27 Aprile 2024
Società

Identitari o desocializzati – Enrico Marino

La nostra società nel corso degli ultimi 30 anni ha conosciuto mutamenti profondi e, a tratti, radicali che hanno inciso sulla sua vecchia composizione di classe, dando vita a caratteristiche nuove e imprevedibili, generando nuove diseguaglianze, tensioni e nuove povertà, ovvero rivoluzionando abitudini, comportamenti e pratiche di convivenza che apparivano consolidate.

Al cospetto di questa ricomposizione sociale, che ha preso corpo e forma con nuovi vissuti e attraverso il radicarsi di nuove convinzioni, la classe politica s’è mostrata impreparata e, non essendo in grado di analizzare compiutamente le nuove realtà che si andavano costituendo, non ha fornito risposte adeguate alle pressanti esigenze che da queste emergevano.

Anzi, paludata con le vecchie culture, di sinistra e liberal-democratica, ha sbrigativamente liquidato come populiste tutte le nuove istanze che non capiva, non conosceva e non riusciva a (s)piegare all’interno dei suoi schemi concettuali.

In questo senso, la superficialità e l’ignoranza con cui sono state affrontate le problematiche del lavoro e della sicurezza sono gli esempi più eclatanti dell’arretratezza e spesso della malafede con cui i partiti e le istituzioni hanno trattato le richieste più pressanti avanzate dai cittadini.

L’Italia è il Paese europeo sul quale la rivoluzione del lavoro ha avuto l’impatto maggiore e più travolgente. Un intero mondo è finito in pochi anni: quello della piccola borghesia artigiana e commerciale, quello del ceto medio delle professioni intellettuali intriso di cultura umanistica e, a fronte, quello della classe operaia orfana del sistema di fabbrica tradizionale.

Il lavoro del terzo millennio, infatti, con le sue caratteristiche di alta intensità tecnologica e di continua trasformazione e innovazione, non genera più legami collettivi, di classe o d’altro tipo, non è più un veicolo di socializzazione di massa e questo modifica profondamente tratti e contenuti della democrazia e il rapporto con le sue forme di rappresentanza.

L’evoluzione delle sensibilità politiche non è stata solo una questione di “fine delle ideologie”, come s’è sentito ripetere, ma dello sconvolgimento di un’intera architettura sociale, le cui basi materiali sono franate: dove prima c’erano interessi comuni, vaste aree di obiettivi condivisi e, perciò, comuni visioni del mondo, oggi s’è affermata una società pulviscolare, di individui privi di un sentire comune, di singolarità diffuse che reclamano ognuna visibilità e riconoscimento.

Allo stesso tempo, la fine delle certezze economiche connesse con la stabilità del lavoro e della garanzia di diritti che parevano acquisiti ha prodotto un sisma nei rapporti di ciascuno con la propria esistenza, a partire dai pensionati, ai quali è stato d’improvviso vanificato il proprio progetto di vita, fino agli studenti, privati di quel futuro a cui li avevano predisposti i loro genitori, ingenerando relazioni sociali meno solidali e più competitive.
Il moltiplicarsi di soggetti prigionieri del loro particolare, che non si riconoscono più in alcuna delle mediazioni sociali tradizionali (partiti, sindacati, ecc.) ha generato un individualismo sradicato, fragile e abulico per cui un soggetto desocializzato, scollegato dalla propria comunità, estromesso da un sistema di valori condivisi e orfano di ideali finisce col subire le mille pressioni e i ricatti della società dell’effimero, del consumo, dell’apparire, dell’avere senza limiti.

L’individuo soggiace alla logica del relativismo, alla lusinga delle rivendicazioni assolute e all’illusoria pretesa di diritti di ogni specie, ma non ne ricava maggiore libertà né felicità, bensì maggiore incertezza e un’ansia diffusa.
All’espansione illimitata delle rivendicazioni, anche innaturali e arroganti, si contrappone una contrazione delle opportunità concrete, di vita reale e quotidiana.

I metodi industriali che consentivano, anche con l’impiego di manodopera scarsamente specializzata, la realizzazione di sensibili risparmi dei costi di produzione e potevano conciliarsi anche con elevati tassi di immigrazione sono stati totalmente superati. Oggi, invece, le migliaia di clandestini che sbarcano in Italia si sovrappongono alla manodopera nazionale in un mercato gravemente sfregiato dalla crisi e che, in ogni caso, è caratterizzato dalla richiesta sempre più scarsa di lavoro poco qualificato (ormai sostituito dall’automazione) e, di contro, dall’esigenza di nuove professionalità altamente specializzate e informatizzate.

La concorrenza al ribasso nelle scarse opportunità di lavoro e la condivisione forzata dei residuali, spesso scadenti, benefici che il welfare ancora elargisce, pongono perciò sempre più spesso in competizione settori in crescita di cittadini italiani impoveriti e marginalizzati con le nuove e invadenti etnie che si installano sul territorio, specialmente nelle periferie metropolitane.

Ne scaturiscono appelli, spesso confusi e perlopiù esasperati, nei confronti dello Stato, affinché tuteli maggiormente le aspettative, i diritti e l’incolumità stessa dei cittadini.

Ma al cospetto di una élite culturale e politica progressista, infarcita di ideologismo mondialista, le giuste rivendicazioni vengono ignorate e allorché sfociano in protesta vengono immediatamente tacciate di populismo o, peggio, demonizzate come xenofobe, razziste e fasciste.

Anche a fronte delle potenziali gravissime problematiche di convivenza generate dalla presenza di comunità, come quelle islamiche, fortemente caratterizzate dal punto di vista culturale e religioso, le reazioni rimangono limitate, i rischi sono ampiamente sottovalutati e gli insediamenti continuano a essere tollerati.

Peraltro, nelle classi popolari maggiormente soggette alle convivenze forzate con le masse di immigrati, mancano ancora una compiuta consapevolezza delle proprie ragioni e una più cosciente rivendicazione identitaria dei propri diritti.

Del resto, il processo di graduale scadimento e di banalizzazione del fenomeno religioso in mero fenomeno sociale, dispensatore di una catechesi tenue, scontata, banale, politicamente corretta, ha privato il Cattolicesimo odierno, ormai totalmente laicizzato, massificato, socializzato e, in sostanza, trasformato in parodia di sé stesso, di qualsiasi forza e funzione unificatrice identitaria e comunitaria.

In nome del dialogo, della comprensione, della vicinanza a tutti e a tutto (tranne che alla Tradizione), Bergoglio propone più che mai da parte della Chiesa una linea sempre molto minimalista, quasi liberale e laica: la condotta di chi non deve intromettersi troppo, di chi deve partire sempre dal basso, senza imporre nulla, senza dettare regole, ma cercando di trovare le soluzioni discutendo tutti insieme (tranne che con i tradizionalisti), con la condivisione e l’ascolto reciproco proposti come una linea democraticissima, molto “open mind”.

Per questo, la coesione di vasti strati sociali attorno a determinati principi prescinde ormai dalla pratica religiosa e dallo stesso Magistero della Chiesa, come s’è visto chiaramente anche in occasione del family-day.

Per questo, un movimento di riscatto nazionale che voglia identificare un orizzonte comunitario al quale indirizzare le energie di risveglio e rinascita del popolo, dovrà recuperare nel concetto di etnia l’unico elemento identitario residuale, che sia anche un potenziale catalizzatore di forze sane, come difesa della propria stirpe intesa non solo come fattore di unitarietà culturale, ma orgogliosamente rivendicata come diversità antropologica – in contrasto alla mistificazione dello jus soli – rispetto alle etnie afroasiatiche che approdano incessantemente sulle nostre coste.

Il rifiuto di una società meticcia deve costituire la parola d’ordine sfrontata e irriducibile contro qualunque politica di accoglienza, di apertura e d’ibridazione. Senza neppure ipotizzare un inaccettabile multiculturalismo, occorre opporsi alle stesse premesse di questa sostituzione che ancor prima che valoriale e culturale si manifesta come etnica. Occorre riaffermare il principio della preferenza e della prevalenza nazionale, senza cedere allo sciacallaggio ideologico e alle demonizzazioni delle sinistre, balbettando incerti davanti ad ogni richiesta, arretrando e cedendo ogni giorno, convinti in fondo che nella nostra civiltà non ci sia granché da difendere. Occorre rivendicare il principio dell’appartenenza e del radicamento naturale di un popolo in una terra.

In un’arnia di api debole arrivano api più forti a saccheggiarla; ugualmente una società debole, capace solo di adagiarsi sui buoni sentimenti o di seguire i fantasmi del proprio nichilismo edonista, attira spontaneamente l’avidità di mondi più aggressivi, più forti, determinati a imporsi per la compattezza e la profondità delle loro radici.

Noi dobbiamo invece offrire al nostro popolo la speranza di ritrovarsi e di risorgere attorno a un’Idea forte, determinata e irriducibile, di identità nazionale, di individuazione etnica e di agire impersonale in nome di una comunità che sappia porsi in alternativa alla anomia e alla desertificazione sociale indotte dall’individualismo mondialista e antiumano.

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