10 Aprile 2024
Etnoregionalismo Identità

Identità e campanilismo – Walter Venchiarutti

Gli eredi del campanilismo

Una vera e propria forma di isteria econo­micista sta oggi trasformando, giorno dopo giorno, la terra in una enorme discarica. Ri­sulta ormai accertata l’impossibilità di una cresci­ta infinita in un mondo finito ed è scontata l’incompatibilità del pianeta nel poter conti­nuare a sopportare una popolazione sempre in aumento.

Gli ultimi eccessi della mondializzazione e lo spettro del pensiero unico hanno di re­cente portato alcuni studiosi, sensibili alle scienze sociali a ravvisare nel localismo (inten­dendo per tale il senso di appartenenza e vo­lontà di tutela del patrimonio materiale, cul­turale, relazionale esistente in un determina­to territorio) una delle possibili alternative ad una società che rischia di non saper so­pravvivere al proprio sviluppo.

Tradizionalmente, nell’accezione d’uso corrente, si definiva campanilismo l’attacca­mento esagerato e gretto alla propria gente e al proprio paese; quindi un sentimento cir­coscritto che non travalicava la propria cerchia muraria.

Oggi anche non sospetti detrattori dell’identità sono pronti ad affermare che “Se i misfatti dei ripiegamenti identitari e dell’et­nicismo devono essere denunciati, non bisogna but­tare via il bambino con l’acqua del bagno”(S. Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, 2008) . An­che i nuovi indirizzi orientati alla proposta di una economia solidale e comunitaria hanno riscontrato nella valorizzazione del patrimo­nio locale non tanto anguste volontà di chiu­sura o di ripiegamento, bensì la pista da se­guire per valorizzare una creatività già esi­stente e consolidata, per combattere le eson­danti pretese produttivistiche e consumisti­che che ignorano le disponibilità reali, le esi­genze primarie, i limiti territoriali e le sensi­bilità etniche.

In passato non sono mancati casi di aberrazione, tuttavia sono anche presenti una nutrita serie di esempi positivi che ven­gono proposti esaminando la storia artigiana­le e contadina della società vernacolare. Sono modelli di vita rintracciabili in alcune comu­nità tradizionali che per secoli hanno saputo adeguarsi all’ambiente utilizzandone le risor­se oculatamente e opportunamente senza por­tarle a distruzione, operando in armonia, evi­tando traumi alla natura intesa come madre e non semplicemente come res predatoria (F. Schuon, Sguardi sui mondi antichi, 1996).

Questi schemi, per prima cosa, comporta­no il superamento non facile relativo all’ac­crescimento dei bisogni superflui. Va posto coraggiosamente un limite al sovraconsumo, agli sprechi generati da strane e moderne abitudini (imballaggi, prodotti inutilizzati, gusto per lo shopping, desideri di possesso fine a se stesso). Non è ulteriormente tolle­rabile e rischia di fomentare una situazione di degradata conflittualità sociale la progres­siva disuguaglianza tra paesi troppo ricchi e quelli troppo poveri. La stessa cosa per ana­logia ha valore con gli esseri umani presi sin­golarmente.

Il campanilismo del passato, purgato da alcune detestabili spigolosità, può fornire intuizioni, spunti e concetti su cui ricompor­re la nuova mappa dei legami sociali.

S. Maria della Croce

Basta prendere in considerazione la logi­ca oblativa, l’etica della gratuità contro quel­la dell’accumulazione (C. Champetier, Homo consumans, 1999). La prima diversa­mente dalla mercantile si basa sugli arcaici rituali del dare, ricevere e contraccambiare, così come è stata esaminata da Marcel Mauss per i casi del kula o del potlàc, in uso pres­so le società a livello etnografico ed è stata riscontrata da Benveniste nell’ancestrale lin­guaggio degli indoeuropei (M. Mauss, Saggio sul dono, 2002 – E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuro­pee, Vol. I°, 1976).

Ma gli esempi per approfondire questi nuovi eppur vecchi indirizzi non occorre andarli a cercare nel­le lontane isole Trobriand o nel pre-coloniz­zato Nord-ovest americano poiché si stan­no evidenziando anche da noi.

Possono rientrare in questa logica: le banche del tempo, l’etica delle gilde artigianali, l’agricoltura contadina, le mutue di credito, gli empori, le associazioni di consumatori, varie forme del volontariato sociale, sanitario e culturale. Ricordiamo che in Italia un antesignano del credito sociale e quindi della finanza etica è stato Ezra Pound – Dieci lezioni alla Bocconi, 2020 – Lavoro e usura, 1972.).

Seppure co­stretti ai margini dell’economia corrente tali iniziative occupano posizioni di nicchia. Su­perati i limitati punti di vista dell’individua­lismo e dell’olismo è necessario prendere in considerazione il modello del dono, dell’al­leanza e dell’associazione o come in altro ter­mine è stato definito il terzo paradigma (A. Caillè, Il terzo paradigma, antropologia filosofica del dono, 1998). È infatti quest’ultimo chiamato nel dover tor­nare a svolgere un ruolo primario e salvifico dell’economia.

L’ossessione frenetica e totalizzante del lavoro e del cosiddetto dopo-lavoro o “tem­po libero” occupa ogni minuto della vita dell’uomo moderno finendo spesso per co­stituire una dipendenza e risultare una vera e propria droga. L’ethos dell’homo faber ha so­stituito l’otium dei filosofi e ciò costituisce un buon alibi per non pensare, poiché se c’è già chi è delegato a farlo non ci si deve o dovreb­be preoccupare ulteriormente.

Dopo esser stato opportunamente svuota­to delle energie vitali il lavoratore gode gli ultimi anni di vita nel paradiso pensionistico, accompagnato dal senso di inutilità, abban­dono e incapacità di coinvolgimento da par­te di una società che finisce per considerare peso deficitario tutti gli estranei al processo produttivo.

Resta aperta la porta dell’otium utilis, cioè l’attingere a quelle forme di Volontariato, alle offerte di una operosità, non sorretta da pretese utilitaristiche e appunto perché gra­tuita, spesso miopisticamente stimata senza valore. In una intelligente prospettiva di op­portuna fruizione queste forze, come hanno già dimostrato in campo sociale, assistenzia­le e sanitario, così anche in campo culturale, sarebbero in grado di risolvere parecchi pro­blemi contingenti oltre che fungere da anti­doto alla depressione e a molla realizzatrice del sé individuale.

 

Dal nativismo al populismo

Il nativismo, sorta di nazionalismo difensi­vo, è la sintomatica risposta a questi problemi estensibili geograficamente. Il fenomeno co­stituisce la replica dei nativi nei confronti dei nuovi arrivati che si suppone possano rappre­sentare una minaccia alla cultura, ai valori e alle istituzioni della comunità originaria (H. Georg Betz, La cultura, l’identità e il problema dell’Islam, in “Trasgressioni”, n° 46, 2008). Fondato sul presupposto che ogni forma di influenza esterna è tendenzialmente portata a minare la base su cui poggia l’identità col­lettiva il nativismo tende a ravvisare generica­mente negli immigrati i portatori di valori in­conciliabili con la propria tradizione, con le istituzioni vigenti e vi identifica un pericolo serio e ineludibile.

Ogni forma di renitenza all’integrazione più o meno forzata (sia essa religiosa, politi­ca, sociale ecc.), la pervicacia a voler mante­nere usi e conservare i costumi della propria etnocultura, l’ardire di non mimetizzarli ma anzi la pretesa nell’ostentarli e cercare di dif­fonderli vengono interpretati come compor­tamenti irriconoscenti nei riguardi dell’ospi­talità concessa.

Se il nativismo trae maggiore vitalità da tali presupposti non può però essere comunque omologabile ad una delle tante forme cono­sciute di razzismo passato o presente.

Di regola ogni forma di diversità ricono­sciuta può sottintendere la pretesa di supe­riorità ma genericamente, nel caso in que­stione, non viene considerata la società come divisa gerarchicamente in livelli di civiltà cor­rispondenti alle etnie. Non si esprimono giu­dizi qualitativi o di merito che stabiliscano preordinate differenziazioni tra elite razziali, gruppi con funzioni superiori e destinatari di trattamenti inferiori.

In tale logica non esisterebbero gradi di civiltà essendo tutte equiparate. Società di­verse possono esprimere modi differenti, ma non necessariamente sarebbe possibile for­mulare giudizi comparativi in quanto ogni comportamento o atteggiamento culturale si adatta alle esigenze naturali delle singole etnie.

Quando e se il nativismo si politicizza di­venta populismo. Quest’ultimo in nome dell’identità rifiuta la società multiculturale e sostiene l’integrazione, volontaria o forza­ta, delle minoranze allogene.

Tuttavia le migrazioni di forti e continui flussi verso l’Europa, e in particolare l’Italia, pongono evidente il problema. È facile con­statare il fallimento dell’assimilazione etnica di fronte a terzomondisti sempre più nume­rosi, determinati non solo alla conservazio­ne, ma anche all’esportazione e quindi alla diffusione delle proprie tradizioni.

Volendo preventivamente escludere posi­zioni estreme di fanatismo xenofobo da una parte, e di universalismo cannibale dall’altra permane la vexata questio: il coesistere di eti­che diverse necessita di nuove e più efficienti regolamentazioni, di facile attuazione e tali da ottemperare sia alla salvaguardia dei di­ritti acquisiti dai vecchi abitanti, sia ad evita­re che i nuovi arrivati cadano nelle trappole dello sfruttamento e dell’inserimento mala­vitoso.

Facendo leva sul disagio popolare verso la partecipazione politica, il populismo attiva strategie di mobilitazione di massa che sfi­dano apertamente la classe politica in auge, criticandone l’operato in nome di una più diretta partecipazione e mettendo in discus­sione non tanto i principi bensì la forma or­ganizzativa elitista presente nella democrazia rappresentativa.

Qui la parola popolo assume il significato pregnante che travalica il concetto astratto di demos e diventa equivalente di ethnos.

Il programma di questi movimenti si con­cretizza attraverso un progressivo percorso di delegittimazione (Y. Meny, Y. Surel, La costitutiva ambiguità del populi­smo, in “Trasgressioni” n° 34, 2002) nei confronti del pote­re costituito, così definibile: 1) l’enfatizzazione del ruolo svolto dal popolo. 2) Il leit motiv del tradimento ordito da­gli uomini attualmente al potere. 3) La capacità delle nuove forze ad as­sumere il comando dopo la liberato­ria cacciata del vecchio gruppo domi­nante. 4) La figura di un leader carismatico, ga­rante della volontà comune.

I mezzi proposti dalla democrazia diretta (le varie forme di decentramento, i referendum, le tipologie del volontariato) portereb­bero al rafforzamento dell’istituzione con­sentendo:

– un salutare ricambio della classe diri­gente,

– una attenzione maggiore da parte del­le élites di potere ai problemi reali del paese,

– un limite al degrado avanzato dal pro­cesso di progressivo sradicamento cul­turale.

La sempre difficile assimilazione delle mi­noranze in continuo arrivo e il deprecabile annullamento delle culture autoctone indi­rizzano verso la strada dell’etnopluralismo che a sua volta introduce al concetto di “di­ritto alla differenza”, boccone di non facile di­gestione poiché soggetto al bersaglio incro­ciato delle conflittualità, siano esse politiche, etniche o religiose.

In bilico tra tribalismo reazionario e av­venturismo progressista la nostra socie­tà stenta a trovare la pista che permetta un decollo equilibrato, esente da traumatiche scosse. Le reciproche pretese di spazio vita­le e di rispetto umano possono essere avviate solo attraverso la volontà di un dialogo sin­cero e aperto, in grado d’affrontate le incer­tezze prodotte dalla galoppante crisi econo­mica; spauracchio che bene o male coinvol­ge tutti.

L’antropologia sociale come principio e come via

Osservando le strutture sociali odierne è difficile credere in un ideale progresso stori­co quando si registra il passaggio temporale da un preteso egoismo di gruppo (il campa­nilismo inteso come culto del noi) all’egoi­smo del singolo (l’individualismo utilitarista che prefigura il culto del sé).

Il prevalere nella società contemporanea di logiche fondate, quasi esclusivamente, sul­le leggi del mercato ha generato l’inevitabi­le sostituzione degli entusiasmi identitari alle parimenti distruttive smanie economiciste. L’accelerazione impressa alla circolazione dei beni ha comportato l’alleggerimento nel tes­suto sociale di ogni valenza simbolica. Quan­do ogni cosa viene ricondotta ad un prezzo anche i valori ideali e morali sviliscono.

I rischi messi in atto dall’attuale crescen­te e preoccupante processo di globalizzazio­ne sono quelli di un universalismo canniba­le. La propensione a voler realizzare una so­cietà del pensiero unico rappresenta il vero pericolo di un appiattimento indistinto, con­siderando che l’azzeramento delle identità è destinato non tanto a conseguire una strate­gia di generale miglioramento bensì a poten­ziare gli appetiti dei singoli.

Ci si è giustamente interrogati sul perché insieme alla tutela delle biodiversità (anima­le, vegetale) non si siano così frequentemen­te, fino ad oggi, registrate altrettante voci in difesa della etnodiversità.

S. Maria Assunta

Considerando doveroso battersi per pre­servare dal pericolo di estinzione la foca mo­naca e contro la ormai sempre più rarefat­ta comparsa del carpino bianco risulta poco plausibile l’indifferenza riservata alla difesa delle diverse identità culturali, derivate da una secolare maturazione e frutto di un inin­terrotto processo educativo.

Bisogna denunciare l’illusione di una cul­tura planetaria che sarebbe il sottoprodotto della mondializzazione tecnoeconomica.

In antitesi con la precedente affermazio­ne assistiamo al fiorire di iniziative promo­zionali che si concretizzano con manifesta­zioni, rievocazioni, pubblicazioni, non sem­pre rispettose del processo storico, impegna­te nella nostalgica riscoperta di presunte ere­dità perdute, in realtà, mai esistite.

Sono tentativi, a volte maldestri, che com­portano una reinvenzione tardiva di leggen­de lontane, manipolate al solo fine di procu­rare vantaggi e tutelare interessi specifici.

Mentre l’etnopopulismo tende a svilup­pare il mito dell’età aurea, l’acquisizione dei nuovi modelli mondialisti spesso si accom­pagna ad un profondo senso di vergogna e svilimento nutrito nei confronti di un passa­to considerato retrogrado e ostacolo ad ogni nuova emancipazione.

Cestinate le idee di città-stato e quella di stato-nazione, l’omogeneizzazione dei co­stumi costantemente promossa dall’imbonimento mediatico è risultata l’in­capacità a saper promuovere nuovi modelli comportamentali. Inevitabilmente ne è deri­vata l’idea di una società atomizzata.

Il senso della collegiale appartenenza, in­sieme al concetto di bene comune, di soli­darietà e destino collettivo sono scomparsi, traditi da falsi profeti, mentre la presenza di una massiccia immigrazione, tenacemente ancorata alle proprie specificità tradizionali e decisa a conservarsi fedele alla cultura avita viene naturalmente vissuta come un fagoci­tante pericolo.

“Una identità, o quello che di essa resta, si sen­te minacciata e sconfitta tanto più è vulnerabile e incerta”( A. De Benoist, Le sfide della postmodernità, 2003).

Nei confronti dei nuovi soggetti, in mag­gioranza extracomunitari, sia le prospettive di ghettizzazione quanto quelle di integra­zione forzata appaiono entrambe dettate da forti paure, dovute alla debolezza se non alla mancanza di principi coesivi.

Queste carenze che, in base alle differen­ti visioni, possono sfociare nell’intolleranza verso le culture altre o nel buonismo, a se­conda dei casi paventano le aporie di una profilattica marginalizzazione (il muro, il ghetto, il campo) quanto quelle di una sel­vaggia assimilazione (il monolitismo cultura­le di stampo occidentale).

Se è razzistico pensare in termini di pretesa superiorità biologica, razziale e culturale, è re­alistico constatare la differenziazione delle raz­ze. Resta ancora da definire, con un termine appropriato, l’atteggiamento, anch’esso peri­coloso, di chi paventa la propria inferiorità.

Il compito dell’antropologia sociale oggi, sotto certi aspetti, pare simile a quello dell’ecologia, della storia dell’arte, dell’ar­cheologia o dell’agricoltura legata alle coltu­re tipiche. Tanti specialisti finalizzano il pre­ciso impegno di trasmettere alle future gene­razioni, per quanto possibile inalterati, i pa­trimoni culturali, naturali e artistici espres­si dalle esperienze storiche ricevute dal pas­sato. Nell’ottica di recupero tutto va salvato perché non esistono piante buone, animali mediocri o razze di uomini cattivi e altre co­stituite da presunti eletti.

Si tratta di preservare nel suo complesso la biodiversità, una ricchezza ambientale e umana che non può e non deve essere consi­derata esclusiva proprietà privata di una ge­nerazione, né va lasciata al capriccio, in balia degli umori o peggio in mano alla gestione manichea dei politici di turno.

Nella ricerca sul campo lo studioso di tra­dizioni popolari sempre più di frequente deve fare i conti con relitti misteriosi di uten­sili e di beni volatili, dai quali la memoria del corretto utilizzo come i profondi significati simbolici sono sfuggiti da tempo e gli enigmi, una volta spariti gli ultimi depositari, diventa­no sempre più numerosi delle certezze.

Tali tentativi di salvaguardia non sono fini a se stessi.

Ignorare il comune retroterra culturale porta inevitabilmente a generare comples­si di inferiorità, sfocia in paure che sovente conducono di volta in volta ad abbracciare atteggiamenti di intolleranza, di aggressività o di vittimismo interessato.

Come è possibile infatti avere la pretesa di giudicare le identità degli altri quando non si conoscono nemmeno le proprie radici?

Le torri campanarie, prima di diventare un monumento al richiamo turistico, quan­do ancora gli odierni grattacieli non le ave­vano mortificate, si ergevano al di sopra del­le restanti case, sovrastandole. Esse costitui­vano una presenza autorevole che incuteva riverente timore perché configurava lo spiri­to, il genius loci degli abitanti che le avevano laboriosamente volute, erette e difese.

C’è stato un tempo in cui l’invito ad “andà a scùndes apùs al campanil” (nascondersi dietro il campanile) non era solo un modo di dire.

Tuttavia nell’immaginario collettivo se sappiamo prestare attenzione alla loro voce e ci soffermiamo ad ammirarne l’armonica verticalità dei campanili li sentiamo ancora esercitare il fascinoso compito di vigili sen­tinelle, di pastori paterni dei beni materia­li, messaggeri spirituali a cui un tempo sono stati demandati.

Erano e permangono, nonostante l’indif­ferenza odierna, gli ideali difensori della co­munità e dei suoi valori più cari; così, in ogni tempo, sono stati declamati dai poeti dialet­tali16, immortalati nei quadri dei pittori e accuratamente descritti nei racconti dai croni­sti locali.

 

1 Comment

  • Claudio Antonelli 23 Luglio 2022

    Mondialismo e differenzialismo
    Per una sana xenofobia

    La frenesia dell’omologazione globale di popoli e civiltà che anima i nostri buonisti, con l’abbattimento delle frontiere e con l’apertura al Diverso, incarnazione del bene assoluto – in Italia si batte ogni record in questa duplice operazione di autodenigrazione e di esterofilia – è basata su un’idea falsa dell’essere umano considerato interscambiabile e inoltre malleabile e ristrutturabile in funzione di un mondo senza frontiere e senza radici.
    Nel 1971 Claude Lévi-Strauss, nel corso della conferenza intitolata “Razza e cultura”, tenuta all’UNESCO, osò dire che vi era differenza tra razzismo e xenofobia. Spiegherà in seguito così la sua presa di posizione, allora tanto criticata: “Reagii contro la tendenza che consiste nel banalizzare la nozione del razzismo – dottrina falsa ma precisa – e che consiste altresì nel denunciare come razzisti l’attaccamento a determinati valori e la non predilezione per altri valori (atteggiamenti scusabili o biasimevoli, ma profondamente radicati nelle comunità umane)”.
    Secondo Lévi-Strauss “l’umanità ha saputo trovare la sua originalità solo in un certo equilibrio tra isolamento e comunicazione. Era necessario che le culture comunicassero, altrimenti si sarebbero sclerotizzate. Tuttavia, non dovevano comunicare troppo rapidamente per darsi il tempo di assimilare, di far proprio quello che attingevano all’esterno. La scommessa è che, secondo me, questo continuerà”. Egli previde che “man mano che vedremo l’umanità omogeneizzarsi, al suo interno si creeranno nuove differenze”. E indicò nella proliferazione delle sette in California e nella “crescente difficoltà di comunicazione tra le generazioni” i primi sintomi di questo fenomeno.
    Scrisse inoltre che “L’etnologo esita a credere, benché vi si senta spinto da ogni dove, che la diffusione del sapere e lo sviluppo della comunicazione tra gli uomini riusciranno un giorno a farli vivere in buona armonia, nell’accettazione e nel rispetto della loro diversità”.

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