12 Aprile 2024
Esoterismo

Fiammetta Iovine – Gli Argonauti a Roma. Alchimia, Ermetismo… – Riflessioni a cura di Ignis Rumon

Maria Fiammetta Iovine, Gli Argonauti a Roma. Alchimia, Ermetismo e storia inedita del Seicento nei Dialoghi Eruditi di Giuseppe Giusto Guaccimanni, La Lepre 2014, pp. 207.

Opera meritevole di particolare attenzione, nonché di lettura piana e piuttosto agevole (cosa che non guasta mai in un mondo che sembra proprio non poter fare a meno della verbositas), l’ultima impresa libraria di Maria Fiammetta Iovine, libera ricercatrice nelle latebre dell’Arte di Ermete e già autrice del bel romanzo La Bugia dell’Alchimista (La Lepre, 2013), sotto lo pseudonimo di Jason d’Argot. “Libera ricercatrice” d’altronde, e teniamo a dirlo, non è farina del nostro sacco, bensì espressione che ricaviamo dalla quarta di copertina, e che certo meglio di altre si attaglia a quanti cerchino il filo di Arianna in questo labirinto.

Abbiamo parlato di impresa, di labor: ermeticamente, com’è noto, post laborem scientia e di scienza, in queste pagine dedicate all’Ars Regia, se ne trova a manciate. Prima di ogni cosa chiariamo che non si tratta dell’ennesimo, pur apprezzabile e minuziosamente confezionato, contributo sulla storia dell’Ermetismo e dell’Alchimia in un contesto storico-geografico (la Roma del XVII secolo) dai sentieri ampiamente battuti in letteratura, anche in virtù del vero e proprio profluvio di figure singolari, e per certi versi eccezionali, che vi si è riversato seguendo le vie carsiche del dispiegarsi del Sacro in un Occidente in apparenza avviato da tempo sulla via della desacralizzazione e di un graduale sfaldamento della propria tenuta interiore. Molte di queste figure (il Borri, il Palombara, il Santinelli, la regina Cristina di Svezia et al.) fanno la loro comparsa anche tra le pagine di questo libro; ma, di alcune, l’Autrice cerca di lumeggiare zone d’ombra, mettendone in rilievo l’appartenenza – o se non altro la contiguità – a circoli ed ambienti della Città Eterna finora poco approfonditi.

Ci riferiamo, nello specifico, all’Accademia degli Umoristi, alla cui storia è largamente dedicato lo studio della Iovine, che nelle sue ricerche si è imbattuta in un’opera – a giudicare dagli estratti ivi pubblicati – di importanza tutt’altro che marginale: i Dialoghi Eruditi di Giuseppe Giusti Guaccimanni, accademico Umorista, nonché alchimista protetto di Cristina di Svezia e verosimilmente in contatto col marchese Massimiliano Palombara, sommo ingegno universalmente noto quale artefice della Porta Magica originariamente posta ad ornamento della sua villa ad Trophaea Marii, sull’Esquilino. L’opera, nella versione Fiammetta 2utilizzata ai fini della stesura dello studio in parola, è un manoscritto che consta di quattro tomi conservati presso la Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele II” di Roma e si presenta come un documento di straordinario interesse. In un caleidoscopio vorticoso di personalità, talora più o meno ignote, l’Autrice conduce il lettore nei meandri di una Roma papale eccezionalmente attiva, in pieno fermento culturale, dove le Accademie e i circoli privati, senza posa, danno vita a idee, suggestioni, raffigurazioni sceniche e opere letterarie, dibattiti sulle materie più disparate, polemiche e – perché no? – risse e duelli, che spesso tendono a incrociarsi, a mescolarsi in un crogiuolo umano che già solo per questo mostra in filigrana il volto sfuggente del dio alipede che attraversa e mette in comunicazione tra loro mondi, piani, stati dell’Essere.

Nel rinviare il lettore ai profili di dettaglio di una storia in cui si intrecciano vette spirituali e – sia consentito dirlo senza velleità denigratorie – umanissime passioni, sia pur filtrate attraverso il setaccio del fine superiore (si pensi ai progetti ed alle attività politici che videro coinvolti molti dei suoi protagonisti, su cui cfr. infra), in questa sede ci limiteremo, giocoforza, a porne in risalto gli aspetti di maggiore importanza.

In primo luogo, dalla lettura degli estratti dei Dialoghi resi pubblici risalta il ruolo “catalizzatore” svolto dall’Accademia degli Umoristi (che si riuniva presso Palazzo Mancini, in via del Corso) per interessi alchemici dissimulati sotto la divisa della ricerca scientifica e del cimento poetico e teatrale. Fin qui, nulla di originale rispetto ad altre più blasonate Accademie dell’epoca; se non fosse che quella dei Belli Humori, probabilmente fondata il 7 febbraio 1600 (dieci giorni prima dell’arsione di Giordano Bruno in Campo de’ Fiori) e con cui era in contatto anche il Tasso – che nelle ermetiche faccende s’immischiava non poco, come testimoniano alcuni sonetti composti per la padovana e gonzaghiana Accademia degli Heterei, ai cui voli letterari prese parte col nome di Pentito – si palesa quasi crocevia privilegiato dell’incontro tra alcuni dei massimi cultori dell’Arte, tanto che l’Autrice del saggio in esame ipotizza persino un’organizzazione per ordini, quasi cerchi concentrici, “forse secondo il grado di accesso alle conoscenze ermetiche” (p. 46).

Tale aspetto non è privo di collegamento con la “profezia” del Guaccimanni, che nell’opera vaticina l’approssimarsi del Secol d’oro retto da chi, come lui e gli altri Accademici Romani, sentiva scorrere nelle proprie vene il sangue nobile della Roma di Persio, Lucano e Valerio Flacco (che “furono Cavaglieri, e per Natali illustri, e per attioni famosi”). È una romanitas “metafisica”, sub specie interioritatis, quella celebrata dal Nostro, “intimamente allacciata all’impresa eroica del conseguimento della pietra filosofale” (p. 16), come testimoniato, fra l’altro, dalla lettura tutta alchemica dell’impresa di Enea svolta nel Dialogo XXXII, in cui il ramo d’oro è accostato a una precisa fase dell’Opera, vale a dire il conseguimento “di quel salgemma calcinato che consente – analogamente a quanto accade con la catabasi di Enea – di visitare gli interiora Terrae (p. 46).

Notevole la concezione dello Spirito divino (il Ruach Elohim della Porta Magica) quale Luce sottilissima che dalla materia, prima massa confusa, “fu sollevata, e compose questo, e quel cielo, e questo, e quel Pianeta” (così si esprime Giovanni Ciampoli, allievo di Galileo, nel Dialogo VII). È, questa Luce, la forza che plasma gli esseri, nelle parole di Maria Fiammetta Iovine, “al ritmo di poetiche e matematiche corrispondenze” (p. 57). Non è aliena ai nostri Accademici una visione democritea, esposta nel Dialogo XII per bocca dell’erudito Johannes Scheffer (autore del De natura et constitutione philosophiae italicae seu Pythagoricae) ed approvata da quell’autentico nume tutelare della Roma ermetica che fu la regina Cristina sua connazionale, per cui “Il Moto dunque caggionò la luce. Ch’era ascosta nella privazione del moto cioè nella materia oziosa, rude, indigesta, tenebrosa […] la benedizione divina fece architettonico questo moto, lo fece dispositore, conservatore, fabricatore, e compartivamente inteso ancor destruttor del tutto” (come non cogliere, qui, certe nuances – apparentemente – orientali…). Ancora, in difesa dell’Atomo: “e però non si possono sentire quegli sciocchi, i quali sentendo dir Atomi, e moto vogliono porre in riga d’Atei tutti quelli che filosofarono sul moto, o su le particole […] Del resto ogniuno sa che questo moto non è il Caso, ma chiamasi il Moto nella materia” (pagg. 107 e ss.), ennesima dimostrazione di come alla corte di Ermete ogni filosofia, ogni sistema possa trovare cittadinanza, purché radicato nei fondamenti della Scienza. È così che possiamo guardare con occhi diversi agli atomi di Democrito, al piacere di Epicuro, alla Natura secondo Lucrezio, all’acqua nella speculazione di Talete, e persino al logos secondo Socrate e il suo metodo, spesso frainteso e ricacciato a forza dietro le sbarre del razionalismo e del dualismo tautologico (e la maieutica, allora, questa ars Maiae?).

Ciò è possibile solo in virtù della luce di Ermete, la cui Tavola, come accoratamente nel Dialogo XI perora Boyle facendo eco al padre Kircher, “è l’unico Oracolo ch’è rimasto a noi della Dottrina dello Spirito Santo”: e se non è una professione di fede e di Scienza questa, chissà cosa lo è. Ed è altresì l’ennesima testimonianza dell’“alchemicità” degli Umoristi, che troverà definitivo suggello nell’erezione su Monte Mario della Colonna d’Ermete (Dialoghi XII e XV), su cui la Regina farà inscrivere il Catalogo degli Argonauti, dietro i cui nomi si celano non pochi Umoristi. (*)

In questa storia intrisa di sali e zolfi non manca, come accennato, il pepe della politica. Forse una sirena, come tante troppe ‘politiche’ nella storia; e tuttavia nobilitata ed esaltata dai lumi delle migliori utopie ermetiche, che animavano molti dei protagonisti di queste vicende (anche sotto tale aspetto figli del Trismegisto fondatore della Città perfetta, secondo un modello che ispirò, tra gli altri, quel Tommaso Campanella cui la politica ermetica fu tutt’altro che estranea). Ecco quindi che, in tal senso, il Guaccimanni “guarda all’unificazione dell’Europa cattolica sotto l’aquila asburgica dell’Imperatore dei Romani come a una restauratio imperii tutta intrisa di classicità” (p. 16), in ciò seguendo il sogno di quanti, tra i filii Hermetis, vedevano in Leopoldo I, vincitore dei Turchi a Vienna nel 1693 e a Zenta nel 1697 (battaglia, quest’ultima, che consacrò il genio militare di Eugenio di Savoia) e protettore di numerosi alchimisti, il più strenuo difensore dei principi della tradizione che li ispirava. Torto o ragione che avesse, la sua era voce che si amalgamava al coro di non pochi ermetisti i cui fuochi, in quel tempo, si levavano dai forni di mezza Europa, dando così la misura di quanto tali sentimenti fossero diffusi (“Ancor io se fussi in Roma – dichiara Leone Allacci nel Dialogo V – fuggirei a Vienna per non essere osservato e mi contentarei di ciò che si cimentano i Filosofi cioè della sola speculazione”).

Ma non alla sola teoria ed a vaghe speranze si affidarono i protagonisti dell’Urbe ermetica. Noto, infatti, è il tentativo (appoggiato dalla Francia del Mazzarino) di Cristina di Svezia di collocare sul proprio capo la corona di Napoli, allora in mano spagnola: progetto miseramente naufragato, che vide il coinvolgimento (con tanto di arresto e rocambolesca fuga) dello stesso Palombara e di mezza Accademia degli Umoristi, ciò che, in Appendice al testo, consente alla Iovine di formulare la più che suggestiva ipotesi di un piano voluto e nato proprio in seno all’Accademia stessa.

Si potrebbe scrivere molto altro, ma i limiti del buon senso non consentono di straripare dagli argini propri a una recensione. Rinviamo, pertanto, alla lettura ponderata del libro di una giovane e promettente ricercatrice che, come il Guaccimanni da lei offerto al pubblico, forse un po’ ha voluto coi suoi stessi occhi “veder passare in istoria la favola del Secol d’Oro”.

* A margine, rileviamo con interesse che nel quattordicesimo Dialogo il Guaccimanni, per bocca di Elidauro di Bunchaussen (Giuseppe Giusto Scaligero, commentatore degli Astronomica di Manilio), garbatamente e quasi in sordina tesse le lodi dell’Ortolano, alchimista secentesco autore di un breve e densissimo commento alla Tabula Smaragdina, recentemente ripubblicato dalle benemerite edizioni Edit@ di Taranto nel volumetto Ermete svelato. Commenti alla Tavola di Smeraldo dell’Ermete Trismegisto, a cura di Luca Valentini (2014).

 

 

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