12 Aprile 2024
Attualità Frontiere

Elogio dei confini – Roberto Pecchioli

Il mondo ha bisogno di confini, l’uomo ha bisogno di confini, così come l’animo nobile aspira ad un ordine ed a una legge (Goethe). Sono affermazioni sorprendenti, oggi forse impopolari, ma forse no, certo politicamente scorrettissime.

Tentiamo allora di pronunciare, motivandolo, un convinto elogio dei confini, e dei suoi parenti prossimi, i limiti.

Troppe idee sciocche incantano l’Occidente. Alcune intossicano le menti, altre accecano, talune imprigionano dolcemente in una tela di luoghi comuni, falsi idoli, utopie credute per sovrabbondanza di banditori.

“Immagina che non ci siano Paesi/ non è difficile/. Niente per cui uccidere e morire/ e nessuna religione./ Immagina che tutti / vivano la loro vita in pace. / Puoi dire che sono un sognatore./ Immagina tutta la gente/ condividere il mondo intero.

Sono strofe di Imagine, il celeberrimo brano di John Lennon del 1971, accattivante sintesi e manifesto della lenta agonia di questa nostra civiltà, prigioniera della sua grottesca coscienza infelice.

Anche di sogni ha bisogno l’umanità, ma, in genere, dopo ci si desta. Invece, il sonno – od il sogno – della ragione – genera mostri, come capì, in un suo quadro febbrile e quasi delirante, Francisco Goya. Da utopia per anime belle (ma poi belle perché, caro Schiller che hai inventato l’espressione?) il miraggio di fata Morgana si è trasformato in programma politico, e, il passo è breve, è divenuto incubo.

In sintesi, l’idea è questa: l’umanità va male, andrà meglio senza frontiere. Del resto, già Gustave Flaubert affermò, nel prezioso Dizionario dei luoghi comuni, che la democrazia ci precipita in un mondo senza fuori né dentro.

Una bolla di gas venefici. Soluzione, basta confini, aboliamo le frontiere, ordiniamo agli ingegneri di costruire ponti, uno ogni tot metri, e poi passatoie, cavalcavia, tunnel, qualunque manufatto che scavalchi, oltrepassi.

E’ un tempo che abbatte, anche quando edifica muri sempre nuovi. E poi, aprire finestre, distruggere le casematte dei doganieri, abolire, armarsi di virtuose cesoie che recidano tutto quel che ingombra il cammino.

Già ce lo impone l’iconografia delle euro banconote: dai 5 ai 500 euro (per chi li ha visti…) ci sono sempre ponti e finestre, nei vari stili architettonici della nostra storia. Nessun palazzo, o cattedrale, o uomo illustre, né Omero né Leonardo, e neppure, a lode dell’etica del mercante, frate Luca Pacioli, inventore della partita doppia, o Francesco Datini pratese, che escogitò la cambiale.

Anche l’ultima autorità spirituale rimasta, molto screditata, il Papa di Roma, invita, esorta, diremmo ordina, se egli potesse ancora ordinare alcunché al popolo miscredente, di edificare ponti.

Sul ponte di Bassano, noi ci darem la mano, cantavano gli Alpini. Fuori corso anche loro, moneta scaduta, difendevano le patrie frontiere, in altri tempi definite sacre, i monti che chiamavamo, antiquati, confini naturali.

Ora basta. Ci sono I Medici Senza Frontiere, come gli omonimi giochi di qualche anno fa, in cui gli arbitri erano svizzeri, neutrali per definizione.

E tutti i membri della iperclasse, come la definì Christopher Lasch, quelli che comandano ed hanno i soldi, esibiscono il loro bel distintivo “senza frontiere”. Hanno un posto al sole, per famiglia, appartenenza, per cooptazione da parte del potere, talora persino per merito, sono giornalisti, banchieri, avvocati d’affari, intellettuali a tassametro, economisti, ma anche sportivi professionisti, nani e ballerine del mondo dello spettacolo, tutti fieri cittadini del mondo. Cioè del nulla. Forse nascerà anche un’associazione di Doganieri Senza Frontiere, come, sembra, esista in Inghilterra un club di preti anglicani atei.

Noi qui, bastian contrari per convinzione, o forse per malattia cronica, fondiamo il Partito del Confine. C’è n’è bisogno, e probabilmente avrà più iscritti di quanti se ne possa immaginare.

Il concetto di confine è vecchio quanto l’uomo: di confini abbiamo bisogno anche per organizzare, circoscrivere il nostro stesso pensiero. E’ uno dei concetti chiave per padroneggiare la realtà. La parola deriva dal latino: cum finis, un limite comune, una linea, reale o immaginaria che separa spazi contigui. Nasce, concettualmente, per separare in maniera pacifica due proprietà. Netto, il confine non ammette ambiguità: si è di qua o di là. I transiti sono regolati dalla legge, e chi oltrepassa la linea infrange una norma. Tutto è chiaro, confine è la linea lungo la quale corre una divisione, una discontinuità; ma è anche una linea di contatto. Infatti, separa, ma anche unisce. E’ una curva immateriale, la concrezione della superficie controllata da un soggetto, persona fisica o giuridica, distinta da quella posseduta da altri.

Lo stesso codice civile italiano, agli articoli 880 e successivi, regola l’idea di confine per fondi, terreni, immobili appartenenti a proprietari diversi. I Romani utilizzavano il vocabolo terminus per descrivere i segnali delle linee confinarie – cippi, pietre, pali – da cui il nostro termine, mentre limes era utilizzato per indicare un confine fortificato, ed ecco il significato profondo del nostro “limite”, ovvero l’estremo, specie morale o spirituale, di comportamenti o attitudini.

Non di rado i confini seguono la geografia, la cresta di una montagna o di una catena, la riva di un fiume, e li chiamiamo naturali, ma in ogni caso è l’uomo, con una firma sotto un trattato od una legge, a rendere confine quel monte o quel fiume. In taluni casi si seguono altre logiche, di tipo storico o etnico. Il tortuoso confine tra l’Italia e la Svizzera ticinese, in molti punti segue l’antica linea delle competenze tra le parrocchie e delle proprietà delle pievi.

Gli animali, anch’essi territoriali, rendono proprio un angolo di natura seminando tracce olfattive o uditive, una demarcazione mobile e spesso stagionale, ma l’uomo, animale politico, ha bisogno di istituire, fondare. Noi piantiamo cippi, esponiamo bandiere, innalziamo emblemi: siamo esseri ansiosi e simbolici, bisognosi di rappresentare, oggettivare le nostre stesse identità.

Diversa è l’idea di frontiera, che non è affatto sinonimo di confine, ma richiama piuttosto l’idea di trovarsi di fronte a qualcosa, esprime un’idea di mobilità, di costante trasformazione. La frontiera è instabile, rimuovibile, come certi paletti stradali, scopre, colonizza. Fa pensare più ad un’aspirazione che a qualcosa di definitivo, acquisito. Questo è, in particolare, il significato americano del termine: la frontiera, per gli statunitensi, è qualcosa che va raggiunto, oltrepassato e conquistato. Quello fu il senso della corsa all’Ovest nel XIX secolo, della suggestione di John Kennedy nel XX (La nuova frontiera).

Tipico della frontiera è il non definirsi mai del tutto, o, almeno, porre l’asticella sempre un po’ più in là, come la linea dell’orizzonte. Varcare una frontiera significa uscire da uno spazio familiare, conosciuto, rassicurante, ed entrare nel regno dell’incertezza. Anche questo è umano, troppo umano: ma occorre, sempre, porre un limite, immaginare un confine, e tracciarlo nei fatti.

In questo tempo che odia confini e frontiere, paradossalmente, si innalzano muri, si lavora incessantemente ad erigere palizzate, blocchi, spazi delimitati da reti, allarmi, guardie armate fino ai denti. Dunque, se distruggiamo i confini e superiamo le frontiere, costruiamo dei muri. Come comprese un grande intellettuale francese, proveniente dalla sinistra più estrema, come Régis Debray, che fu biografo e compagno di lotta in Bolivia di Che Guevara, il confine è il migliore antidoto al muro, e, significativamente, un suo splendido pamphlet si intitola proprio “Elogio delle frontiere”. Noi preferiamo i confini: più netti, più sicuri, ma ad ogni confine c’è comunque una frontiera.

Il gesto di costituire noi stessi nasce sempre dal separare, segnando un perimetro per noi, che siamo dentro, distinti da tutti gli altri che sono fuori. Romolo traccia un solco, fonda Roma, che distingue dalla terra altrui, e Remo viene ucciso perché viola quel solco. Dio stesso, il Dio dell’Antico Testamento, separa il cielo dalla terra, e la terra dal mare. Nelle descrizioni e nelle prime cartografie romane, ciò che stava oltre lo stretto di Gibilterra si diceva e scriveva “hic sunt leones”, qui stanno i leoni. I greci chiamavano barbari coloro che si esprimevano in una lingua diversa da loro, giudicata un semplice balbettio.muraglia

Un mondo senza confini stabiliti è un’illusione. Due secoli prima dell’era cristiana, l’imperatore Qin Shi Huang unificò la Cina: l’opera che iniziò, completata poi in circa centocinquant’anni, la Grande Muraglia, è ancora lì, con i suoi ottomila e più chilometri, le sue torri, le sue migliaia di posti di guardia, sublime e maledetta, come la definì Lu Xun, il fondatore della lingua cinese moderna. I Romani conquistarono la Britannia, ma si fermarono, a nord, ai confini della Caledonia. Troppo duro contrastare i ferocissimi Pitti, ed eressero il vallo di Adriano, che fa ancor oggi da confine tra l’Inghilterra e la Scozia. Eppure, il Vallo ha porte ed aperture, per consentire il passaggio regolato di uomini e merci. Un confine, dunque, ed una dogana, che i greci istituirono al Pireo per le merci in arrivo, che pagavano un modesto dazio (datium, l’atto del dare), chiamato pentekosté.

Da quando i sogni dei decadenti europei sono diventati leggi improvvide, ai confini cancellati si sostituiscono i muri. Il muro, esso sì, divide in modo irrevocabile, esprime un’inimicizia totale, una incomunicabilità ostile. Filo spinato, decine di chilometri di griglie e sensori a Ceuta e Melilla, enclave spagnole nel Nordafrica, per evitare l’invasione degli africani. Un vero e proprio muro è quello innalzato dagli israeliani dinanzi ai palestinesi, ma quello è l’unico che non può essere criticato, pena la messa all’indice dalla lobby sionista.

In Europa, ingegneri, geometri, capomastri e muratori lavorano alacremente a muri ed inferriate in Serbia, Macedonia ed Ungheria, per difendere popoli che non vogliono essere travolti dall’onda migratoria, suscitata dalla povertà neocoloniale imposta dai padroni del mondo, davanti alla quale l’Europa degli oligarchi non sa assolutamente che fare. Il trattato di Schengen abolisce le frontiere intraeuropee, ma nessuno sa davvero come organizzare le frontiere esterne, comprese quelle marittime. Risultato, una spinta da Sud che non sappiamo contrastare, né siamo certi di volerlo fare, paralizzati da stupidi buonismi, falsa coscienza, disorganizzazione, contrasti interni.

Nelle presenti circostanze, in cui non pochi Stati europei si sono ribellati al principio dei confini aperti, la reazione dei mandarini di Bruxelles sono strilli scomposti e sdegno astratto, di chi vive in una bolla di privilegio e di lontananza dalla realtà.

Peggio: qualcuno si è lagnato dei costi economici della parzialissima chiusura dei confini. Le merci non corrono abbastanza veloci, il denaro e la ragione del profitto restano l’unica unità di misura ammessa.

Negli Stati Uniti, che pure nacquero e vivono di immigrazioni successive, si pensa ad un muro di duemilasettecento chilometri al confine con il Messico; il papa argentino va in collera, ma il fatto è che decine e decine di milioni di messicani e sudamericani vogliono entrare nel finto Eldorado a stelle e strisce.

Brutta cosa, i muri, pensiamo a quello di Berlino, interno alla città, tirato su in tutta fretta nell’agosto 1961 dalla Germania comunista per evitare la fuga di massa della sua popolazione, ma inevitabili, in base al principio di realtà, se non si formano, ed in qualche modo, si amano, dei confini, sicuri, onesti, condivisi.

Roger Scruton ha coniato il termine oicofobia (1) per indicare l’incredibile attitudine delle classi dirigenti occidentali, che esaltano le istituzioni transnazionali a scapito di quelle domestiche, ed accettano supinamente le direttive ed i regolamenti dell’Unione Europea in nome di un universalismo pretesamente illuminato. Oicofobo (oìkos, casa, in greco) è chi disprezza la propria patria e cultura, in genere in nome di chimere internazionaliste. Nel caso degli italiani, il nostro antico provincialismo ci rende dipendenti da una esterofilia da avanspettacolo, alimentata dallo spirito antinazionale che ha unito marxisti, cattolici, ed il bieco partito intellettuale “torinese” di ascendenza gobettiana, quello di Norberto Bobbio, Galante Garrone, e dello stesso Umberto Eco.

Idee universalistiche, peraltro, hanno sempre attraversato la cultura nostra: ricordiamo, oltre all’isola di Utopia di Tommaso Moro, che ha dato il nome al concetto (utopia è “nessun luogo”), la Nuova Atlantide di Francis Bacon e la Città del Sole di Tommaso Campanella. Sempre, si tratta di isole immaginarie, lontane dalla realtà, in qualche misura incontaminate.

Poi, si fa largo la realtà, che ci convince che frontiere e confini siano un elemento naturale dell’uomo, e che conservino la sacralità di uno spazio, così come contengono e rappresentano l’identità collettiva di un intero popolo. Pertanto, di fronte alla stucchevole retorica progressista per cui ciascuno è cittadino del mondo, la frontiera deve tornare ad imporsi come flessibile linea di demarcazione, che non proibisce il passaggio, ma lo vincola a regole e leggi, una delle quali è quella che chi arriva non è a casa propria.

L’ideologia che possiamo chiamare “senzafrontierismo” è una perfetta conclusione del liberalcapitalismo nella sua guerra prometeica a limiti, principi morali, confini materiali. I suoi stolti sostenitori sono in genere i cascami del sinistrismo più cieco, incapace perfino di comprendere da chi sia imposto l’obbligo di essere flessibili, ovvero disposti a cambiare continuamente abitudini, idee, luoghi di lavoro e vita, in nome degli imperativi del mercato misura di tutte le cose.

Fedeli alla linea dei loro nuovi padroni, non solo squalificano gli avversari, ma ne bollano gli argomenti come immorali ed empi, dunque non degni di essere discussi. Negando vivacemente la realtà, essi screditano lo stesso pensiero, in nome di quel “perfettismo” che Augusto Del Noce già considerò la massima follia dell’universo progressista. Joseph Ratzinger, non ancora Benedetto XVI, significativamente chiese ai contemporanei di “riprendere l’amicizia con l’imperfezione dell’umano”.

L’uomo è fatto di legno storto, ma le diversità non sono un difetto di fabbricazione della nostra specie; nel mondo globalizzato, ma non unificato, si insiste a negare la diversità in nome dell’Unico, o dell’identico.

La frontiera, al contrario, è fondamentale per riconoscere l’altro e vederne la pari dignità, favorisce la ricerca dell’equilibrio attraverso la mediazione, inclina al confronto. Frontiere e confini sono luoghi di riconoscimento di noi e dell’altro, di un fuori e di un dentro.

I popoli di frontiera si sono sempre incontrati e parlati: hanno spesso inventato per intendersi lingue franche, che la linguistica ha definito pidgin.

Una frontiera riconosciuta è il miglior vaccino possibile contro l’ epidemia dei muri entro cui si rinchiudono le mille umanità incomunicabili, solitarie ed impaurite.

La miseria mitologica di questa finta Europa, che non esiste, esiste, ahimè, un sistema di oligarchi prepotenti ed un sistema di cambi fissi detto euro, priva di ogni afflato comunitario e sentimentale, è dovuta al fatto che non osa sapere o dichiarare dove essa cominci o dove finisca.

Assenza di un limes, e allora strologhiamo di un’ Unione aperta al Maghreb, alla Turchia, ad Israele. Senza confini dell’anima, della geografia e del senso comune, senza altro valore che il denaro e lo scambio economico.

Dio, la natura, il caso o il Big Bang ci hanno scaraventati su questo piccolo pianeta all’unico scopo di aprire un mercato. A che servono i confini? Eppure, individui, nazioni o federazioni di Stati, chiunque manchi di riconoscere un oltre, non accetta il suo “fuori”. Non tollera neppure l’idea che ci sia qualcosa, fuori. Dunque, ignora il suo “dentro”. Chi vuole andare oltre se stesso, comincia con il definirsi e delimitarsi. L’Europa ha mancato di prendere forma non incarnandosi in nulla, ed ha finito per smarrire l’anima.

L’indecenza della nostra epoca deriva da un deficit di frontiera. Non ci sono più limiti “a” perché non ci sono più limiti “tra”.

In effetti, tutto dipende dall’unico dio scampato all’abolizione: il denaro. Esso (o egli, ormai) si infuria davanti a tutte le barriere, non le tollera, le abbatte con la forza o con la corruzione degli animi.

Ergo, la frontiera è rinascita in quanto ostacolo al denaro, contropotere.

Frontiera è anche scudo degli umili. Sono quelli che non possiedono nulla ad avere interesse ad una demarcazione chiara e precisa. Al loro attivo, hanno solo il territorio, come l’operaio ha solo la forza delle braccia. I ricchi vanno dove vogliono, volando. I poveri vanno dove possono, remando e ansimando.

Il forte è fluido, liquido direbbe Zygmunt Bauman, il debole non ha che il suo ovile, una religione inespugnabile, un dedalo che non può essere occupato, risaie, montagne, delta.

Il predatore detesta i muri, la preda li ama. Occorre liberare la nostra energia identitaria di fronte alla diaspora, respingendo il costume di Arlecchino planetario, ed Arlecchino, infine, era un servo.

Che cos’è dunque, il senzafrontierismo, meticcio per sangue e cultura, globalista e – Dio ci scampi – politicamente corretto? Un economicismo che è legge del più forte. Un tecnicismo che significa standardizzazione, omologazione, controllo. Un assolutismo, infine, che non interiorizza alcun senso del finito, del limite, del discrimine tra il bene ed il male. Un imperialismo totalitario che, significativamente, impone limiti agli altri, mai a se stesso.

Al di qua e al di là di ogni confine, per fortuna, c’è anche qualche amico. Amico, anzitutto, è il cuore dei popoli. Per questo lorsignori chiamano, spregiativamente, populismo l’ amore della propria gente, la richiesta di autodeterminazione che risale dall’anima dei popoli. Amico dunque il populismo, e amico anche qualche leader del nostro tempo. Pensiamo a Viktor Orban, alla sua Ungheria che ha cacciato il Fondo Monetario Internazionale, che sta emettendo moneta propria ed ha posto la Costituzione nel nome del diritto naturale e di Santo Stefano, evangelizzatore e fondatore della nazione magiara.

Altri sono Vladimir Putin, con la sua Russia tornata nel solco della sua tradizione ortodossa, euroasiatica, potenza di terra nel centro dell’heartland continentale cuore del mondo, secondo la geopolitica di Mackinder ed Haushofer, e, per molti aspetti, amici alcuni nuovi statisti sudamericani, armati di un profondo patriottismo “sociale” che respinge la dominazione dell’ingombrante vicino a stelle e strisce, e perfino lo sciismo persiano depurato dai fanatismi.

Il bisogno di radici è stato acutamente analizzato da Simone Weil (2), e l’attuale attacco ad appartenenze, comunanza di pensieri e sentimenti, stabilità personali, economiche, politiche, sentimentali, è quanto di più disumano abbia inventato l’ideologia liberale senza confini.

Oso affermare ancora di più: le nazioni non sono definite solo dalla stirpe, dalla lingua o dalla religione, ma innanzitutto da una terra natale. La fedeltà alla patria è fondata sull’amore per un luogo, per le usanze e per le tradizioni che sono iscritte nel paesaggio e sul desiderio di proteggere quelle cose, per noi bellissime, attraverso leggi comuni e una comune fedeltà.

E’ quel che si trova nell’arte e nella letteratura di una nazione che si sia definita come tale. Nella musica di Grieg si “sente” la Norvegia, come gli impressionisti “sono” la Francia ed il Manzoni dei Promessi Sposi è intimamente italiano.  “Ciò che avete ereditato dai vostri antenati/guadagnatevelo, in modo da poterlo indossare.” (3)

 

Il confine, il limes, si costituisce solo allorché una popolazione si riconosce popolo e definisce se stessa territorialmente, ed è sempre un atto di amore che separa, definendo un perimetro. Il dramma storico delle popolazioni balcaniche, e degli stessi italiani d’Istria e Dalmazia, è proprio nella difficoltà estrema, spesso nell’impossibilità di stabilire dei confini tra genti diverse, non disposte a condividere lo stesso territorio. Emblematico, al proposito, è il romanzo del bosniaco Ivo Andric, Il Ponte sulla Drina, del 1945, in cui si narrano, lungo oltre quattro secoli, le vicende drammatiche di popoli divisi tra due imperi e visioni del mondo, quello ottomano e quello asburgico, che si incontrano e scontrano nella cittadina di Visegrad, il cui ponte diventa il luogo simbolo di frontiere dello spirito.

 

L’errore del nazionalismo europeo di stampo ottocentesco fu, semmai, la mitizzazione dell’idea di nazione, la sua riduzione a materia, che è un portato del principio giacobino rivoluzionario. Fu con il linguaggio di un nazionalismo naturalista che l’Abate Sieyès dichiarò gli intenti della rivoluzione francese: “La nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge(…) comunque una nazione voglia, è sufficiente che essa voglia; tutte le forme sono buone e il suo volere è sempre legge suprema” (4). Jean Jacques Rousseau più l’incorruttibile Robespierre.

Nulla di diverso, in fondo, rispetto alla falsa coscienza del cittadino del mondo, opposti estremismi, uno dei quali genera i muri e l’altro l’indistinzione o l’invasione straniera.

 

La voce intellettuale che viene in genere citata dai difensori del governo mondiale e di quello che abbiamo definito governo mondiale è sempre quella di Immanuel Kant, e la sua opera minore “Per la pace perpetua”. Il pensatore di Koenigsberg fu il primo ad ipotizzare una lega delle nazioni in grado di scongiurare, attraverso l’estensione del diritto delle genti, le guerre. Tuttavia, egli non immaginò lontanamente un mondo senza nazioni e confini, ma presuppose “l’esistenza di molti Stati indipendenti separati, in unione federale per prevenire l’insorgere di ostilità” (5). Proseguì anzi dichiarandosi contrario ad “un amalgamarsi delle singole nazioni sotto un potere unico” (6).

 

Il mondialismo, anche attraverso la diffusione dell’ideologia dei diritti umani e dell’universalismo, punta invece a quello che dichiarò, fin dal 1950, il banchiere Warburg, membro di una delle quattro/cinque famiglie più potenti e ricche dal mondo, ispiratore del Council for Foreign Relations, (CFR), il sinedrio riservato dei potentissimi che indirizzano la politica degli Strati Uniti, dunque del mondo. ‘Avremo un governo mondiale, che vi piaccia o no. La sola questione che si pone è di sapere se questo governo mondiale sarà stabilito col consenso o con la forza “.

Da allora, le idee della grande oligarchia hanno fatto molta strada, purtroppo, e le parole di Warburg, e quelle successive di David Rockefeller “Io e la mia famiglia siamo accusati di volere sviluppare una struttura socio-economica e politica il cui fine è controllare il mondo. Se questa è l’accusa, mi dichiaro reo confesso.” (7) dovrebbero far riflettere le anime belle progressiste, sempre in prima linea nella distruzione di qualsiasi principio o valore, sui veri artefici e beneficiari delle idee che stanno disfacendo con moto sempre più accelerato la civilizzazione che fu la nostra.

 

Il progetto, di lungo periodo, ha nell’Unione Europea uno dei suoi punti di forza ed i suoi architetti – o gran maestri – sono stati sempre consapevoli che l’autorità – loro lo chiamano l’acquis– comunitario può guadagnare terreno solo estromettendo a tappe successive le giurisdizioni degli Stati nazionali. Una di queste riguarda i confini, ma il disegno è più largo, e lavora sul venir meno, a cominciare dalle élites, delle fedeltà territoriali. Di qui la tenace formazione di ceti dirigenti cosmopoliti, sempre in viaggio con la valigia in mano, a proprio agio nei non-luoghi come gli aeroporti o gli svincoli autostradali, interessati a parlare tra loro in un’unica lingua, l’inglese, anche in Europa, dove pure tedesco e francese hanno un maggior numero di parlanti e più ampie zone di influenza, insofferenti di limiti, frontiere, legislazioni non armonizzate, ossia unificate nell’idea dell’Unico.

 

I padri dell’Unione, come il massone francese Jean Monnet, detestato da un grande patriota come De Gaulle, che ne svelò i progetti mondialisti, sinarchici, lavorarono nella segretezza e nell’inganno, facendo credere ai popoli che le loro intenzioni erano quelle di evitare nuove guerre.

La verità era ed è un’altra, e passa per le ammissioni di Warburg del 1950 sull’idea di governo mondiale.

I generosi europei di tutte le nazionalità che amavano l’idea di Europa come spazio comune di civiltà sono stati sostituiti da freddi burocrati e da cinici oligarchi.

 

Oggi, nel 2016, dobbiamo affermare che la distruzione degli Stati nazionali e dei loro confini è un’idea antiquata, figlia del secolo scorso, in cui tre ideologie diversamente materialiste si sono contese tragicamente l’animo di miliardi di uomini e quindi il potere: il comunismo, il liberalismo ed il nazionalismo.

Il liberalismo vincente, nella sua forma degradata di liberismo economico, indifferentismo morale e religioso, individualismo pratico, globalismo, afferma ormai di essere l’unica modalità di vita e riproduzione del mondo. In nome dei suoi interessi, trancia tutti i fili delle civiltà, ed è ormai vicino a segare l’albero su cui è seduto. Nel secolo nostro, dobbiamo ritessere il filo del comunitarismo, di un potere diffuso e federale, della partecipazione personale alle decisioni, e respingere come frutti avvelenati del passato i materialismi, e, prima di tutto, arrestare alla frontiera della nostra coscienza l’illimitato liberalcapitalista.

Il male proviene dall’illuminismo, un’idea vecchissima del XVIII secolo, che ha posto la ragione umana, ed innanzitutto la ragione strumentale e pratica, a misura di tutto. La prova? Sentiamo che cosa scrive Voltaire, il maestro per eccellenza, a proposito del cosmopolitismo del denaro: “entrate alla Borsa di Londra, l’ebreo, il maomettano e il cristiano si trattano reciprocamente come se fossero della stessa religione, e chiamano infedeli solo quelli che fanno bancarotta” (8). Come lui in Borsa, manager e finanzieri sono a proprio agio solo tra i grattacieli dei loro lussuosi uffici, esprimendosi nella lingua franca di legno che è l’inglese commerciale, sempre connessi ad Internet, ai mercati che lavorano online h. 24, 365 giorni all’anno, incuranti di festività civili o religiose, dei fusi orari, guidati da algoritmi e modelli matematici elaborati da computer, privi di controllo umano. Questa classe transnazionale tutt’al più sopporta il non luogo per eccellenza, l’aeroporto, dove si muove disinvolta tra negozi duty free, banchi di check in e muri immateriali. Sì, perché altro non sono le fotocellule, gli scanner e le altre apparecchiature di sicurezza che vivisezionano il viaggiatore prima dell’imbarco.

 

Ciononostante, questo è chiamato il migliore dei mondi possibili, anzi l’unico. Fu proprio Voltaire ad inventare il personaggio di Pangloss, precettore di Candido, l’ottimista, che insegna la “metafisico-teologo-cosmolonigologia“, dottrina secondo la quale quello presente è “il migliore dei mondi possibili” in quanto “tutto ciò che esiste ha una ragione di esistere“, ad esempio “i nasi servono ad appoggiarvi gli occhiali ed infatti noi abbiamo degli occhiali” (9).

L’uomo sta nel mondo per fare i propri interessi economici, il mercato serve per realizzare, con lo scambio, gli obiettivi personali, e quindi noi abbiamo il mercato. Perfetto e tautologico, e poiché gli scambi devono essere veloci, vorticosi come la spirale di una dinamo, e le frontiere inceppano il meccanismo, le diverse lingue rendono difficile la comunicazione (commerciale), i diversi gusti ed idee dei popoli impediscono una perfetta economia di scala globale. Allora, basta frontiere, abbasso i confini, siano cittadini di un unico mondo, qualunque cosa voglia dire.

Lontani da questi alchimisti globali, che hanno trovato la loro pietra filosofale, sono i popoli, nella loro saggezza millenaria, a volere confini netti, frontiere precise, valicabili sì, ma in punti stabiliti, per motivi definiti, con regole certe, il più possibile condivise, sempre però conosciute. I potenti le avversano e le abbattono per i loro giochi, salvo sostituirle con muri possenti e terrificanti, innalzati per proteggersi dall’altro da sé che non sanno rispettare o che minaccia le loro fortezze dorate, sterilizzate, inodori ed insapori.

Al contrario, i popoli spesso intrattengono con i loro confini un rapporto sentimentale.

In un film comico del 2010, si narrano le vicende dei doganieri belgi e francesi, fieramente rivali, alla vigilia dell’apertura delle frontiere europee nel 1993. Il protagonista belga, che ama visceralmente la propria nazione, alla sera, accompagnato dal figlioletto, batte le nebbiose campagne fiamminghe e sposta in avanti i cippi di frontiera, per ingrandire il Belgio. Quando la luna si trova proprio sopra il cippo, il bimbo chiede: “Ma la luna è francese o belga?” (10). Involontariamente, al di là degli intenti del registra, tra il comico ed il moraleggiante, quel bimbo fa l’elogio più poetico del confine. Ciò che è sopra è di tutti e di nessuno, ma la terra, il suolo patrio, è mio, perché lo amo, perché lo calpesto concretamente, perché ci sono nato, perché c’è la tomba di mio padre e di mia madre.

 

In territori sfregiati dalla precarietà, attraversati da migrazioni di massa, in cui ciascuno è estraneo a tutti gli altri, l’uomo si difende ritrovando il confine più antico, quello sì invalicabile: il sangue.

In un romanzo drammatico, Le ragioni del sangue, lo scrittore americano Tom Wolfe narra di una Miami divisa in enclave etniche, dove gli spacciatori negri sono contrastati dai cubani, i caraibici non sopportano i bianchi e così via, i ricchi risiedono in quartieri blindati, circondati da alte cancellate, vigilate da giganteschi guardiani armati, e per entrare in casa occorre armeggiare tra badge e cellule fotoelettriche, disinnescando allarmi. La meraviglia multietnica in cui ricchi e poveri non hanno più contatti ed i muri dividono tribù metropolitane reciprocamente ostili: la realizzazione, in peggio, del mondo immaginato dal leggendario film Metropolis di Fritz Lang, che è del 1927.

La realtà del senzafrontierismo, al netto dei sogni o delle idee obbligatorie politicamente corrette, è l’Arancia Meccanica, e la cura Ludovico del film è la prescrizione per tutti dell’accettazione forzata, anzi della gioiosa adesione alla Babele di lingue, fattezze fisiche, cibi, odori, abiti, atteggiamenti mentali di un mondo nuovo confuso, unificato dalle sole regole del mercato e dai riti del consumo.

La stessa chiesa cattolica non conta più nulla da quando si è posta all’avanguardia dell’ideologia cosmopolitica, congeniale semmai al protestantesimo anglosassone ed al giudaismo che pretende dal suo Dio privato la Terra promessa, ovvero il dominio planetario.

Saremo forse uguali dinanzi a Dio, ma certamente le differenze le ha autorizzate il creatore. Perché negarle, e affogare nella melassa dell’indistinzione e nell’apologia di un’uguaglianza smentita da tutti i cinque sensi?

Scambiamoci pure il segno di pace, come comanda la misera liturgia postconciliare, ma anche la pace è un processo, un punto d’arrivo che prevede confini, e solo dopo rimuove la frontiera. Non c’è pace senza dignità, o mutuo riconoscimento.

In altre stagioni storiche, avremmo affermato che non si dà pace senza onore. Ma l’onore è pubblico riconoscimento di sé, rispetto che si pretende in quanto si è conformi alle norme morali di una comunità, introiettate e condivise. Anche l’onore, in fondo, è un prodotto dei confini. Forse per questo è screditato, deriso, negato come valore, ed al suo posto è stata innalzata l’immagine, ovvero la proiezione sociale e superficiale della maschera che indossiamo davanti agli altri.

La Chiesa, inoltre, si è desacralizzata, è diventata un prodotto come altri nel supermercato delle credenze. Ma il sacro non appartiene al regno della quantità, al negoziabile, non è un segno dei tempi, solo in suo nome ci si batte a morte – giusta o sbagliata che sia la causa – si suscita una passione da difendere all’ultimo sangue.

Le comunità oggi innalzano muri esattamente perché la lotta è all’ultimo sangue. Non è più in gioco ciò che si ha, ma ciò che si è.

Desacralizzando, si mercifica, e si abbatte anche un confine estremo: quello del proprio corpo. Vendibile, o a nolo anch’esso: uteri in affitto, commercio di sangue, compravendita di organi, con relativi assassinii, anche di bambini, per tacere dei nuovi schiavismi. E’ il biomercato, epifenomeno di quello delle merci, del denaro, dei servizi. E ci riempiono il cervello di democrazia, di solidarietà, e di cento altre parole invertite.

Aveva ben intuito Carl Schmitt, quando, nella Teoria del partigiano, ha scoperto la categoria di nemico assoluto, distinto da quella tradizionale di iustus hostis, il nemico che si combatte, ma con il quale si raggiunge, alla fine, una pace su presupposti nuovi, e si riprende la relazione, spostando magari la frontiera, ma riconoscendo confini. Ma il nemico, nel sistema dell’illimitato, dell’unico, non fa prigionieri. Ecco allora i muri, che sono simboli di paura, di incapacità di costruire almeno un codice comune, un canale di comunicazione qualsiasi, per quanto sottile.

 

Il confine è indissolubilmente legato alla terra. In mare non ci sono confini, solo, eventualmente, linee evanescenti prossime alla costa dette acque territoriali. E’ probabilmente per questo che l’attacco ai limiti ed alle frontiere proviene da culture e zone del mondo che si sono costituite come potenze marittime. In mare non esiste un vero diritto: solo quello del più abile, del più veloce, di chi riesce a dominare per primo l’elemento, ostile alla specie umana. Non si conoscono corsari di terra.

L’Inghilterra, ed ora gli Stati Uniti, sempre secondo Schmitt (11), sono potenze talassocratiche, presidiano e dominano i mari: odiano i confini, li superano e ne cancellano anche i segni, dai tempi della Compagnia delle Indie. Dall’ultima guerra, gli Usa sono diventati anche i padroni dei cieli, attraverso la superiorità aeronautica, oggi simboleggiata dai droni, i piccoli aerei senza pilota tele comandati che bombardano senza posa e senza rischi umani (per chi li comanda, ovviamente).

I popoli europei, la Russia eurasiatica, la stessa Cina sono essenzialmente di terra. Persino il Giappone, patria di conquistatori dal mare, ha accettato limiti. Ma è un arcipelago, non un’isola, e sa comprendere le differenze, proprio perché è formato da pezzi diversi, separati dalla geografia, ma uniti dalla storia in un impero. Non esiste l’isola-mondo, ma molti arcipelaghi, che possiamo definire civiltà, e popoli che abitano scampoli di universo, che sono, tuttavia, il tutto, per loro.

Se il muro isola, il confine protegge. Un sistema vivo è dinamico, poroso. C’è bisogno di fenditure, passaggi. Era così anche nelle roccheforti medievali più munite.

Quanto è stupida, e quanto mistificatrice la bandiera arcobaleno dei pacifisti senz’anima che pende ancora da qualche finestra. Simbolo del nulla, o non simbolo, per parafrasare Marc Augé. (12) Ma quando una comunità è in pericolo, brandisce come un’arma, o come un portafortuna, le sue insegne di appartenenza, quella bandiera che rappresenta il segno distintivo, il “noi” più sentito ed intimo. Possiamo immaginare un confine senza bandiere? Anche le navi, metafora del viaggio e dell’Oltre, ostentano una bandiera, e, all’entrata di un porto straniero, esibiscono quella della nazione ospitante, in senso di riconoscimento e rispetto.

Le frontiere sopravvivono, anzi rinascono a nuova vita anche nelle metamorfosi. C’è sempre un gioco di contrapposizioni e ricomposizioni, come il caldo e il freddo, lo ying e lo yang.

Anche se ogni frontiera, Dio non voglia, venisse abolita per sempre, ci sarà sempre un’ultima frontiera, un limite inconoscibile, come tra la vita e la morte.

Da un mondo sempre più complesso, gli stolti hanno ricavato la fiducia in pianeta hub, un raccordo, una immensa piattaforma che connette tutto in maniera reticolare. Non sono certo un male le reti, ma ciò non significa affatto che si possa viverci dentro, o scambiarle per un tutto. Da una rete si passa, e non è possibile transitare ed avere di fronte il nulla. Può esistere un posto senza l’opposto?

Più semplicemente, un individuo ha bisogno di un perimetro, e l’espressione comunità internazionale è una formula vuota, buona tutt’al più per definire l’insieme dei membri delle diplomazie statali.

Si è “di” un luogo, irrevocabilmente. Persino in città di grandi dimensioni, si è di quel certo quartiere, e chi scrive è di San Martino d’Albaro non meno che di Genova, Italia.

L’internazionale futura umanità dei comunisti è finita nei gulag e nel sangue, quella presente, senza volto come ogni gregge, si scioglie nell’outlet, dove si accalca tristemente nelle code alla cassa, nei ridicoli bivacchi di poveri di spirito in attesa della vendita di un nuovo modello elettronico, o nei penosi assalti agli sconti dei “black friday”, i giorni delle svendite, un modello commerciale che, come tantissime altre sciocchezze, ci ha raggiunto dall’America. Occorre tornare a quello che ci ricorda Johann Herder, “ogni nazione ha le sue ricchezze e proprietà dello spirito, del carattere come del paese” e il compito di chi la dirige è “favorire ciò che giace in una nazione e destare ciò che vi dorme”.(13) Per lui, lo stesso impero romano crollò perché “volle distruggere i caratteri nazionali, ignorare le tradizioni dei singoli popoli, organizzare come un meccanismo la vita umana”.(14) Oggi avanza un processo della stessa natura, aggravato dall’immensa estensione della tecnologia.

La “governance” che ci opprime altro non è che un’immensa multinazionale occhiuta, in cui la telecamera spia tutti dovunque, e ciascuno è un potenziale deviante, se sgarra dal modello di consumo e tenta di ripoliticizzare la sua vita. Viene ormai varcato orrendamente un altro confine, quello della privatezza, persino dell’intimità. In nome della trasparenza, un’altra parola buona per tutto, o sull’altare della cosiddetta sicurezza, che non è mai la nostra, ma è quella del denaro e del potere nemico, siamo spiati, osservati, passati letteralmente ai raggi X.

Siamo giunti alla realizzazione distopica del modello panottico dell’utilitarismo inglese, da Jeremy Bentham, studiato e smascherato da Michel Foucault (15). Un mondo senza confini apparenti, ma con miliardi di muri invisibili, sorveglianza elettronica, audiovisiva, tracce elettroniche, chip, card, controllo ed organizzazione del linguaggio, intrusione costante nelle vite di tutti e di ciascuno. Più alta di un grattacielo, più profonda di un oceano, la nuova Grande Muraglia globale impressiona, ingabbia, a molti addirittura sfugge la sua esistenza: sono riusciti a resettare i sensori etici della maggioranza. E’ il massimo, la gabbia delle gabbie, quella che c’è ma molti non la vedono, e negano risolutamente di vivere in cattività. Perdiamo libertà, perdiamo personalità, agitiamo i gomiti contro finti nemici, i vicini ingombranti, i politici ladri, i mendicanti davanti al supermercato, sbattiamo la testa contro innumerevoli muri perché non sappiamo più vedere, e pretendere, il rispetto dei confini: personali, morali, civili, territoriali.

Non si sa più chi si è, tra confini spezzati, identità rifiutate, paure, guinzagli e redini sapientemente maneggiati e manovrati da alcuni Grandi Cocchieri. Quando non si sa chi si è, si è mal disposti verso gli altri, e si pencola tra il tecnocosmo globale e le vecchie appartenenze native. Pensiamo alle immagini stupefacenti di certi emirati arabi, dove tra grattacieli e lusso ostentato, donne in burqa comprano l’ultimo modello di smartphone, ed intanto le loro tribù regrediscono in guerre crudeli, ma possiedono e usano armi chimiche o nucleari.

Intanto, qui ed altrove, deprivati di un aggregato qualunque e di sentimenti condivisi, si compie il sogno di industriali, finanzieri, economisti e sociologi: i popoli regrediscono a popolazioni, da scomporre e studiare come e attraverso modelli matematici. I popoli hanno bisogno di avi e nemici, argini e leggende, canzoni e carte geografiche. Per le popolazioni, basta la matematica degli statistici e la geometria del catasto.

I frontalieri, cioè gli abitanti delle zone di confine, sono in genere i più vivaci, creativi ed intraprendenti degli uomini, usi come sono a padroneggiare flussi di persone, di idee e diversità di linguaggi. La distinzione non è una camera mortuaria, ma la ricchezza più grande dell’umanità. E’ il denaro che si infuria davanti alle barriere e che non tollera l’eccezione culturale, ovvero l’opporre se stessi, la propria comunità, la lingua materna, il particolare gusto del vivere alla violenza del numero, alla ragione dell’identico, all’economia di scala, al modello standardizzato.

Il denaro è l’unica unità di misura che tende all’infinito, all’illimitato, all’incommensurabile. Il confine frena, oppone, sostituisce alla sua legge inesorabile un’infinita gamma di colori, un caleidoscopio di idee, accenti, obiezioni. Il forte domina i cieli, occupa i mari, i resistenti, gli oppositori, i dissidenti di tutti i paesi devono frequentare le gallerie ed i sottosuoli. E quando vedono il loro pezzetto di mondo devastato, invaso, violentato, non possono che tirar fuori dal profondo la loro energia identitaria. L’afflusso forzato di immigrati risveglia la xenofobia, che è reattiva, contro coloro che, spinti dalla miseria indotta dai dominanti, cercano di ritagliarsi un posticino nella megalopoli.

Il tutto, nella fretta, nella corsa insensata, nell’odio verso i “tempi morti”, senza direzione, senza un vero traguardo. Anch’essa, la fretta, senza confini. Lo stesso dolore va sbrigato in fretta. I cortei funebri, una volta seguiti a piedi da tutto il paese, da tutto il quartiere, devono stare di lato, non ingombrare la corsa. Pure le cerimonie, i riti di passaggio della vita, tutti derubricati. Fanno perdere tempo: bisogna andare, varcare un altro confine, violare una nuova frontiera. Si odiano i simboli, ma l’uomo è un animale simbolico. Anche quando andiamo allo stadio con la sciarpa della squadra del cuore, inalberiamo un simbolo. Senza di essi, siamo cartellini con un codice a barre ed una scadenza prescritta, un animale in più, per la felicità degli zoologi e la disperazione di pochi romantici. Se discendiamo un fiume, ci irrita una chiusa, ma peggio della chiusa è la sua mancanza, in un corso agitato. Detestiamo l’esclusione ed esaltiamo l’accoglienza, ma una onesta convivenza non si otterrà gettando le carte d’identità, ma procurando a ciascuno passaporti.

Ci sono confini territoriali che sono morali, perché hanno regole, e consentono, osservandole, di andare e tornare. Noi possiamo scegliere il modo di morire: murati o in mezzo ad una tempesta di vento. E’ meglio tornare ai sani, vecchi confini, che sanno chiudere la porta di fronte alle intemperie, e diventano bonari quando le acque sono tranquille, come certi vecchi doganieri che fingono di credere che chi passa ha solo un pacchetto di sigarette, ma diventano inflessibili e persino cattivi quando riconoscono il trafficante. Porte girevoli, sì, e aperte e chiuse, antidoto nei confronti dei muri, ma soprattutto contro la folle apertura di tutto.

Nudi e sotto le intemperie, siamo l’animale più vulnerabile, l’essere indifeso per eccellenza. Confini e frontiere sono il nostro vestito, talvolta lacero o fuori moda, altre volte elegante, ma l’uomo è l’unico animale, se tale è, che si copre. Per pudore, per necessità, per vanità. Ma non è nato per rimanere nudo. Lo stesso vale per quelle comunità umane che si riconoscono popoli: pretendono un confine, lo amano. Si può finire segregandosi o dissolvendosi nell’universale. La seconda modalità è oggi ben più popolare della prima, ma, come spesso capita nella vita, c’è un’altra possibilità: rimanere se stessi, trasmettendo la propria identità, rispettando i propri confini, quelli territoriali e quelli morali, riconoscendo nello stesso istante ciò che è altro da sé.

Stiamo abolendo persino i confini tra i generi, maschio e femmina li creò, ma tanto tempo fa, fu un errore, rimediamo noi, con l’essere indistinto, multiuso e multisesso. Aboliamo gli stili, tutto è pensato e deve essere consumato per un consumatore medio; il prodotto è unico, come la taglia di certi giubbotti. Alla fine, nel torpore generale e tra infiniti sbadigli, globali anch’essi, da milioni di schermi, da infinite connessioni, spunterà una lingua unica, un sapore unico, un’unica specie di frutta, un’unica insalata. Prima che quel giorno tristissimo arrivi, occorre salvaguardare frontiere e confini, dogane e termini, da cui dipende la sopravvivenza di un mondo che valga la pena di frequentare.

Occorre rivendicare un diritto naturale alla frontiera, perché non tutto si equivale, nessuno è uguale ad un altro, perché non avere limiti fa girare la testa, toglie il fiato ed espone ad ogni follia, e, più di tutto, perché nell’equivalenza niente ha valore. Tutt’al più ha un prezzo, in una valuta che costa intera la nostra vita, e ci strappa l’anima, quella misteriosa conquista dell’essere umano, scoperta da quando ha tracciato un confine, tra sé e l’animale, e poi con il vicino, e poi tutto il resto.

E’ il tempo di riprendere il filo interrotto delle civiltà e delle differenze, qui e adesso, nell’estremo pericolo, che è anche il tempo in cui, come avverte Hoelderlin, cresce ciò che salva.

E’ il tempo di tornare, sobriamente, ad un culto antico: Il dio termine si trova all’entrata del mondo in funzione di sentinella. La condizione per entrarvi è l’autolimitazione. Quello che diviene realtà, lo diviene sempre esclusivamente in quanto è qualcosa di determinato. Un’incarnazione senza residui del genere sarebbe (…) una violenta eliminazione di tutte le leggi e di tutti i principi della realtà: sarebbe, di fatto, la fine del mondo. (16).

Note

  1. Roger Scruton, Il bisogno di nazione.
  2. Simone Weil, La prima radice.
  3. Johann W. Goethe, Faust.
  4. Emmanuel J. Sieyès, Opere e testimonianze politiche
  5. Immanuel Kant, Per la pace perpetua.
  6. Ibidem
  7. David Rockefeller, Le mie memorie.
  8. François M. Arouet Voltaire, Lettere Filosofiche.
  9. François M. Arouet Voltaire, Candido.
  10. Niente da dichiarare? Regia Dany Boon.
  11. Carl Schmitt, Il nomos della terra.
  12. Marc Augé, Non luoghi.
  13. Johann G. Herder, Ancora una filosofia della storia
  14. Ibidem
  15. Michel Foucault, Sorvegliare e punire.
  16. Ludwig Feuerbach, Critica della filosofia hegeliana.

 

ROBERTO PECCHIOLI

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