11 Maggio 2024
Politica

In tempo di guerra – Fabio Calabrese

In tempo di guerra non si butta via niente, dice un detto popolare. Bene, noi oggi siamo in tempo di guerra, guerra politica, culturale e ideologica contro un sistema che vuole a tutti i costi imporci una certa visione del mondo sedicente democratica, e il cui fine ultimo è in realtà la sparizione dei popoli europei dalla faccia della storia e dall’esistenza, per sostituirli con turbe meticce di immigrati allogeni, e tutto quanto viene inventato a livello “culturale” e “scientifico” e costituisce “l’ortodossia” del sistema stesso, non è altro che fumo negli occhi, cloroformio, pretesti per indorarci la pillola e farci digerire la nostra programmata scomparsa dall’esistenza senza ribellarci.

In questa lotta, fino all’ultima munizione è preziosa. Parliamo per il momento di munizioni ideologiche, nella speranza che ad esse seguano presto quelle concrete e tangibili.

Recentemente, alcuni amici intenzionati a dare vita a un nuovo sito “di Area” hanno avuto la bontà di intervistarmi con una serie di domande intelligenti e complesse, alle quali ho dovuto dare una serie di risposte piuttosto ampie. In gran parte, si tratta di questioni che ho già affrontato su “Ereticamente”, e riguardo alle quali mi sembra inutile ripetermi, tuttavia costoro sono anche riusciti a stimolare la mia riflessione su alcune tematiche che finora non avevo affrontato su “Ereticamente” e, in attesa che l’intervista segua la sua strada, mi pare utile riportarle qui, nell’intento di non sprecare nessuna munizione ideologica.

Un problema per sua natura attinente alla filosofia e all’epistemologia, che ha però inattese ricadute sulla politica, perché porta a porre direttamente la questione della libertà umana, è il problema del determinismo. In poche parole, il determinismo è la concezione secondo la quale il mondo e tutto ciò che vi succede è un’immensa catena di cause ed effetti.

Quale è il problema di fondo di questa concezione? L’aveva già indicato nel XVII secolo Spinoza: che poiché anche la volontà umana è la conseguenza di cause antecedenti, l’uomo non è mai libero anche quando essa non sia impedita da costrizioni esteriori.

In opposizione al determinismo si sono sviluppate le teorie indeterministiche, preoccupate soprattutto di salvare uno spazio alla libertà umana contro l’affermazione di Spinoza. Prima dello sviluppo della teoria del caos, il cavallo di battaglia dell’indeterminismo era rappresentato dal principio di indeterminazione di Heisenberg, che dice che noi possiamo misurare la posizione o la velocità di una particella elementare ma non entrambe. Al che – non al principio di Heisenberg ma alla sua generalizzazione filosofica – si più obiettare prima di tutto che lo stesso principio si rivolge a un ordine di fatti subatomici lontano dall’esperienza quotidiana e dal nostro agire concreto, e in secondo luogo, che è perlomeno strano far derivare la nostra libertà da una nostra limitazione, da qualcosa che non possiamo, e non che possiamo fare.

La teoria del caos ci dimostra che esistono eventi non prevedibili in base alle loro condizioni iniziali, ma altri lo sono a tutti gli effetti: se si preme il grilletto di una pistola carica (e ben oliata in modo da prevenire inceppamenti) alla tempia di qualcuno, il risultato sarà un omicidio. Le direzioni dei casinò che lavorano con la probabilità sanno quanto è difficile ottenere una perfetta casualità, cioè un’indeterminazione, e sostituiscono regolarmente le roulette e i croupier ai tavoli, perché la singola roulette e la singola mano del croupier può favorire la probabilità di uscita di certi numeri rispetto ad altri.

Anche la cosiddetta determinazione statistica non è un tipo di determinismo diverso. La statistica è semplicemente un modo di trattare un numero di enti troppo alto per essere trattato in altro modo. Noi possiamo dire che una certa marca di detersivi incontra il gradimento del 72% delle casalinghe, e un’altra il 28%, ma quando una singola acquirente mette un fustino di detersivo nel carrello della spesa, sarà rigorosamente dell’una o dell’altra marca.

Concretamente, io credo si possa dire che riguardo a questo problema, esistono quattro posizioni possibili: indeterminismo, determinismo rigido (ottocentesco, positivista), determinismo flessibile (che tiene conto dei limiti imposti dalla teoria del caos, del principio di indeterminazione a livello subatomico, della determinazione statistica, e soprattutto crede nella libertà perché la volontà umana è anch’essa una causa produttrice di eventi), fatalismo.

Apparentemente, determinismo rigido e fatalismo sono simili, perché entrambi considerano il destino prefissato. In realtà sono molto diversi. Il determinismo vede nelle conseguenze future la realizzazione di certe condizioni antecedenti, il fatalismo ritiene che un determinato evento futuro si realizzerà a partire da qualsiasi condizione iniziale, e qualunque cosa si faccia: l’esempio più chiaro è forse quello dell’antica tragedia greca: Edipo è destinato a uccidere il padre e sposare la madre, e questo accadrà qualunque siano gli espedienti che si mettano in atto per evitarlo! Il fatalismo, che giustifica le profezie, è tipico di un pensiero a indirizzo religioso.

La mia scelta personale è a favore di quello che io chiamo un determinismo flessibile, e faccio notare che la libertà umana può esistere solo in un universo deterministico; noi non saremmo liberi in alcun modo se alle cause, tra cui la nostra volontà, non seguissero gli effetti.

Tutto questo ha attinenza con la politica concreta? Secondo me si, più di quanto possa apparire a prima vista. Marx aderiva a un determinismo positivistico rigido di tipo ottocentesco, del tipo precisamente che l’attuale evoluzione dell’epistemologia ci mostra come anacronistico, e questo ha importanti riflessi su tutto il suo pensiero, a cominciare dal fatto che ritenesse la rivoluzione proletaria mondiale inevitabile, e stranamente dimenticava la lezione di Hegel secondo cui “La storia cammina sulle gambe degli uomini”.

Quello che conta di più, però, è che questo determinismo anacronistico si prolunga nella concezione anche attuale della sinistra; si veda la pretesa di giustificare i crimini del comunismo (che sono stati e sono tuttora – si pensi ai laogai cinesi – su scala ben maggiore di quelli attribuiti ai fascismi) con la pretesa che essi vadano “nel senso della storia”, e che esista un senso univoco e inevitabile verso cui si dirigono gli avvenimenti storici. Negli anni della Guerra Fredda era diffusa come un incubo anche nel mondo non comunista la cosiddetta “teoria del domino”, altra filiazione di questo determinismo, secondo la quale una volta che il comunismo si fosse affermato in un qualsiasi Paese al mondo, esso sarebbe stato irreversibile e che, una nazione in fila dopo l’altra come le tessere di un domino, l’intero pianeta sarebbe diventato “rosso” prima o poi.

Tutto ciò era falso, e lo si è visto a partire dal 1989-91, ma sempre questo determinismo ottocentesco è alla base dell’atteggiamento della “nostra” magistratura per la quale i condizionamenti ambientali e “la società” sono responsabili dei crimini che i delinquenti commettono, come se non esistessero la responsabilità personale e la capacità di distinguere fra il bene e il male.

In un certo senso, potremmo addirittura dire che il marxismo E’ il prolungamento nella storia e nella cultura contemporanea di questo determinismo anacronistico. Si vedano tutta una serie di incongruenze che sembrerebbero delle ingenuità, come l’incapacità di spiegarsi il fenomeno fascista fra le due guerre. Che milioni di uomini di estrazione proletaria si opponessero loro in contrasto con quella che sarebbe dovuta essere la loro collocazione di classe, era per loro qualcosa di inspiegabile.

Il fascismo è per i marxisti l’equivalente del misterium iniquitatis nel pensiero cristiano (cioè l’impossibilità di spiegare l’esistenza del male in un mondo che si suppone l’opera di un Dio buono, sapientissimo e onnipotente). Trasponendo in maniera rigida le loro attese di scelta politica dalla collocazione di classe di quelle persone, dimenticando per così dire, che ogni uomo ha sempre la facoltà di scegliere, non riuscivano a capire che per milioni di uomini di cultura non necessariamente superiore alla loro, era evidente ciò che essi cercavano di nascondere prima di tutto a se stessi, cioè che il “paradiso socialista” realizzato in Unione Sovietica e che “i compagni” volevano estendere al mondo intero, era di fatto la più spaventosa delle tirannidi.

I “compagni” amano definirsi progressisti e si illudono di rappresentare il futuro, ma la loro visione del mondo appartiene per intero all’epoca della macchina a vapore e dei lumi a petrolio.

Un’altra domanda dell’intervista che mi ha indotto a una riflessione su una tematica che finora non ho trattato su “Ereticamente”, riguardava l’ecologia, un tema di cui negli ultimi decenni sembra che i “rossi” riverniciati per l’occasione in “verdi”, si siano impadroniti in esclusiva. In particolare, l’intervistatore mi faceva notare il fatto che nel loro ecologismo i “compagni” ignorino (deliberatamente?) il rapporto fra ecologia e demografia, ignorando l’impatto anche ecologico delle brulicanti masse umane del Terzo Mondo, che oggi debordano come una valanga umana anche da noi, e mi citava gli studi di E. O. Wilson, padre della sociobiologia e Jared Diamond, l’autore del saggio Armi, acciaio e malattie.

Io penso si possa dire che l’impadronirsi da parte della sinistra della tematica ecologica avvenuto negli anni ’80 sia un vero e proprio abuso. Nel 1970 il Club di Roma pubblicò un famoso rapporto che si intitolava appunto I limiti dello sviluppo, che fu attaccato e dileggiato con estrema violenza dalla sinistra nostrana, perché in poche parole svelava il carattere utopico della mitologia progressista in base a una semplice constatazione: in un sistema chiuso e limitato come è in ultima analisi il nostro pianeta, uno sviluppo illimitato non è possibile, prima o poi si deve scontrare con la penuria di risorse e gli effetti devastanti degli scarti prodotti, cioè l’inquinamento dell’ambiente. In quella circostanza, le reazioni isteriche e irrazionali della sinistra nostrana dimostrarono che essa era un pessimo candidato alla guida di questo sfortunato Paese, come difatti tutto quanto è avvenuto dopo il 1991 ha permesso puntualmente di verificare.

L’adozione o possiamo dire l’accaparramento da parte della sinistra dei temi ecologisti, risale agli anni ’80, e lo possiamo considerare uno dei suoi tanti camaleontismi; fino ad allora, si collegavano a tutto un altro ordine di idee. La preoccupazione per l’ambiente fino ad allora era qualcosa che si collegava piuttosto al mondo nordico che a quello mediterraneo, a movimenti ritenuti pre o para-nazionalsocialisti come quello dei Wandervogel; nella preoccupazione per i danni che l’industrializzazione poteva arrecare all’ambiente, si vedeva lo stigma di una mentalità conservatrice, oscurantista.

Si può dubitare che l’ecologia per la sinistra sia rimasta poco più di un mero tema propagandistico, e che di base vi sia sempre la mentalità che identifica l’industrializzazione, la cementificazione, la devastazione dell’ambiente con “il progresso”, a parte qualche spiacevole effetto collaterale, “di più e più grande” come mezzo per risolvere qualsiasi problema, quella che è stata chiamata “la filosofia della cellula tumorale”.

 L’atteggiamento di incurante sufficienza dimostrato dal leader di SEL e – disgraziatamente – presidente della regione Puglia nella vicenda dell’Ilva di Taranto, è una riprova in questo senso, ma lo è stata anche la pagliacciata del referendum sul nucleare, la cui conclusione era scontata sull’onda emotiva conseguente all’incidente di Chernobyl, ma le poche teste ragionanti si rendevano conto benissimo che i suoi esiti non avrebbero diminuito ma aumentato i rischi connessi con il nucleare, come infatti è successo, costringendoci a importare energia prodotta sui nostri confini in centrali nucleari i cui standard di sicurezza non sono decisi da noi.

Nei riguardi del movimento “verde” che da noi ha avuto comunque un successo transitorio, io usavo definirlo “movimento anguria”, cioè verde di fuori e rosso di dentro.

In più, è una constatazione fondamentale che i problemi ecologici non possono essere disgiunti da quelli demografici, e qui l’ecologismo di sinistra mostra miseramente la corda. È un fatto che anche una società a bassa tecnologia può avere effetti devastanti per l’ambiente in presenza di una massa umana e di una pressione antropica esuberante, e questo è certamente il caso del Terzo Mondo che la sinistra vorrebbe assolvere da ogni responsabilità.

Si può fare l’esempio della deforestazione. E’ vero che il nostro pianeta perde ogni anno un’estensione di superficie boschiva pari a quella dell’Italia, con la conseguente perdita degli habitat per molte specie, e della diversità biologica, ma questo non avviene in Europa, dove la situazione è stabile, e in alcune aree come la Scandinavia, grazie a un accorto utilizzo la superficie boschiva è aumentata nell’ultimo ventennio, ma nel Terzo Mondo: Africa centrale, Brasile, Malesia/Indonesia dove le classi dirigenti locali conducono sotto questo riguardo una politica scriteriata.

Certamente, i problemi dell’esaurimento delle risorse e della devastazione dell’ambiente, sono problemi che impongono di pensare al nostro pianeta come a un sistema globale, unico, la sola casa che l’umanità abbia, ma qui occorre fare un ragionamento su due piani.

Per essere chiari, il nostro pianeta e tutti gli habitat naturali rischiano di essere travolti da una valanga antropica arrivata ormai a sette miliardi di persone, tuttavia è chiaro che una politica di più rigoroso controllo demografico in Europa non servirebbe a nulla, l’uomo europeo è in una situazione di crescita zero o flessione demografica e rischia di sparire sotto l’incalzare delle masse brulicanti del Terzo Mondo. Noi dobbiamo avere l’occhio alla situazione globale E a quella del nostro continente. È inaccettabile che siamo sempre noi Europei a rimetterci.

Non da adesso, ma da molti decenni or sono, si sarebbero dovuti barattare gli aiuti al Terzo Mondo con l’impegno a una politica di rigoroso controllo demografico della popolazione di quei Paesi, anche perché altrimenti continua a scattare il meccanismo malthusiano che li rende del tutto inutili, per cui ogni alleviamento temporaneo della precaria condizione alimentare di quelle popolazioni si converte in un ulteriore aumento demografico.

Cosa impedisce di rendersi conto di quella che dovrebbe essere un’ovvietà se intendiamo persistere nell’esistenza? Il male europeo l’aveva ben sintetizzato Luigi Leonini in una frase che ho riportato in uno dei miei articoli e che vi cito di nuovo:

“Un razzismo inespresso la cui base non è la difesa del corpo fisico di una stirpe, ma quella intellettuale di una civilizzazione esteriore in cui gli occidentali hanno fatto risiedere il significato della loro esistenza”.

Un razzismo contro noi stessi, un masochismo etnico, l’ignorare che ciò che noi siamo è soprattutto la nostra continuità etnica attraverso le generazioni, la nostra identità genetica E NON “la base intellettuale di una civilizzazione esteriore”, la perdita della consapevolezza che un nero cresciuto da noi sarà sempre un nero e non un “nuovo italiano” dalla pelle più scura, che il suo genoma rimane inevitabilmente altro. Questa svalutazione del “corpo fisico” non è che un cascame del cristianesimo e del suo presunto spiritualismo, che informa di sé anche tutto il modo di (non) vedere della sinistra. La tabe di base della cultura europea rimane il cristianesimo, quel “giudaismo culturale” che un grande uomo voleva dedicarsi a sradicare se il fato gli avesse concesso di vincere la lotta contro il bolscevismo, e il pietismo lacrimoso cattolico può solo aggiungere danno al danno.

Nel contesto di una lettura della storia che tenga adeguatamente conto sia della dimensione ecologica che di quella demografica, torna prezioso il contributo di due studiosi come Edward O. Wilson e Jared Diamond. Io non posso dire di conoscere a fondo il pensiero di E. O. Wilson, ma da quello che posso arguire, i fondamenti della sociobiologia non differiscono sostanzialmente da quelli dell’etologia, ed è verissimo che l’essere umano è guidato nei rapporti sociali da istinti che affondano le loro radici nel passato ancestrale, nella storia biologica della nostra specie; quanto basta perché questo tipo di ricerche sia inviso a tutti i farneticatori di utopie. Personalmente, ho trovato le tesi esposte da Jared Diamond in Armi, acciaio e malattie di grande interesse, ma al riguardo mi sentirei di esprimere qualche riserva.

Sostanzialmente, mi pare abbia esteso alla preistoria e a gran parte della storia umana il modello rappresentato dalla conquista del West americano, cioè il conflitto fra agricoltori-allevatori e cacciatori-raccoglitori nomadi. Ora, ad esempio, gli interessi di agricoltori e allevatori raramente coincidono o le due attività sono rappresentate dagli stessi tipi umani e comunità. Anche il West ha conosciuto “la guerra tra il marchio e il recinto”, che però resta marginale. Nella preistoria del continente europeo, essa però ha avuto ben altra rilevanza, con lo scontro fra agricoltori neolitici e allevatori-cavalieri nomadi provenienti dalle steppe. E’ probabile che solo l’assoggettamento da parte di élite di origine nomadica (indoeuropea) abbia unito le comunità di villaggio neolitiche trasformandole in stati ed imperi, salvo l’instabilità creata dalle invasioni stesse che, come sappiamo, si è prolungata per tutto l’alto medioevo. Aggiungo un’osservazione molto interessante di N. C. Doyto. La supposta evoluzione in tre stadi cara all’antropologia e agli studi di preistoria “ufficiali” cacciatori-raccoglitori, poi allevatori e quindi agricoltori sedentari, potrebbe essere errata. L’allevamento, soprattutto del cavallo, potrebbe essere posteriore all’introduzione dell’agricoltura, e aver determinato il ritorno delle comunità di cavalieri allo stato nomade, o averlo favorito assieme ad altri fattori (inaridimento dei suoli, pressioni di popolazioni vicine, eccedenza demografica). Proprio la conquista del West offre un esempio in tal senso; i pionieri, che possiamo assimilare a cavalieri-allevatori nomadi, erano discendenti di popolazioni stanziali europee prevalentemente agricole.

Ci sarebbe molto da dire anche sulla diffusione delle malattie. Le epidemie si scatenano sempre con il mescolamento di popolazioni, perché l’una di esse non ha gli anticorpi per le malattie endemiche dell’altra. Noi sappiamo che in quella che è oggi l’America latina la conquista spagnola e le epidemie provocarono un brusco crollo demografico, che però non ha portato all’estinzione di quelle popolazioni, come invece è successo per i nativi degli attuali Stati Uniti. Nel primo caso, le epidemie furono un malaugurato fenomeno naturale, nel secondo, esse furono scientemente diffuse come arma batteriologica contro la popolazione amerindia.

Noi sappiamo che, con assoluta malafede (del tipo il bue che dà del cornuto all’asino) la pubblicistica protestante poi ripresa pedissequamente dalla “storiografia” democratica, ha insistito sugli orrori perpetrati dalla conquista spagnola contro le popolazioni amerindie. Il fatto è che queste popolazioni esistono ancora, e gli abitanti del continente dal Messico alla Terra del Fuoco discendono in varia misura dai nativi, dai conquistatori iberici, da arrivi successivi (compresi gli schiavi neri importati), ma in molte aree l’elemento indio è ancora nettamente dominante. Viceversa, nel territorio degli attuali Stati Uniti i nativi americani sono stati completamente spazzati via.

Gli Stati Uniti rappresentano un “unicum”, un’anomalia nella storia umana, una pseudo-nazione costruita con gli scarti dell’Europa, e oggi dell’universo mondo, annientando la popolazione nativa, e vediamo bene come multietnicità e violenza di una società dove manca del tutto la solidarietà naturale fra persone biologicamente affini, si abbinino strettamente, e questo proietta ombre estremamente inquietanti sul futuro che oggi ci vogliono imporre.

Io direi che l’impostazione di Jared Diamond sia complessivamente giusta, e con ogni probabilità, nel ricostruire la nostra storia, dobbiamo porre maggiore attenzione agli aspetti ecologici e demografici, ma abbia bisogno di essere riveduta nei dettagli.

In generale, penso si possa dire che tutto lo studio del nostro divenire storico andrebbe rivisto alla luce delle tre dimensioni etologica, ecologica e demografica, ma è molto improbabile che gli storici convenzionali che ben conosciamo si spingano in queste prospettive, che non possono fare altro che svelare tutta l’illusorietà delle costruzioni ideologiche democratiche, cristiane e marxiste.

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