11 Aprile 2024
Democrazia Liberopensiero

Gian, Sergio e il capitano – Fabio Calabrese

Anni fa ho pubblicato sulle pagine di “Ereticamente” un paio di articoli dedicati a Joe e il capitano e Antigone e il capitano. Il capitano di cui parlavo era Eric Priebke, all’epoca (eravamo nel 2013) sotto processo per i presunti crimini commessi durante il secondo conflitto mondiale. Una vicenda umana e giudiziaria che ha avuto un che di grottesco: si capisce bene che un semplice capitano non può aver avuto responsabilità importanti nei tragici eventi del conflitto, nelle rappresaglie (addebitate alla parte sconfitta, ma previste dalle leggi di guerra e largamente praticate dai vincitori), nelle deportazioni o altro.

Come ulteriore elemento di riflessione e di approfondimento, vorrei provare ora a rileggere questa vicenda alla luce del pensiero di due grandi intellettuali nostri recentemente scomparsi, Gianantonio Valli e Sergio Gozzoli.

L’aspetto paradossale della vicenda del capitano Priebke, è che nel 1978 Herbert Kappler, superiore di Priebke, comandante delle SS a Roma, ritenuto responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine e detenuto nelle carceri italiane, malato terminale, fu lasciato libero di tornare a concludere la sua esistenza in patria. Si inventò la storia alla quale penso nessuno abbia mai creduto, che la moglie l’avrebbe fatto fuggire contrabbandandolo dentro una valigia.

Ricordo bene che all’epoca questa storia fece scatenare i commenti della stampa satirica. Se l’uomo era stato fatto fuggire dentro una valigia, si disse, allora per rapire Amintore Fanfani, uomo politico dell’epoca, noto e spesso preso in giro per la sua bassa statura, bastava un beauty case.

Il fatto è che le Fosse Ardeatine furono una rappresaglia conseguente all’attentato di via Rasella, rappresaglia attuata in conformità alle leggi di guerra, non solo, ma era chiaro che Kappler, senza trasgredire apertamente gli ordini cercò di attenuare le conseguenze della rappresaglia, scegliendo le vittime tra persone già condannate a morte o alla deportazione, piuttosto che tra civili presi a caso. Anche la democrazia poteva permettersi di quando in quando un atto di generosità, la cosa triste è che dovette mascherarlo con l’invenzione di una storia ridicola.

Il fatto è che all’epoca era ancora disponibile un buon numero di “mostri nazisti” e ci si poteva permettere un occasionale gesto di generosità. Trentacinque anni dopo, per la naturale falcidie dovuta al trascorrere del tempo, tale disponibilità era molto ridotta, e ci si doveva accontentare di quel che restava, come nel caso di Priebke, un capitano che ha avuto la ventura di passare il secolo di vita.

Da dove viene questa esigenza di trovare sempre un “mostro nazista” da gettare in pasto all’opinione pubblica? Noi sappiamo che ci sono leggi che MOLTO DEMOCRATICAMENTE proibiscono di rivedere l’entità dei supposti crimini attribuiti al Terzo Reich, ma esse non possono né nascondere il fatto che quelli compiuti dai vincitori, dalle stragi compiute dall’Armata Rossa nei territori tedeschi occupati, ai bombardamenti terroristici alleati sulle città europee e giapponesi, compresi due olocausti nucleari contro il Giappone già sconfitto, all’eccidio di prigionieri per stenti, fame e percosse, ai massacri di italiani compiuti dai partigiani comunisti sulla sponda orientale dell’Adriatico, agli eccidi e le violenze degli stessi partigiani italiani, nel loro insieme li sorpassano largamente, né che comunque si ponga l’interrogativo se per espiare gli stessi l’Europa debba subire per sempre la sudditanza agli USA in spregio al concetto giuridico fondamentale che la responsabilità penale è sempre ed esclusivamente personale.

Il fatto è che la leggenda olocaustica è divenuta a tutti gli effetti il “mito fondante” dell’ordine instaurato a livello internazionale dopo la seconda guerra mondiale, Holocaustica religio come l’ha definita Gianantonio Valli. Da qui l’esigenza sia di riproporla continuamente in modo ossessivo, sia di colpire i reprobi che osano metterla in discussione, che vorrebbero indagare su di essa come su qualsiasi altro fatto storico.

In questi due articoli (all’inizio si trattava di uno, che ho poi suddiviso per motivi di lunghezza) accostavo la vicenda del capitano Priebke a quella di due altri personaggi; uno, Joe Fallisi, artista, musicista, uomo politicamente impegnato, passato nell’area “nostra” proveniente da un’origine anarchica, mi è sembrato notevole come caso piuttosto raro di un rivoluzionario davvero coerente che ha compreso una cosa fondamentale, che tutto il ribellismo di sinistra è una finzione, qualcosa che rientra pienamente nei piani del “nuovo ordine mondiale” e serve alle sue finalità, un “nuovo ordine” rispetto al quale, pur con le loro mille contraddizioni e i loro errori, i fascismi hanno rappresentato l’unica forza di opposizione autentica nel corso del XX secolo.

Antigone è invece un personaggio del mito e della tragedia greca, protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle che, contravvenendo alle leggi della città, decide di dare sepoltura al corpo del fratello Polinice che si era ribellato in armi contro la città di Tebe, e per questo viene atrocemente punita. Me ne sono servito per introdurre un’altra questione importante: il conflitto fra legge e morale.

Ora, a questo riguardo, io mi sento di dire qualcosa che va decisamente controcorrente rispetto a quelle che sono le tendenze oggi prevalenti che accettano il rispetto delle leggi soltanto se esse si accordano con una visione etica strettamente personale. Se la tragedia di Sofocle ci fa capire che il conflitto fra morale personale e legge in una certa misura è sempre esistito, la completa riduzione dell’etica a fattori e scelte soggettive è l’effetto ultimo di un veleno dissolutore introdotto nella nostra cultura dal cristianesimo per cui “la morale” è semplicemente (ciò che si presume sia) “la volontà di Dio” senza riguardo al fatto che l’etica dovrebbe riguardare in primo luogo i rapporti dell’uomo con la comunità di cui fa parte. Questa è tipica mentalità abramitica, ed è un puro caso se si ritiene che “Dio vuole” che ci comportiamo bene, basta immaginare che “Dio” ci prescriva la persecuzione e lo sterminio degli “infedeli” e avremo sia l’inquisizione sia il fondamentalismo islamico.

Noi oggi risentiamo di un totale soggettivismo etico per il quale l’individuo si ritiene legittimato a disapplicare le leggi della comunità e i doveri imposti dalla convivenza civile se non collimano con la sua personale idea di morale, per tutte si veda ad esempio la vexata questio dell’obiezione di coscienza al servizio militare, fin quando quest’istituzione è esistita.

Tuttavia un atteggiamento specularmente opposto di adesione supina a tutto ciò che è deciso “in alto” porta del pari a conseguenze assurde. Ricordo parecchi anni fa, quando in attesa di vincere un concorso nel mondo della scuola, mi ero dedicato ai concorsi nel pubblico impiego ministeriale, dove occorreva farsi una preparazione giuridica, studiare i codici e la giurisprudenza. Mi rimase impresso il commento di un tale commentatore giuridico che spiegava che a suo parere non ci potevano essere leggi ingiuste, perché è la legge a stabilire ciò che è giusto o ingiusto.

Un tale atteggiamento, lo si comprende bene, porta al più vieto conformismo, all’adorazione feticistica di qualsiasi pezzo di carta scritta che abbia “valore legale”. E allora, dov’è il discrimine, il criterio per stabilire a quali leggi e a quali autorità si debba ubbidire e a quali ci si possa (o debba) ribellare?

Qui ci soccorre – letteralmente – un bel brano di Sergio Gozzoli che si trova inserito nel suo saggio L’incolmabile fossato, dove si contrappone la concezione organica dello stato e della legge come espressioni formali di una realtà nazionale, di una comunità congiunta da legami di sangue, cultura e storia, all’astrattezza formalistica che domina nelle società multietniche di cui gli Stati Uniti sono il prototipo, e che oggi si sta esportando in tutto il mondo, complice anche il venir meno della compattezza etnica delle nazioni europee a causa dei flussi migratori.

“I legami quindi che l’Europeo contrae e stabilisce con la sua comunità — quantomeno quelli più elementarmente esistenziali — sono di tipo naturale: egli accetta con facilità il suo vicino perché gli assomiglia, e ne accetta con naturalezza limiti e difetti perché assomigliano ai suoi; i primi compagni di gioco potrebbero essere suoi fratelli o cugini, e la ragazza che corteggerà non ha una psicologia tanto dissimile da quella di sua sorella.

L’integrazione fra le diverse componenti sociali avviene in genere in modo spontaneo — nella scuola, in chiesa, sulla piazza, al bar, in treno, allo stadio, nell’esercito — senza conoscere grossi steccati o resistenze, se non quelli posti dalla fisiologica dialettica della vita consociata presso qualsiasi popolo da che mondo è mondo. Le inclinazioni, gli interessi, le passioni, gli usi, le mode sono comuni, o largamente condivisi.

Questa sostanziale omogeneità, questa naturalezza di integrazione, questa comunanza di caratteri e di abitudini che fin dall’infanzia l’Europeo trova nella sua vita di relazione, e che generalmente esprimono le inclinazioni sue e delle generazioni che lo hanno preceduto — naturalmente simili — fanno sì che egli, più o meno consciamente, abbia della società una concezione «organica», quasi naturalistica. Potrà anche sentire estraneo e ostile lo Stato — e tanto più quanto più lo Stato, nel farsi complesso e astratto, si allontana da questa organicità sociobiologica — ma il legame con la sua comunità « naturale », famiglia, campanile, popolo, è fortemente avvertito e vissuto, non solo nelle campagne e in provincia, ma a tutt’oggi anche nella maggior parte delle città della vecchia Europa. (…).

In qualsiasi Paese del mondo, fino a non molto tempo fa, la vita sociale era fondata assai più su tradizioni che su leggi scritte: l’educazione, il reciproco rispetto, i rapporti fra i sessi e fra le generazioni, la dignità personale ed il generale civismo dipendevano assai più dal costume che dal dettato legale. Anzi, in quegli ambiti della umana convivenza che più propriamente attengono al livello di civiltà di un popolo, si poteva affermare che era il costume che produceva la legge”.

In uno stato normale, la nazione, la comunità umana, caratterizzata in senso etnico, biologico, culturale e storico, dovrebbe essere la sostanza e lo stato la forma, così come le leggi dovrebbero essere l’espressione formale di un costume interiorizzato e sentito.

Quella che nell’Occidente a egemonia americana si chiama democrazia, è precisamente la negazione di tutto ciò. Quella che si fa chiamare democrazia, in realtà non ha nulla a che fare con i concetti di sovranità popolare, diritti e libertà, ma identifica i regimi che sono proconsolati USA installati in Europa o altrove come conseguenza della sconfitta nella seconda guerra mondiale.

Lo scopo della politica statunitense, o meglio di chi muove i fili da dietro le quinte della politica USA e dell’intera scena mondiale, è l’imbastardimento etnico, il creare dovunque una società di sradicati senza identità, di cui gli arricchiti parassiti del grande capitale internazionale potranno fare a loro piacere quello che vogliono. Ricordiamo ancora una volta le parole di Sergio Viera De Mello, amministratore della NATO in Kosovo:

I popoli razzialmente puri sono un concetto nazista. Proprio contro questo concetto hanno combattuto gli alleati nella seconda guerra mondiale … È per lo stesso motivo che la OTAN/NATO ha combattuto in Kosovo … per impedire l’insorgere di un sistema di purezza etnica”.

In teoria, in una situazione di normalità, lo stato dovrebbe essere la forma giuridica della nazione, il contenitore rispetto al quale la nazione intesa come realtà etnica è il contenuto. Del pari è evidente che le democrazie sono largamente al disotto di quel minimo che dà legittimità allo stato, esse non si curano minimamente o negano esplicitamente tutto ciò, vassallaggi ed emanazioni del potere mondialista che si esprime sull’Europa attraverso l’egemonia americana, hanno precisamente lo scopo di dissolvere i popoli a esse assoggettati nel caos multietnico.

La ribellione contro le democrazie è sempre legittima e molto spesso doverosa, esattamente come valeva per i sistemi marxisti che hanno cercato di imporre l’omologazione etnica e la distruzione delle etnie e delle culture con metodi più brutali, anche se questi ultimi si sono dimostrati meno efficaci della morte “soft” cui la democrazia “made in USA” condanna i popoli, e in ultima analisi si sono rivelati un fallimento.

Oggi come oggi non è nemmeno il caso di parlare di opposizione, termine che presuppone un ruolo istituzionalizzato del dissenso, ma piuttosto di dissidenza esattamente come avveniva nei confronti delle dittature dell’ex impero sovietico. Infatti, è evidente come negli ultimi decenni si siano moltiplicate e si stiano sempre più moltiplicando le leggi che limitano la libertà di espressione, da quelle che vietano di rimettere in discussione il mito olocaustico, a quelle che colpiscono qualsiasi manifestazione di “razzismo” (concetto sul quale ci sarebbe molto da discutere), a quelle che trasformano in reato un semplice saluto a braccio teso o vietano di rendere onore ai propri caduti nel secondo conflitto mondiale. La legittimità attribuita a questi regimi nei quali ai veri dissidenti è sostanzialmente proibito esprimersi, dal carnevale elettorale, specialmente in un’epoca di plagiabilità mediatica, è da ritenersi nulla.

Il punto che dobbiamo avere ben chiaro, è che regimi che tradiscono il primo e fondamentale compito di uno stato, ossia tutelare la nazione di cui dovrebbero essere espressione, di legittimità e di diritto alla lealtà dei “cittadini” (sudditi, in effetti) non ne hanno nessuno.

Se questo vale per le democrazie in generale, vale a maggior ragione per la democrazia italiana, che riconosce il suo atto fondante in uno dei più infami tradimenti della storia, la cosiddetta “resistenza”.

Durante la seconda guerra mondiale e nel tragico periodo 1943-45: quella che è stata chiamata “resistenza” non si è dimostrata altro che tradimento e vergognoso voltagabbanismo: colpire alle spalle l’alleato di ieri e i propri connazionali che ancora resistevano all’invasore per procurarsi benemerenze presso il nemico, perché è estremamente chiaro, al di là dell’inversione orwelliana di significati, che se in Italia in quel tragico periodo c’è stato qualcuno che ha resistito, anche senza speranze e al limite dell’umana possibilità, nel contrastare i nemici che invadevamo la nostra terra, sono stati proprio e solo i ragazzi della RSI.

Il principio fondamentale da opporre al cosmopolitismo cristiano-illuminista-marxista è dunque il radicamento nell’identità etnica e storica. Questo radicamento che in circostanze normali dovrebbe essere qualcosa di naturale e ovvio, oggi richiede di essere il frutto di una scelta consapevole, perché le potenze planetarie che settant’anni fa hanno scatenato la più sanguinosa guerra della storia umana, e stritolato l’Europa, hanno agito per distruggere questo radicamento nell’identità, dovunque e per sempre, per creare le basi di una società mondialista di sradicati, e qui torna non solo utile, ma fondamentale la lezione di Gianantonio Valli. Una lezione che Mario Consoli, già direttore della rivista “L’uomo libero”, nel fascicolo n. 81 di questa pubblicazione, dedicato appunto a ricordare la figura umana e intellettuale di Valli, ha ben sintetizzato:

Il potere finanziario internazionale – quello che oggi dirige tutto, condiziona governi, cultura e informazione, dirige economie e produzioni – nei secoli della sua implacabile scalata si è comprato tutto e tutti (…).

Tutti in vendita tranne i fascismi, che avevano intuito l’essenza dell’era che il mondo stava vivendo: l’assalto finale dei Signori del denaro al potere e la realizzazione di un governo mondialista.

A favorire il regno di usura una consistente parte d’Europa si era resa indisponibile. E allora, contro chi aveva l’ardire di cantare “Contro Giuda, contro l’oro, sarà il sangue a far la storia”, si scatenò la guerra. Un immane conflitto dove nulla fu risparmiato per battere chi aveva osato mettersi di traverso ad ostacolare il predominio e i progetti delle demoplutocrazie.

(…).

Comprendere ciò che in effetti fu la vera causa del Secondo Conflitto Mondiale rappresenta l’unica chiave di lettura capace di chiarire sia gli avvenimenti precedenti che quelli successivi (…).

L’aver “compreso fino in fondo” è stato un privilegio per pochi e anche oggi nonostante il “senno di poi”, non siamo in molti ad aver raggiunto una soddisfacente consapevolezza storica; ad avere in tasca quella “chiave magica”.

Una chiave magica che ci permette di comprendere il reale senso delle tragedie del passato, ma soprattutto ci apre uno squarcio sul futuro, sulle prove che ci attendono per salvaguardare l’avvenire della nostra gente, per impedire che la nostra identità venga travolta nel marasma multietnico.

 

 

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