13 Maggio 2024
Filosofia

Il danno della “libertà di espressione” – Emanuele Franz

In tempi ormai lontani l’esprimere il proprio pensiero, la propria idea, il proprio valore, le proprie emozioni, ovvero l’ex-primĕre, il mandare fuori ciò che è dentro, la propria interiorità, era tutt’altro che un diritto di tutti. Nelle società iniziatiche antiche, come ad esempio nei misteri di Eleusi, l’adepto che voleva penetrare i Misteri doveva praticare un periodo di profondo silenzio prima di potersi pronunciare, e così anche nei Misteri Egizi. Tanto che l’esperienza mistica vissuta in questo silenzio era necessaria ad acquisire il primo grado di iniziazione, il praticante diventava quindi un μύστης (Mystes) che, etimologicamente significa appunto : “colui che è legato al silenzio”. Il profondo stato di incomunicabilità delle Verità superiori dell’Essere era colto da un profondo stato di silenzio interiore in cui, prima di acquisire il diritto di esprimersi, si scendeva nel profondi di sé stessi e in questa macerazione psichica si comprendeva cosa era importante dire e cosa non era importante dire. La chiacchiera, la futilità, la banalità, l’eufemismo, venivano spazzati via dopo una pratica del genere, per lasciar posto solamente all’essenziale, crocevia di uno stato più alto di consapevolezza.

 

Come nel processo della decantazione tramite il riposo, il buio e la quiete si separa la materia più pesante e scura da quella più leggera e tersa, così nella psiche occorre un periodo nel buio profondo, per sentire il “pesante” che sprofonda sempre più giù.  Se il pensiero viene esternato ogni qualvolta ne ha la possibilità esso si vanifica in un flusso perpetuo senza avere la possibilità di accrescersi, di estendersi, di innalzarsi. Non comunicarlo invece, ma farlo macerare nel buio di noi stessi, consente la sua elaborazione. Il pensiero è come il carbone: ha bisogno di tempo per divenire diamante; e affinché avvenga ciò deve rimanere all’oscuro a lungo prima di vedere la luce. Far uscire un pensiero prima del tempo significa ucciderlo, tenerlo dentro significa mantenerlo in vita, ovvero sia farlo chimicamente fermentare fino al suo massimo grado. Un seme nell’oscuro della terra portato in superficie prematuramente muore bruciato e non fiorirà mai, proprio perché necessita del silenzio e dell’oscurità per maturare. Ebbene la cosiddetta “libertà di espressione” è proprio questo portare in superficie prematuramente il contenuto perfetto del Simbolo, tolto dalla protezione del silenzio, e infettato dagli sguardi indiscreti del conscio. Strappereste un feto dal grembo

materno prima dei nove mesi di gravidanza? Ebbene, portare alla superficie ciò che celano gli abissi è uccidere un feto. Solo attraverso la negazione di questa libertà di espressione è possibile trovare nel pensiero un’idea più leggera, più universale e volatile, essenziale e mondata dalla pesantezza della chiacchiera.

 

Oggi viviamo in un mondo oberato di strumenti che hanno dato voce a chiunque, a ogni idiozia, a ogni vaniloquio, a ogni velleità. Chiunque attraverso blog e social network può scaricare verso gli altri le proprie frustrazioni, disillusioni, angosce, speranze e pensieri, ignaro che così facendo sta limando via quel poco che rimaneva della sua lucidità. Il dominio della mediocrità e il regno dell’idiozia è quello che ha comportato la libertà di espressione: il livellamento totale e universale di ogni individuo con ogni altro. Viceversa il diritto ad esprimersi non dovrebbe essere né universale né eguale per tutti, ma dovrebbe essere conferito solo a chi dopo un “digiuno” dall’infezione della chiacchiera, si fosse elevato in sé stesso, attraverso una selezione. Fino a qualche decennio fa se un autore scriveva un opera, vuoi un saggio, un libro, un articolo, prima di portarlo alla “luce” doveva presentarsi a degli editori, a delle persone già affermate culturalmente per poter avere un “lasciapassare” alla sua pubblicazione. E ovviamente non mancavano dei rifiuti. Anzi, vi sono capolavori della letteratura che hanno avuto anche 121 rifiuti editoriali prima di imporsi. Questo significa che l’autore non convinto di sé stesso, non sufficientemente alimentato da Volontà e determinazione, sarebbe risultato perdente in questo processo di selezione delle Idee che lascia sconfitte quelle Idee che non perseverano nel silenzio, con tenacia e fiducia incrollabile. Un altro dopo qualche rifiuto si sarebbe rassegnato. Oggi invece ha voce e spazio, con quattro soldi uno si stampa delle brochure, si crea un sito e chiunque diventa opinionista, creando un abisso mostruoso dove seppellire l’intelligenza e la profondità d’animo.

 

La malattia di questa società imperiata da quella che viene chiamata “chiacchiera dotta”, dove ognuno è dottore, saggio, profeta e maestro, dove l’idiota ha voce su questioni che riguardano la massima importanza per tutti gli uomini. Questo morbo dell’intelligenza è frutto di questo diritto, e di questa libertà. Ma la libertà è lo strumento più potente per creare la schiavitù. La libertà di essere in catene è quanto meno un paradosso e ci è stata inculcata, ovviamente dai padroni, l’idea che essere liberi e di eguali diritti sia un bene universale, mentre il Bene è la differenza di Valore, e l’accrescimento di questo Valore dell’Animo e dell’Intelletto non può che avvenire attraverso la rinuncia volontaria di questo diritto di espressione.

 

Chi ha conosciuto il miele può parlare delle api, chi ha conosciuto il vino può parlare della vite, chi ha sentito il gelo del ghiaccio dentro di sé e la severità del vento del nord ha il diritto di parlare delle alte cime delle montagne. Ma chi non ha sperimentato dentro sé stesso il silenzio, come potrebbe avere cognizione di quello che dice? La parola, che è sacra, andrebbe esternata solo laddove si accompagna alla vita vissuta, alla carne e al sangue, e la vita, come sappiamo, nasce dopo nove mesi di buio e di silenzio.

 

Emanuele Franz

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