10 Aprile 2024
Religione

Il culto del Sacro Cuore: tradizione e universalità di un simbolo (Parte I) – Walter Venchiarutti

Incomprensioni e malintesi

Per un certo numero elevato di cattolici, la pietà verso il Cuore Divino è ritenuta una concezione tarda, nata nel secolo XVIII dalla spiritualità sentimentale diffusa dai gesuiti e dagli altri predicatori” (L. Charbonneau Lassay, Simboli del Cuore di Cristo, 2003).

Non si può affatto dire che da quando Louis Charbonneau Lassay nel 1946 dava alle stampe queste parole le cose siano di molto cambiate.

Oggi, come ieri, anche stimati teologi continuano a considerare questo culto unicamente attribuendogli caratteristiche esclusivamente romantico-sentimentali, alla stregua di una pratica caduta ormai in disuso, lontana dalle esigenze sociali e dai pragmatici bisogni del fedele moderno.

In buona parte tale convinzione, come spiega lo stesso autore, è frutto di una conoscenza distorta, o meglio di “leggende errate”.

La confusione principale è data dal considerare la figura del mistico (che presenta tutti i caratteri dell’attesa per l’acquisizione), del quietista e del panteista con quella dell’iniziato alla venerazione del Sacro Cuore.

Sovente questi due aspetti non vengono compresi:

– il primo, quello mistico, essoterico, materiale e visibile, percepibile dai sensi, è iconograficamente rappresentato dal cuore trafitto, fiammeggiante di passione (foto n 1, 2), questa presentazione lo fa distinguere da ogni altro. La via percorsa è caratterizzata dalla passività, dall’assenza di metodo e si esplicita con la ricettività espressa nel “…ricevere Dio nel cuore…donare il proprio cuore… ecc…

– Il secondo aspetto, quello iniziatico, d’ordine esoterico, spirituale e invisibile costituisce la chiave d’accesso fornita alla comprensione umana per riuscire a capire appieno l’accesissima carità che ha indotto Cristo agli strazi del calvario. Le sofferenze rappresentate dalla luce che promana dal cuore martoriato e raggiante, investono e illuminano la conoscenza del fedele (foto n 3, 4). Questi assume qui il ruolo attivo di motore nel processo rivolto alla realizzazione spirituale, di colui che “…cerca Dio per entrare nel Suo cuore…”. Un esempio di questa forma ascetica può esser ravvisato negli “Esercizi spirituali” di S. Ignazio di Loyola.

Accanto al dolorismo mistico, caratterizzato dagli stati estatici, dalla passività del soggetto, dalla perdita di coscienza del sé e dall’esaltazione per la sofferenza espiatoria convivono le gioie di una ascesi di grazia che è accesso per la progressiva illuminazione della coscienza.

Tale condizione, riscontrata anche in altre tradizioni, comunemente è stata definita “apertura dell’occhio del cuore”. In essa si sono trovate corrispondenze nella chiesa d’Occidente e d’Oriente, presso gli adepti ai misteri del Sacro Cuore, tra i padri esicasti della filocalia (la preghiera del cuore), nelle scuole sufiche dell’Islam (aynul-qalb) come nelle pratiche indù destinate allo yoga.

La Philosophia Perennis parla diversi linguaggi, corrispondenti alle rispettive forme tradizionali che sono quelli della fatica del cuore, della grande guerra santa, condotta contro i demoni della dispersione. Le distinte vie costituiscono i raggi che conducono al centro della circonferenza, dove e possibile l’incontro con la gnosi, il raggiungimento della grazia, il conseguimento dell’effettiva liberazione.

Si tratta quindi di analizzare il fenomeno spirituale in un’ottica più ampia, riconoscendone il valore comparativo. Al riguardo è necessario porre nuova attenzione nel valutare, al di là delle esperienze visionarie o miracolistiche, che potrebbero perfino derivare da effetti psichici e da anamorfosi demoniache, l’effettivo contributo portato alla realizzazione interiore.

Nella vera tradizione l’estasi non comporta una uscita dal sé ma una realizzazione che si verifica grazie ad una esperienza di assorbimento interiore. Se è vero che “l’immagine di Dio al di fuori di sé è sempre imperfetta in quanto egli ha sede nel cuore” (T. Spidlik, La spiritualità dell’Oriente Cristiano. Manuale sistematico,1985) ne consegue l’invito a ragionare col cuore, nella volontà di perseguire il reale congiungimento con il proprio centro. L’unione globale della persona avviene attraverso la fusione della mente-cuore, con la grazia superiore (P.N.Evdokimov, Le età della via spirituale).

Nelle svariate dottrine (esicasmo ortodosso, culto cattolico del Sacro Cuore sufismo islamico, via dello yoga indù) sussistono assonanze formali e similarità interne. La discesa dell’intelletto comporta il congiungimento con il Principio che ha preso dimora nel cuore. A questo stato perviene la selezione dei praticanti, prodotta dalla loro

capacità nel superamento delle prove, legittimata dalla partecipazione ad un gruppo comunitario (confraternita, ordine, taruq), potenziata attraverso la regolare trasmissione di un insegnamento e l’impiego di un metodo, realizzata sotto l’attenta guida di un maestro o padre spirituale e ottenuta percorrendo pazientemente le tappe del cammino iniziatico che portano a favorire la trasformazione ontologica dell’adepto.

Nella tradizione cattolica per gli aderenti ai circoli che raggruppano i fedeli al Sacro Cuore resta comune il concreto obiettivo di una rottura dalle catene che impediscono all’anima il ricongiungimento con Dio e viene finalizzato il conseguimento della condizione di “liberati in vita”.

Con la benedizione della preghiera il loro intendimento è essenzialmente rivolto alla liberazione dell’anima dai sette sigilli costituiti dagli attaccamenti:

1° al peccato, 2° ai beni terreni, 3° ai piaceri procurati dai sensi esteriori, 4° alle passioni interiori, 5° all’uso sconsiderato della potenza, 6° alla propria vita, 7° ai doni di Dio.

Analogamente le tecniche sufi configurano sette gradini o stazioni acquisibili con l’esercizio dello sforzo ascetico. I sette maqāmāt rispecchiano altrettanti stati dell’essere o gradi di consapevolezza che conducono all’unione (H. Nasr, Il sufismo,1975); ogni maqām è raggiungibile salendo gerarchicamente le stazioni del:

1° pentimento (tawbah), 2° astensione (wara’),3° ascesi (zuhd), 4° povertà (faqr) 5° pazienza (şabr), 6° fiducia (tawakkul), 7° soddisfazione (ridā).

Anche per la metafisica indù il fine ultimo resta il ricongiungimento (origine semantica della parola yoga) di Brahman: etimologicamente preghiera, ma inteso anche a significare lo spirito universale, fonte di ogni esistenza e con l’Atman: etimologicamente respiro, pure usato ad indicare l’anima o il sé di ogni essere vivente e specialmente dell’uomo (Upanisad, a cura di P. Filippini Ronconi, 1960. – R. Guenon, L’uomo e il suo divenire secondo il vedanta, 1965).

Di fatto la devozione al cuore divino di Gesù non rientra nel novero delle mode né delle invenzioni recenti; resta fuorviante circoscriverla ad un derivato di suggestioni femminili, considerarla frutto di pregiudizi bigotti di matrice controriformistica o una appendice della cardiolatria barocca.

Ridurre ad una indigesta iconografia sanguinolenta il complesso delle rappresentazioni dedicate a questo culto fa tuttavia parte di una mentalità non esclusivamente laica. Queste credenze trovano diffusione e accreditato seguito anche nell’opinione corrente di certo clero. Alla base di tale incomprensione troviamo spesso la diffusa incapacità di leggere con correttezza i fatti storici, di riuscire ad interpretare gli aspetti simbolici, le potenzialità spirituali e di sceverare ciò che va oltre la crosta delle apparenze immediate.

Delle rappresentazioni iconografiche e degli avvenimenti che li hanno prodotti vengono in certi casi percepiti solo gli aspetti superficiali, legati alla sfera estemporanea, formale ed emotiva: l’amore profano, l’aspetto caritativo, il sentimento passionale mentre resta sovente in ombra, preclusa o trascurata, la capacità di andare oltre.

È quindi opportuno tracciare un breve excursus, attraverso il tempo e le diverse tradizioni, per poter allontanare ogni approssimata considerazione.

Excursus nel simbolismo dedicato al cuore

In passato il cuore veniva equiparato al sole perchè entrambi, irradiatori di luce e di calore, svolgono una funzione centrale ed essenziale nel processo vitale. Le antiche raffigurazioni del cuore raggiante, circondato da una corona luminosa, tendono a stabilire la corrispondenza non solo con il sentimento dell’amore (il calore), ma anche con l’intelligenza superiore (la luce).

Anche in questo caso occorre fare chiarezza. Ad esempio, sono state considerate in supposta antitesi le visioni, in realtà complementari, di due autori che hanno notevolmente contribuito, procedendo in parallelo, a porre le basi per gli studi di comparazione delle ascesi.

Charbonneau Lassay nelle sue opere mette in luce le testimonianze cristiane allusive all’avvento del Cristo, mentre Guénon fornisce le spiegazioni che riguardano l’unità trascendente delle forme religiose.

Quest’ultimo teorizza l’equivalenza dei simboli in quanto li considera derivazioni dalla tradizione primordiale, adattamenti raggiunti dalle singole esperienze in base al processo storico.

La complementarità dei due indirizzi relativi a questi studi investe il prima e il dopo la venuta del Cristo, con riferimento alla storia dell’uomo occidentale e orientale. Partendo da angolazioni diverse vengono prese in considerazione le forme dei molteplici percorsi iniziatici.

Tali autori, in netto contrasto con le convinzioni del loro tempo, nelle opere rivolte allo studio delle tradizioni spirituali hanno cercato di chiarire e confutare l’inversione dei valori che si è verificata in questo campo. Infatti nell’Occidente moderno è consuetudine privilegiare l’azione mentre la contemplazione viene idealmente relegata nel novero

delle passività e del superfluo. Trova così riscontro la singolare e anomala (rispetto alle tradizioni del passato) mentalità di giudicare alla stregua di parassiti, oziosi e senza una apparente utilità, gli ordini che praticano l’ascesi rispetto a quelli che si dedicano alla promozione sociale.

La storia, magistra vitae, testimonia la presenza di culture e civiltà, lontane nello spazio e nel tempo, eppure in sintonia e in grado di fornire una serie di esempi concomitanti e complementari.

Pur nella specificità delle diverse forme tradizionali trova nuova conferma l’idea della loro unità originaria e del denominatore comune che sta alla base dell’homo religiosus. Questa stupefacente identità, come accennato, conserva ideali simmetrie simboliche provenienti dalle più lontane tradizioni iconografiche.

Per secoli gli aderenti alle diverse credenze religiose si sono affrontati e sovente combattuti avendo per riferimento la fede nella diversità delle singole rivelazioni. All’alba del terzo millennio è forse giunta l’ora di porre attenzione al parallelismo con dei ponti culturali e iniziare a valutare le numerose affinità che hanno da sempre accomunato l’uomo nella sua ininterrotta volontà comune di venerare Dio.

Le analogie indicano la strada per una pacifica convivenza che non è affatto equiparabile al sincretismo, alla commistione o all’universalismo.

Le differenze restano come ad esempio: meta dell’esicasta è una fusione senza confusione con Cristo-Dio; per il sufi l’incontro rivolto all’Uomo Universale (al Insan al-Kamil) coincide nella figura del Profeta Maometto.

Se nel Sufismo l’ego si estingue in Allah, nell’Esicasmo non si parla di disintegrazione della persona ma di integrazione col divino, la divinizzazione è prevista nel corso della vita stessa, attraverso l’accesso nel cuore dello Spirito Santo, prima ancora del giudizio universale e della morte.

Ecumenismo significa incontro non rinuncia, la venerazione cristiana al Sacro Cuore non è da intendersi propriamente come yoga cristiano, così non si può confondere il rituale islamico della menzione di Dio (Dhikr Allah) con la preghiera del cuore ortodossa o considerare sbrigativamente quest’ultima alla stregua di un incantamento ipnotico. I pericoli delle degenerazioni (culto fanatico dell’onomatolatria, riduzione delle pratiche respiratorie ad esercizi estetici igienico-ginnici, affettazione a pratiche romantico passionali) sono sempre in agguato.

Le tradizioni iconografiche del cuore nel passato

Fin dai primordi della civiltà l’incessante ritmica pulsione del cuore ed il suo improvviso cessare, corrispondente al segno della morte, hanno destato nell’uomo mistero, stupore e fascino. In qualità di sinonimo stesso dell’esistenza la sua raffigurazione ha coinciso con l’identificazione del soffio vitale. Il cuore rappresenta per l’uomo della tradizione una interezza fatta di passioni e di ragione, non è quindi solo l’organo affettivo, così come concepito dalla cultura moderna, ma e il fulcro stesso dove nasce il pensiero, si manifesta la parola, sorge la capacità di ogni comprensione metafisica e può crescere una volontà d’azione, una idealità che va oltre l’interesse immediato (cuor di leone) e la ragionevole comprensione (senza cuore).

La parola cuore riveste già dall’epoca preistorica una importanza preminente.

La derivazione dal lat. Cor, cordis trae a sua volta origine dalla radice indoeuropea Krd / Ghrd (G. Devoto, Origini indoeuropee, 1962),  da cui provengono: gr. Ker, Kardia, got.Hairtho, ted. Herz, i.-ir. hrd, sanscr.Hardi (E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Vol. I, 1976).

Il cuore è la naturale sede delle emozioni e degli affetti ma anche del coraggio, del pensiero e della memoria, come si ricava dalla provenienza verbale di recordor ricordar(si), ma soprattutto assume il significato di sede della forza vitale.

Già nella scrittura sacra dei geroglifici il maggiore degli organi umani viene rappresentato sotto forma di vaso, contenitore delle passioni buone e cattive che regolano l’attività umana. Nel cuore è ravvisata la sede dell’intelletto, da cui scaturisce ogni conoscenza umana.

È il cuore che fa germogliare ogni conoscenza”, si legge nei testi degli antichi Egizi; in esso riposa l’intelligenza, la volontà, i sentimenti e la parola cuore si traduce con quella di spirito (M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Vol. I° 1979).

Nell’Egitto dei faraoni il muscolo cardiaco oltre ad essere considerato centro della vita fisica, così come appare negli antichi trattati di medicina viene identificato con l’intelligenza e l’anima (Dizionario delle religioni, a cura di P. Poupard, 2007). È dei medici-sacerdoti l’intuizione di centrale del sistema cardiovascolare ed è considerato in correlazione ai vasi dove scorre la linfa vitale, costituita dai quattro liquidi organici: sangue, lacrime, sperma e urina.

All’interno delle piramidi il giudizio delle anime viene raffigurato con l’atto della psicostasia, la pesatura delle anime. Secondo quanto riporta il Libro dei morti (cap. 125), in questo organo sta racchiusa tutta l’essenza del bene e del male di ogni defunto. Nel post mortem il cuore è posto su di un piatto della bilancia mentre nell’altro è posta Maat,

la piuma divina. Se non avviene un bilanciamento, un riequilibrio, il tribunale presieduto da Osiride condanna l’individuo che va inesorabilmente incontro ad una terribile seconda morte. La prospettiva d’esser divorato da un mostro e la conseguente sparizione eterna costituiscono la più terribile delle punizioni, peggiore della esistenza tribolata. Solo una situazione di perfetto contrappeso può consentire l’accesso al regno dell’immortalità (foto n.5).

Nell’India vedica, come già accennato, il cuore, nella traduzione hŗd, identifica il riflesso dell’assoluto (brahman) nell’individuale (atman), questa grande dimora trascende reale ed irreale (a cura di P. Filippani Ronconi Upanişad antiche e medie, 1968), è il punto dove individuo ed universo si possono incontrare.

Nella tradizione biblica l’organo vitale per eccellenza (leb) viene assimilato all’uomo interiore. I capitoli dell’Antico Testamento contengono i concetti fisiologici di: parlare con il cuore (Eccle. 2,15) e pesare il cuore (… ma è il Signore che pesa i cuori Prov. 21,2). L’organo cardiaco è epicentro dell’affettività (Deut. 6,5), sede di amarezze (Ger. 4,18) e di gioia (Deut. 28,47), dell’ira (Deut. 19,6) e dei desideri (Es. 35,21-26), del coraggio (Sal. 27,14) e della fiducia (Sal.57,8).

Per il Nuovo Testamento l’aspetto soteriologico si accompagna a metafore che indicano le parti più profonde. Siamo lontani dall’eliolatria egizia, il monoteismo ebraico demitizza ogni forza naturale (cielo, mare, terra) che resta subordinata alla grandezza divina. Le considerazioni sulla insondabile impenetrabilità del cuore umano (Ger. 17,9; 1 Cor. 4,5; Rom. 8,27) affiancano la concezione del cuore umano visto come strada preferenziale per arrivare a Dio e raggiungerne la piena conoscenza.

L’esortazione “… Amerai dunque il Signore, Iddio tuo, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze” (Deut. 6,4-5) ribadita poi da Gesù: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la tua mente” (Mt. 22, 4) diventa il primo e il massimo tra i comandamenti.

Il significato focale del precetto biblico del cuore sta nell’essere considerato sede del pensiero (Deut. 15,9), della coscienza (Tim. 1,5), della ragione (Giob. 17,4) dell’intelligenza (Sal. 119,34) e della volontà responsabile (Sal. 33,11 Sal. 40,8).

Come un vaso di Pandora oltre a luogo della fede, della conversione e della sincerità questo organo può ospitare l’incredulità, la lussuria e i cattivi pensieri (Ebr. 10,22).

Il cuore designa la vita interiore, racchiude intelletto e volontà, sentimento e ragione, anima e corpo. Quando l’uomo viene invitato ad amare Dio con tutto il cuore, con l’anima, con tutta la mente e tutta la forza, queste ultime non costituiscono entità sparse ma la risolutezza di una individualità in marcia verso il suo centro.

L’appello ad “amare Dio con tutto il cuore” non presuppone alcunché di irrazionale o di emotivo, al contrario attesta una forte presa di coscienza, la manifestazione di riconoscente gratitudine per le grazie a cui l’uomo può attingere attraverso l’apertura del suo cuore. L’organo trafitto del Cristo manifesta il mistero di un amore che donato con la morte è diventato fonte di vita e possibilità d’accesso a Dio. All’offerta divina corrisponde quella del fedele nella sua esplicita dichiarazione del Credo che, secondo l’etimologia latina, risponde alla logica dell’affidamento e del dono “cor-do” (www.disf.org/Voci/47.asp).

Come Dio è motore dell’universo così il cuore e motore dell’organismo umano.

L’equiparazione cuore-lira e ravvisata nella cultura ellenica dove lo strumento di Apollo e di Orfeo diventa espressione del Verbo sovrumano.

Chi ha letto Omero sa che nel cuore risiede il coraggio degli eroi e vi dimora il pensiero; qui si scatenano le più vibranti emozioni e si possono sprigionare vicendevolmente l’amore o la collera.

Si attuerà in Grecia, dove nasce la mentalità scientifica, il passaggio dal cardiocentrismo aristotelico all’encefalocentrismo e la conseguente idea che nel cervello e non nel cuore hanno dimora le sensazioni.

Nelle oscure catacombe dei primi cristiani la lira mistica iconograficamente resa assimilabile al cuore reca al suo interno il monogramma I – X Iesus-Cristos, è munita di tre corde rispettivamente assimilate alla potenza del Padre, alla sapienza del Figlio e all’amore dello Spirito Santo. Analogamente, sempre ai tempi dei protomartiri, appare la rappresentazione del Cristo nelle vesti del poetico Orfeo, intento ad affascinare i suoi interlocutori. Il Salvatore del mondo ha preso il posto del divino incantatore pagano ma lo strumento musicale e rimasto.

Per l’Islam l’organo cardiaco (al-qalb) in qualità di elemento fisico è porta d’accesso verso la contemplazione (J.Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, 1989). Il cuore è l’occhio attraverso il quale Dio vede l’uomo (F. Schoun, L’occhio del cuore, 1982) e la via del cuore costituisce il percorso di conoscenza e amore che grazie al tacawwuf (l’iniziazione) l’uomo deve compiere se vuole giungere fino a Dio (Feirefiz, La via del cuore, 1979).

Come è stato già accennato nelle diverse tradizioni l’occhio del cuore (aynul- qalb) è un simbolo comune che nel Cristianesimo, nella Massoneria e nella Tradizione giudaica si identifica con un triangolo (cuore) in cui compare iscritto lo jod, l’occhio che vede tutto, detto anche occhio frontale, immagine rappresentativa della Provvidenza, segno della Presenza divina (Shekinah) e del Principio (foto n 6).

Oltre i confini antichi dei continenti conosciuti, Maya e Atzechi consideravano il cuore (yollotli) dimora sia della vita che dell’anima.

Prima della cremazione, veniva posta nella bocca del defunto una pietra preziosa che simboleggiava il cuore. La pratica del sacrificio umano in onore di Huitzilopochtli prevedeva la cardiotomia, estrazione del muscolo ancora palpitante dal petto della vittima, così i celebranti offrivano il principio della vita individuale al principio cosmico, rappresentato dal dio-sole rigeneratore. Riguardo alle popolazioni precolombiane il cuore e il sole, entrambi considerati fonti salvifiche dell’esistenza umana e di quella cosmica, hanno portato a forme di esasperazione quali la cardiolatria e la eliolatria. Per mezzo di un semplice principio simpatico secondo cui se il cuore è uguale alla vita e il sole è uguale alla vita, conseguentemente il cuore è equiparabile al sole. Cosi le offerte umane assumevano la funzione di placare l’ira divina e impetrare la conservazione dell’essere.

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