13 Maggio 2024
Attualità

Il debito pubblico della Grecia e quello dell’Italia (Renzi permettendo)

Ultime notizie dal pianeta Grecia: dopo la figuraccia di Tsipras, l’Unione Europea è pronta a concedere il prestito-capestro, ma un altro membro della Troika – il Fondo Monetario Internazionale – improvvisamente “si accorge” che il debito pubblico greco è troppo alto, al punto da essere considerato insostenibile, cioè di fatto inestinguibile. E, poiché lo statuto del FMI vieta che si possano concedere prestiti senza la garanzia di un ripianamento, la diafana presidentessa del Fondo, Christine Lagarde, ha invitato i Paesi europei ad attuare una ristrutturazione del debito vantato verso la Grecia: concedendo un forte sconto, ovvero – cosa più probabile – dilazionandone la restituzione in un arco di almeno trent’anni. E siccome il Fondo Monetario sarà anche “internazionale”, ma è di fatto una creatura americana, ecco che gli europei sono scattati sull’attenti.

Per buona misura, il Segretario al Tesoro USA, Jacob Lew, ha fatto una passeggiata in Europa, illustrando il punto di vista americano a chi di dovere: ha incontrato i Ministri delle Finanze dei Paesi che contano (Italia esclusa, naturalmente, malgrado i gridolini di Renzi) e qualche altro personaggio-chiave, come il Governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi. Dopo l’incontro con mister Jacob, Draghi è apparso conquistato dalla tesi della ristrutturazione del debito greco; anche perché si è scoperto – ma guarda un po’! – che pure lo statuto della BCE (banca “centrale”, cioè privata) vieta l’erogazione di crediti destinati a diventare inesigibili.

Perché tutto questo lavorìo? Certamente per la paura americana di vedere la Grecia rifugiarsi nelle braccia di Mosca. Ma anche, più prosaicamente, per un banale calcolo matematico, le cui conseguenze politiche sono ben chiare agli strateghi di Washington. Infatti, attuando norme e scadenze dell’accordo-diktat, fra uno o due anni Atene si troverebbe allo stesso punto di oggi. La qualcosa comporterebbe non soltanto una crescita inarrestabile di Alba Dorata in Grecia, ma anche una vittoria più che probabile delle forze antieuropee nelle due consultazioni-chiave del 2017: il referendum per l’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea e le elezioni presidenziali in Francia; per tacere delle elezioni generali in Italia che – tranne imprevisti sempre possibili – dovrebbero tenersi nel 2018.

Ecco, dunque, tornare prepotentemente in primo piano l’elemento centrale della crisi finanziaria europea e mondiale; un elemento che appare in tutta la sua drammaticità in Grecia e nei Paesi dell’Europa mediterranea, ma che è fortemente presente anche in economie che a prima vista appaiono prospere. Se, infatti, nel 2012 (ultimo dato omogeneo reperito in rete) la Grecia presentava un debito pubblico di circa il 170% del suo PIL e l’Italia di circa il 127%, il debito pubblico americano era pari al 107% e quello della Germania “solo” all’83%; il ricco Giappone, addirittura, superava il 200% del suo PIL.

Come mai? Semplice: perché gli Stati hanno rinunziato al diritto-dovere di battere moneta, delegandolo a banche “centrali” private. Ergo, per far fronte alle spese istituzionali (stipendi, pensioni, pubblica sicurezza, trasporti, sanità, scuola, eccetera) gli Stati possono soltanto drenare il denaro dei loro cittadini – attraverso la fiscalità – e, una volta raggiunto il limite di tollerabilità, devono necessariamente farsi prestare i soldi dalle rispettive banche centrali e/o da altri soggetti finanziari (i cosiddetti “mercati”). Ciò comporta che, oggi, gli Stati non siano più “sovrani” ma, al contrario, sottoposti ai voleri di quella finanza speculativa che, attraverso meccanismi ad usum delphini (rating, spread, e simili porcherie) ne condiziona le scelte: dalle “riforme” in politica interna, fino alle grandi scelte di politica estera che possono configurare anche scenari di guerra.

Peraltro, quella del debito pubblico è una strada senza uscita, soprattutto per gli Stati maggiormente indebitati. Quando il debito di un Paese supera il 100% del suo PIL (cioè del guadagno annuo della sua economia reale), tale debito praticamente non è più estinguibile, ma solamente “stabilizzabile”. In altre parole, uno Stato virtuoso (si fa per dire) e con una economia in crescita può arrivare tutt’al più a pagare gli interessi, ma certamente non ad estinguere il debito; con il risultato di restare praticamente all’infinito alla mercè degli usurai, fino a quando costoro non dovessero ritenere più producente acquisire direttamente i cespiti economici delle Nazioni debitrici. È quello che sta avvenendo in Grecia, con la costituzione di un “fondo di garanzia” ove confluiranno il Partenone, il Pireo, le isole dell’Egeo e tutto quanto suscettibile di creare ricchezza reale.

In Italia non siamo ancora a questo punto, ma soltanto perché “i mercati” hanno ritenuto che il nostro debito pubblico possa ancora crescere un po’, prima di passare all’incasso. D’altro canto – come ho già scritto in altre occasioni – il nostro debito pubblico continua a crescere anno per anno, mese per mese. Al punto che, sfidando il ridicolo, i nostri organi di stampa annunziano ogni mese un nuovo “record”, fingendo di credere che il mese successivo possa esserci una diminuzione. Siamo passati dal 127% del PIL del 2012 al 134% del 2013-2014, per raggiungere probabilmente – secondo le previsioni di Mediobanca – il 145% nell’anno in corso. In cifra assoluta, siamo passati da 1.988 miliardi (dicembre 2012) a 2.067 miliardi (dicembre 2013) a 2.135 miliardi (dicembre 2014), fino ai 2.218 miliardi del maggio 2015.

Dopo di che, il Piccolo Imbonitore Fiorentino se ne esce con l’ultima boutade: toglierà 50 miliardi di tasse entro il 2018, e questo – udite, udite – senza far lievitare il debito pubblico. Certo, regalando altri 80 euro e togliendone altri 180 per vie diverse, potrà anche riuscire a far quadrare le previsioni. Ma trucchetti contabili del genere – accetto scommesse – non potranno in ogni caso impedire la crescita del nostro debito pubblico.

Vorrei sbagliarmi, ma, probabilmente, ci troviamo di fronte all’ennesima invenzione di quello che, in gioventù, i compagni di scuola chiamavano “il Bomba”, per la nota abitudine di spararle grosse, ma proprio grosse.

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