici delle società occidentali e per questo pensa che le società non debbano in nessun modo essere multiculturali. Il che significa che le differenze e le alterità vanno difese ma, proprio per questo… ognuno a casa propria. In sede educativa e sociale il rischio di un velato razzismo differenzialista è reale e tende a concretizzarsi in una specie di apartheid dove le culture altre sono sì riconosciute ma “recintate” e conservate in appositi contenitori sociali (tipo riserve indiane) senza possibilità significative di interagire sia tra loro che con le culture autoctone in vista della costruzione di una società intesa come casa comune ove ad ognuno competono uguali diritti ed uguali doveri. “

Al netto del consueto moralismo astratto, la conclusione è semplice: se riconosci, accetti , difendi la “differenza” sei razzista in quanto neghi l’uguaglianza. Tutta un’altra cosa se lodi la “diversità”. Mentre la differenza richiama l’ineguaglianza, la diversità sarebbe il corollario postmoderno dell’uguaglianza, in quanto base di una società composta da infiniti segmenti, un patchwork illimitato di minoranze le cui specificità – o stranezze, bizzarrie, sino ad autentici disturbi – devono essere tutte accolte e rese soggetto di diritti. La “mia” diversità (personale, comportamentale, sessuale, psicologica) diventa il tratto fondamentale della mia personalità, l’etichetta che mi inserisce in una comunità di uguali per diversità.

La società sarebbe così la somma algebrica di ogni diversità, con la proibizione di stabilire una “normalità” o un tessuto sociale di principi e condotte condivise, eccetto, ovviamente, la stessa “diversità”. Secondo il sociologo franco canadese Mathieu Bock-Coté si tratta di un’autentica utopia diversitaria in cui l’eroe è l’Altro, il diverso in tutte le sue possibili accezioni. Il politicamente corretto è il codice obbligatorio di un culto organizzato intorno a dogmi che il catechismo della retorica e della propaganda trasformano in senso comune. Passiamo dal multiculturalismo al non-culturalismo che nega l’evidenza, imponendo l’equivalenza tra culture e civiltà. Non esiste la civiltà, esistono “le” civiltà, non la cultura, ma “le culture”.

Non è permesso alcun giudizio comparativo, ancor meno una graduatoria, giacché ogni cultura è un mondo a sé stante, di cui possono essere descritte solo le differenze, anzi le diversità. Un relativismo assoluto (gli ossimori sono una costante della contemporaneità), la cui estrema conseguenza è un soggettivismo altrettanto assoluto dove “io sono la mia diversità” che nessuno può discutere o negare. Di qui l’equivalenza tra desideri e diritti e la concezione dell’identità non come eredità naturale, storica che produce comunità e insieme differenza, bensì scelta fluida, autodeterminata.

Sembrano innocui giochi linguistici, invece sono concetti che influiscono profondamente sulla quotidianità, improntando la nostra visione del mondo. La “diversità” è tutelata dalle organizzazioni transnazionali, mentre la differenza è negata, screditata, relegata al rango di credenza sciocca, regressiva. Le diversità, nella forma della decostruzione/decomposizione delle comunità e della frammentazione della società in infiniti segmenti tendenzialmente ostili e autoreferenziali è diventata nell’ultimo mezzo secolo il valore preferito dell’establishment occidentale. Tanto fondamentale da non poter essere revocata in dubbio.

Le organizzazioni internazionali globaliste sono in prima linea nel promuovere la diversità. Per l’Unesco, “ “la diversità è l’essenza stessa della nostra identità”. Il significato vero è la celebrazione della pluralizzazione delle identità e delle differenze culturali in odio al principio nazionale, alla sovranità statuale, al diritto di esprimere giudizi di merito, al concetto stesso di popolo oltreché di normalità.

Le organizzazioni transnazionali presentano la diversità come moralmente superiore a ogni altro principio. Dagli anni Cinquanta sono state avviate operazioni sistematiche per screditare lo statuto etico di comunità e nazioni omogenee. Chi rifiuta l’agenda della diversità – individui, gruppi, comunità – è descritto come analfabeta psicologico, arretrato, timoroso degli altri, xenofobo. L’attaccamento alla propria identità, (la “ differenza” negativa) iniziò a essere presentato come movente delle guerre e il patriottismo reso sinonimo di fascismo. Il primo documento “diversitario” fu La personalità autoritaria di Theodor Adorno e di altri membri della Scuola di Francoforte radicati in America. La diversità veniva mostrata come antidoto positivo all’identificazione con la propria nazione o con il gruppo sociale di appartenenza.

Il testo ha giocato un ruolo decisivo nell’assegnare una connotazione negativa all’aspirazione a vivere in società coese con valori comuni. La conclusione fu che il “bisogno di omogeneità” rappresentava un grave difetto psicologico, sintomo della “ personalità autoritaria”. Adorno tratteggiò un contrasto etico tra le persone attratte dalla diversità e quelle che la rifiutano. “Forse è soprattutto la volontà di includere, accettare e perfino amare le differenze e la diversità, in contrasto con la necessità di stabilire chiare linee di demarcazione e determinare superiorità e inferiorità, il criterio basilare di distinzione dei due modelli opposti. I membri di un gruppo esterno che rappresentano deviazioni dalle norme culturali del gruppo interno sono minacciosi per coloro che hanno bisogno di concepire le norme culturali come assolute per sentirsi al sicuro.” Divide et impera.

Il rifiuto della diversità era bollato come più pericoloso di un difetto caratteriale: un tratto dannoso e autoritario degli individui. Da quel momento “curare” dall’ “irrazionale” bisogno di omogeneità e spingere ad amare la diversità è diventato un progetto di ingegneria sociale. Per renderlo indiscutibile, i francofortesi asserivano che il contrasto morale tra diversità e omogeneità era fondato sulla scienza. In realtà era l’ostilità ideologica verso gli ideali di sovranità nazionale, patriottismo, tradizione – culturale, civile, religiosa – a trasformare l’omogeneità in qualcosa di tossico. Le oligarchie – diventate globaliste- compresero presto le opportunità offerte dalle teorie “diversitarie”.

Omogeneità e diversità non sono categorie morali, ma termini descrittivi. Il fatto che si preferisca o meno stare con soggetti diversi o simili a noi non ha alcuna connotazione etica. Il progetto di trasformare la diversità in un valore nasce dalla volontà di estirpare la solidarietà e l’identità interiorizzata che deriva dall’appartenenza ad una nazione o a una cultura comune. La promozione della diversità è il mezzo privilegiato per promuovere il multiculturalismo, che determina la crescita della polarizzazione sociale. Le politiche sulla diversità hanno incoraggiato la fossilizzazione di identità agonistiche, spesso reciprocamente incompatibili, in concorrenza per “diritti” sempre nuovi e per ottenere riconoscimenti superiori alle identità rivali. Paradossalmente, la diversità ha promosso l’omogeneizzazione dell’identità all’interno dei diversi gruppi. La diversità è diventata un feticcio sino alla sua “naturalizzazione”, la tendenza dei membri di ciascun gruppo a definirsi in base a un’ unica caratteristica, baricentro e scopo dell’esistenza. In questo modo, la diversità e la sua celebrazione sono diventate complici dell’intolleranza.

La stretta relazione tra intolleranza e diversità è stata evidenziata da Christopher Lasch negli anni Novanta. “Nella pratica, la diversità finisce per legittimare un nuovo dogmatismo, in cui le minoranze rivali si rifugiano dietro un insieme di credenze impermeabile alla discussione razionale. Può altresì portare alla segregazione fisica della popolazione in enclavi chiuse e omogenee, che hanno il loro equivalente nella balcanizzazione dell’opinione”. L’impatto corrosivo delle politiche della diversità sulla solidarietà sociale non è l’unico problema associato al multiculturalismo. La sacralizzazione dell’identità ha minato anche la libertà di espressione. La promozione della diversità è a scapito dell’esercizio concreto della libertà. Numerose istituzioni hanno deciso che il valore della diversità non può essere discusso, un sentimento particolarmente diffuso nelle università. Molte di esse hanno stabilito che la rivendicazione diversitaria prevale sulla libertà di parola e sulla libertà accademica. Se qualcuno – individuo o gruppo – si oppone, deve essere legalmente messo a tacere. Si diffonde l’idea che la libertà e la diversità siano valori contrastanti. La libertà di espressione costituisce un rischio “ per il benessere di nuovi gruppi non tradizionali e minoritari” secondo il presidente della Wesleyan University americana. La convinzione che libertà di parola e diversità siano antagonisti è stata interiorizzata dall’élite culturale anglosassone e domina il comportamento. Si sostiene che la libertà debba essere “bilanciata” o “compensata” con la diversità. Per la California State University “il dibattito aperto e franco e la libertà di espressione collidono con il valore di una comunità diversificata e inclusiva”. Includere significa escludere: Orwell al potere. L’appello a “bilanciare la libertà di espressione e la diversità” porta alla conclusione che la prima ceda il passo alla seconda. Per il rettore dell’Università del Nebraska “le nostre convinzioni sulla diversità e sull’inclusione non sono negoziabili”.

La personalità autoritaria invertita è espressa nella carta dei valori di molte istituzioni cosiddette educative, che accolgono la diversità ma non la libertà di parola, assimilata alle “azioni di odio e mancanza di rispetto”, un’associazione di idee che fa rabbrividire. L’assolutizzazione del principio-diversità è l’agenda delle élite occidentali, sostenuta in quanto fornisce loro la possibilità di prevalere su interessi concorrenti. Nel momento in cui emerge una crisi di legittimità, la possibilità di gestire la diversità diventa un formidabile strumento di potere. È più facile dominare una società composta da gruppi isolati in competizione tra loro che una società che condivide una tavola di valori o un’omogeneità culturale, spirituale o etnica. Uno spazio pubblico frammentato e polarizzato aiuta il potere a riprodurre la propria egemonia. Per questo hanno separato diversità e differenza, stravolgendo la lezione del dissidente sovietico Vassili Grossman: le unioni degli uomini, le loro ragioni, sono determinate da un solo grande scopo: conquistare il diritto a essere diversi (Vita e destino).

3 Comments

  • Claudio Antonelli 20 Ottobre 2023

    Un mondo senza frontiere e senza radici
    La frenesia dell’omologazione globale di popoli e civiltà che anima i nostri buonisti, con l’abbattimento delle frontiere e con l’apertura al Diverso incarnazione del bene assoluto, è basata su un’idea falsa dell’essere umano considerato interscambiabile e inoltre malleabile e ristrutturabile in funzione di un mondo senza frontiere e senza radici.
    Nel 1971 Claude Lévi-Strauss, nel corso della conferenza intitolata “Razza e cultura”, tenuta all’UNESCO, osò dire che vi è differenza tra razzismo e xenofobia. Spiegherà in seguito così la sua presa di posizione, allora tanto criticata:
    “Reagii contro la tendenza che consiste nel banalizzare la nozione del razzismo – dottrina falsa ma precisa – e che consiste altresì nel denunciare come razzisti l’attaccamento a determinati valori e la non predilezione per altri valori (atteggiamenti scusabili o biasimevoli, ma profondamente radicati nella comunità umane).”
    Ciò che l’antropologo ci dice è che si dovrebbe tener conto dell’uomo qual esso è e non quale esso dovrebbe essere. Io aggiungerei che l’uomo può essere lentamente migliorato, ma non certo trasformato ossia “riplasmato”, “rivoluzionato” cambiandone i meccanismi psicologici fondamentali, quasi fosse un robot. I nostri rivoluzionari rossi vi hanno provato, andandoci giù pesante, ma con risultati all’incontrario. E oggi, per risanare, rieducare (democraticamente), far tornare alla normalità i popoli che hanno vissuto a lungo sotto un regime comunista occorrono un paio di generazioni. Il gran male che il comunismo arreca è di causare danni alla fibra morale della gente, che si abitua alla menzogna, al calcolo opportunistico, al rispetto timoroso della nomenklatura, e all’esistenza di due verità: quella ufficiale e quella ufficiosa.
    Secondo l’antropologo Lévi-Strauss “L’umanità ha saputo trovare la sua originalità solo in un certo equilibrio tra isolamento e comunicazione. Era necessario che le culture comunicassero, altrimenti si sarebbero sclerotizzate. Tuttavia, non dovevano comunicare troppo rapidamente per darsi il tempo di assimilare, di far proprio quello che attingevano all’esterno. La scommessa è che, secondo me, questo continuerà”. Egli previde che “man mano che vedremo l’umanità omogeneizzarsi, al suo interno si creeranno nuove differenze”. E indicò nella proliferazione delle sette in California e nella “crescente difficoltà di comunicazione tra le generazioni” i primi sintomi di questo fenomeno.
    Più la società si fa grossa – spiegò – e meno trasparente e permeabile diviene al suo interno. Io vedo questo nella proliferazione, in un Occidente omogeneizzato all’americana, del fenomeno del multiculturalismo e del “comunitarismo” che spezzetta la Nazione in clan, comunità etnoreligiose, centri di interesse, movimenti, sette, gruppi transnazionali… Oggi su tutte spicca la “comunità” LGBDQ+ di fronte alla quale inginocchiarsi è d’obbligo.
    Secondo Lévi Strauss, la lotta “contro ogni forma di discriminazione”, pur in apparenza lodevole, si inscrive nella stessa dinamica che “convoglia l’umanità verso una civiltà mondiale, distruttrice di quei vecchi particolarismi ai quali spetta l’onore di aver creato i valori estetici e spirituali che aggiungono valore alla vita, e che noi raccogliamo preziosamente nelle biblioteche e nei musei perché ci sentiamo di meno in meno capaci di produrli.”
    Disse inoltre che “L’etnologo esita a credere, benché vi si senta spinto da ogni dove, che la diffusione del sapere e lo sviluppo della comunicazione tra gli uomini riusciranno un giorno a farli vivere in buona armonia, nell’accettazione e nel rispetto della loro diversità”.

  • Claudio Antonelli 20 Ottobre 2023

    L’amore del diverso e gli inni nazionali

    Da tempo ormai, noi celebriamo cosmopolitismo, ecumenismo, mondialismo, multiculturalismo, amore del diverso, universalismo di valori e diritti. Proviamo inoltre disgusto per un passato occidentale colonialista, razzista e guerrafondaio. Chi è convinto che tutto ciò durerà dovrebbe proporre di abolire gli inni nazionali, perché questi si ispirano a sentimenti che il vocabolario “newspeak” d’oggi non può che qualificare “fascisti”. Tutti, dal primo all’ultimo, gli inni nazionali esaltano il sacro amore della Patria. Nel nostro “Fratelli d’Italia”, storico canto di rivolta contro lo straniero, i buonisti potrebbero addirittura vedere un’incitazione all’odio non solo contro lo straniero, ma contro la Caritas, contro le ONG che accolgono gli stranieri, contro lo stesso Papa… Quindi, per essere coerenti con i nuovi valori, dovremmo abolire gli attuali inni nazionali, e sostituirli con un unico inno; un inno multinazionale.
    Da un giornale: “Un parroco vicentino si rifiuta di recitare la preghiera degli alpini troppo guerrafondaia. La parte che avrebbe dato fastidio è questa: ‘Dio onnipotente … rendi forti le nostre armi contro chiunque minacci la nostra Patria, la nostra Bandiera, la nostra millenaria civiltà Cristiana.” Questo parroco dovrebbe denunciare anche il nostro altisonante inno nazionale il quale proclama il carattere sacro del suolo patrio. E lo fa con una pomposità eccessiva, evocando la vittoria, la morte, la gloria… Concetti del tutto oggi superati dalla necessità di abbattere i muri e di amare il Diverso, lo Straniero, immancabilmente disperato e che ha solo pregi. E dire che nel passato, le solenni, sofferte parole di “Fratelli d’Italia” furono prese sul serio sia da gente eccelsa sia da semplici cittadini, morti per l’unità d’Italia.
    Nel giudizio dello scrittore francese André Glucksmann che ha esaltato l’umanità degli italiani e “il disdegno italiano per le avventure guerresche” anche nel passato noi non siamo stati i più guerrafondai. Glucksman ha scritto: “Nelle grandi ore del Rinascimento le città della penisola, malgrado le continue battaglie, si accordavano per ridurre al minimo le perdite umane. Ci vollero le orde spietate calate dalla Francia e dalla Germania per spazzare via questo brillante abbozzo di una comunità europea dove l’arte di vivere prevaleva sull’arte della guerra, e i valori della civiltà sulle fantasticherie dell’aggressività militare” E ancora: “l’Italia ha insegnato all’Europa l’arte e la dolcezza di vivere insieme in una società ‘civile’, sfuggendo alla legge della sciabola e del ricatto terroristico”.
    Insomma, non siamo i peggiori, come invece si ostinano a ripetere, godendo, i tanti italiani affetti da un curioso fenomeno di autorazzismo, diffuso nella penisola ma assai raro tra gli altri popoli.
    Io credo che i disorientamenti del popolo italiano siano una conseguenza della “morte della Patria”, verificatasi con la catastrofe militare nell’ultimo conflitto mondiale. Cui sono da aggiungere i frenetici appelli dei mondialisti ad abbattere i muri, i lanci di fiori al Diverso (purché un diverso straniero) e il mantra “siamo tutti figli di Dio” e “siamo tutti migranti”. Slogan che sono la riformulazione democratica e progressista del “Chi se ne frega” di un tempo. Divenuto oggi, grazie all’ubriacatura mondialista e ai nuovi valori, “Chi se ne frega della Patria!”, “Chi se ne frega dei fratelli d’Italia!”, “Viva gli altri!”

  • Claudio Antonelli 20 Ottobre 2023

    L’AMORE TEORICO DEGLI ITALIANI PER IL DIVERSO

    Confesso di essere molto scettico verso chi promuove la bontà assoluta planetaria e incita il popolo della penisola a non fare distinzioni tra noi e gli altri, perché – ci ammoniscono i buonisti, stuoli in Italia – siamo tutti essere umani e tutti gli esseri umani meritano amore. Secondo me, invece, ciò che tutti gli esseri umani meritano non è un amore incondizionato, puro flatus vocis, ma il rispetto della loro dignità di esseri umani. Il che implica obblighi anche da parte loro e non solo doveri da parte nostra.
    Io crederò alla sincerità dei missionari di questa bontà universale (che quando verrà attuata provocherà la fine del genere umano, perché senza un sacro egoismo l’uomo non potrà sopravvivere) quando vi saranno mamme che diranno: “Io amo i miei figli, ma amo con la stessa intensità tutti i bambini del mondo”. O quando gli italiani affiliati a un partito diranno prima delle elezioni: “Sarò contento se vincerà il mio partito, ma altrettanto contento se vincerà il partito avversario”. E crederò a questo amore universale quando negli stadi i tifosi applaudiranno tutti i gol, quelli fatti ma anche quelli subiti dalla loro squadra. Già vedo gli italiani, tutti tifosi per la pelle, impallidire.
    Scherzi a parte, gli italiani sono uno dei rarissimi popoli al mondo e forse l’unico in cui un normale sano amor patrio è denunciato come un attentato agli insegnamenti del Vangelo, e una riproposizione dei campi d’internamento o addirittura di sterminio per i nemici. E dire che l’Italia è tutto un rigoglio di campanilismi, di partigianerie, di faziosità, ma dove molti intellettuali, guida del Paese, moralizzano à gogo incitando le masse all’amore per il Diverso e lanciano lo slogan lasciapassare d’italianità: “Io non mi sento italiano”. Questo diverso su cui noi dovremmo sbavare il nostro amore, deve essere un essere straniero, e mai un diverso nostrano. Forse è il fatto che siamo stati dominati per secoli dallo straniero ad averci instillato questa passione per il mitico straniero, concentrato di virtù.
    L’italiano dimentica questo amore universale, tanto propagandato dalla sua élite progressista, quando entra in ballo il suo utile particolare. Un esempio banale: si rimpinza a crepapelle quando il cibo è gratuito, e lo fa anche per il gusto di vuotarne i contenitori e impedire così agli altri di fare lo stesso. In treno, mostra il classico stupido egoismo d’individuo assai poco mondialista, ponendo automaticamente il cappotto o la borsa sul sedile affianco affinché nessuno vi si sieda. E tende ad abusare della sua posizione di potere, piccolo o grande ch’esso sia, a spese di chi è costretto a rivolgersi a lui.
    L’italiano medio non dimostra quasi mai vera apertura di spirito verso chi non conosce. Il suo sentimento è spesso di diffidenza e anche di animosità e astio nei confronti degli sconosciuti. Un esempio? Il comportamento del guidatore medio nei confronti degli altri automobilisti. La Tv poi rigurgita di interminabili dibattiti all’italiana da cui sprizzano intolleranza e protagonismo, ognuno volendo a tutti i costi aver ragione.
    Il vicino di casa, il concittadino, il parente verso il quale si ha un dente avvelenato, sono sì l’altro, il diverso, ma sono troppo diversi da noi perché si possa non dico amarli ma almeno accettarli. Progressisti e mondialisti, gli italiani preferiscono il mitico diverso straniero da amare comodamente e incondizionatamente; in teoria, sulla carta, nei discorsi, nelle chiacchiere, da lontano, ma con grande passione nel corso delle astiose polemiche condotte contro gli odiati sovranisti-populisti nostrani.

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