11 Aprile 2024
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Céline profeta e mago – Luca Negri

Merline: così nei suoi diari parigini Ernst Jünger chiama Louis-Ferdinand Céline. Forse non solo per la rima, ma per sottintendere un rispetto che travalicava la scarsa simpatia dell’ufficiale tedesco per il francese con “sempre la morte” al fianco che manifestava con eccessi e volgarità tutta la potenza del nichilismo. Oltre al rispetto, forse, Jünger volle segnalareanche la presenza di celtica ancestralità, di un impulso attivamente magico e cavalleresco in senso medioevale. Potremmo ovviamente anche sbagliarci, accettare il fatto che Jünger abbia usato lo pseudonimo in tutt’altro senso, finanche ironico, ma un Céline non appiattito su solidi e disperanti orizzonti materialisti lo si può eccome vedere. Marina Alberghini raccolse parecchi indizi nel suo agile Céline magico, uscito per Solfanelli lo scorso anno, ma il lettore sensibile e attendo ne troverà ben altri in un poderoso volume (quasi 500 pagine) indispensabile per ogni amante dello scrittore, edito da Bietti, curato da Andrea Lombardi ed introdotto da Stenio Solinas. Un profeta dell’Apocalisseraccoglie scritti anche inediti in Italia, lettere, interviste testimonianze di suoi amici e contemporanei ma anche saggi e commenti di suoi lettori di peso (da Mussolini al duo Deleuze-Guattari, passando per Drieu La Rochelle e William Burroughs). Una visione di Céline a trecentosessanta gradi che dunque non può non attivare altre interpretazioni esoteriche della sua vita e della sua opera.

Il volume Bietti ci pare già felice a partire dal titolo, con il riferimento alla dote profetica, rivendicata da lui stesso quasi come affinità con gli ebrei che attaccò per motivi molto più terra terra mentre altrove pare innegabile una qualche sintonia con lo spirito semitico. Come un Ezechiele fustiga il suo popolo smidollato, sui nemici invoca pene ed ordalie. Crede nella fine della Storia, dell’uomo che si sopravvaluta, della civiltà nostra marcia da qualche secolo. Profetizza la fine, una qualche apocalisse e ancor prima un africanizzarsi della Francia, a partire dalla regione mediterranea. Céline non risparmia all’uomo bianco alcuna paura, prefigurando giovani e forti africani in giro per le nostre strade a conquistar le donne bianche. Ragiona spenglerianamente, denunciando la decadenza, la mancanza di volontà di potenza, di esistenza, di procreazione ormai conclamata in caucasici stanchi, troppo istruiti, troppo intontiti da cinema ed alcool. E se aggiunge bestemmie, parolacce e truculenze varie, lo fa per essere ascoltato, per necessità di scandalo. Un altro celta, del secolo prima, Arthur Rimbaud, aveva scritto di esser negro, aveva annunciato il suo violento ritorno in patria con la pelle scura. Céline gli si riallaccia nell’annunciare le future conquiste dei figli di Cam nel vecchio continente.

Bestemmia Dio o gli si rivolge con brusca confidenza come un profeta d’Israele, e gli è vicino anche nel negare Dio, poiché brevissimo è il passo dal monoteismo al nichilismo ateo. Céline si definisce un “mistico”, ma senza Dio. O meglio senza ciò che uomini e popoli prima di lui hanno chiamato con quel nome.  In lui accanto al profeta apocalittico c’è un qualcosa del saggio buddhista. Lo si intravede se si medita sulla virtù della compassione che esercitò non solo come scrittore di splendidi ritratti umani, ma anche come medico dei poveri, amante degli animali, esperto in sofferenze.

È però il suo senso per la musica che più ci suggerisce la sua natura magica, da druido e aedo. La scrittura di Céline è infatti canto, melodia cercata soprattutto nell’oralità. La sua è sempre prosa poetica, fa sempre il lirico, anche evocando le fabbriche della Ford negli Usa o la Germania sotto le bombe. Più che raccontare storie o ancor peggio spacciare idee, preferisce cantare, incantare. Sa che la sfera discorsiva, la dialettica, mummifica l’umano, mentre la resa emotiva concessa dalla musicalità promette e permette sempre e ancora vita.

Céline dunque druido, profeta, cantore, aedo. Un Orfeo che fin dal principio del viaggio nella notte, della stagione all’inferno, della discesa agli inferi inscenata nei suoi romanzi, decide di mai dare le spalle ad Euridice. Anzi la insegue, le dàla caccia la sottò. Avrebbe preferito raccontar di fate e leggende medievali, cullato da Ondine, mago e speziale in un castello, ma l’epoca lo costringe a scovare l’emozione ancora viva in un mondo di macerie morali, psichiche e materiali. E lui scrive per salvarsi e salvare, come in preghiera. Perché disse che non si scrive per lettori e critici ma sempre e solo “per la cosa in sé”. Come a ribadire che per comunicare veramente col prossimo occorre rivolgersi altrove. Verso ciò che la modernità kantiana confina nel campo del non sperimentabile e merita appunto preghiere, canti e rituali di Céline.

LUCA NEGRI

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