11 Aprile 2024
Mondialismo

Babele rivisitata: Nimrod e il mondialismo del XXI secolo – Federica Francesconi

Il racconto biblico della Torre di Babele di Genesi 10-11, essendo una forma archetipica dell’umano, ha indubbiamente una valenza simbolica che trascende lo spazio e il tempo. Data questa sua essenza, ritengo che non sia forzato rivisitare questo mito alla luce degli eventi storici contemporanei, secondo una concezione circolare del tempo, che presuppone un ritorno incessante, sino alla fine dell’attuale ciclo cosmico, di eventi paradigmatici che l’umanità dovrà prima o poi interiorizzare se vuole ascendere agli stati di coscienza superiori dell’Essere. Ma andiamo per ordine.

Babilu è un vocabolo accadico che significa “porta di Dio”. Esso richiama l’elemento centrale del mito, ovvero l’aspirazione del genere umano a costruire una torre altissima, una sorta di scala verso il cielo. Aspirazione cassata da Dio, che distrusse la torre per punire gli esseri umani per la loro protervia di raggiungere il cielo. Poiché secondo lo stesso Genesi 28, dove viene narrato l’episodio della visione onirica di Giacobbe, soltanto gli angeli possono salire e scendere dalla scala che conduce al cielo. Gli angeli, secondo quanto disse Cristo, sono le anime umane trasfigurate e purificate dalle scorie, cioè dagli istinti bassi. In ebraico, invece, la radice bbl ha il significato di “confondere”, un rimando esplicito alla conseguenza della distruzione della torre, cioè alla confusione delle lingue, prodromo alla dispersione dell’umanità in tanti gruppi ed etnie separati, ai quali da quel momento sarà difficile comunicare tra loro. Abbiamo quindi, se ci fossilizziamo al significato letterale del mito, un dio irato per l’arrogante iniziativa dell’essere umano di avvicinarsi al cielo, quindi a lui stesso, alla quale segue il castigo. Si tratta, come chiunque può evincere da una lettura superficiale del racconto biblico, di uno schema, quello dell’azione umana sacrilega seguita dal castigo divino, assai rodato, non solo nella Bibbia ma in tutti i testi sacri. Ma proviamo ad indagare il mito in relazione all’oggi, ai problemi attuali che l’umanità sta vivendo. Per farlo occorre fare un salto ermeneutico alla ricerca dei significati nascosti.

Innanzitutto l’ambientazione del mito è la città di Babilonia, capitale degli imperi mesopotamici, il centro economico e culturale più vitale del Vicino Oriente, crogiuolo di popoli, di lingue e di religioni, una sorta di meltingpotante litteram. Ma l’aspetto che merita maggior attenzione è l’ambizione imperialistica che tutte le civiltà che sono nate in Mesopotamia hanno avuto dal 3000 a.C fino alla metà del VI sec a.C., quando i persiani distrussero l’impero neobabilonese. Nell’immaginario simbolico d’Occidente Babilonia ha sempre incarnato l’imperialismo guerrafondaio ed oppressivo e una certa mescolanza di etnie e culture. Non era certo una mescolanza positiva, ma una semplice coesistenza di culture differenti, il cui unico denominatore comune era la sottomissione all’impero di turno. Questo dato, il multiculturalismo di facciata, registrato anche dal testo di Genesi, dove si racconta che l’imperialismo di Nimrod recava con sé i germi dell’omologazione culturale, prova ne fu il tentativo di ridurre l’intera umanità a un medesimo blocco indifferenziato. Lo scopo dell’edificazione della torre era quello di formare una sola nazione attraverso la fusione del potere politico con quello religioso per ragioni imperialistiche. La torre, infatti, stando alla descrizione del testo biblico, assomigliava più a un santuario elevato, nella cui costruzione tutta l’umanità era stata impiegata dopo essere stata resa schiava. Ecco quindi manifesto l’arcano simbolico del mito: la dispersione delle lingue, più che come un castigo divino contro il tentativo di infrangere il limite tra il cielo e la terra, va letto nella prospettiva di salvaguardare e rispettare l’alterità e le differenze etniche, culturali e linguistiche, poiché l’imperialismo ha sempre in sé, come radice cattiva inestirpabile, l’appiattimento e la massificazione omologante.

Anche oggi come tremila anni fa la civiltà umana è ancora succube dello stesso spirito che ho ribattezzato “babilonico”. Uno spirito che si è infiltrato in tutti i gangli delle istituzioni, persino in quelle che nulla dovrebbero avere a che fare con la politica. Lo spirito babilonico persegue lo scopo di omologare i popoli riducendoli a masse informi, prive di qualsiasi riferimento culturale. La cultura, le tradizioni patrie, la religione, tutti questi aspetti dell’identità di un popolo sono viste come fumo negli occhi da chi gestisce il potere, che non necessariamente coincide con chi è al governo.

Mai come nell’attuale momento storico di fine ciclo il potere è riuscito a schermarsi alla perfezione dietro un sistema apparentemente libero e democratico. “Apparentemente” perché dietro al sistema presentabile in cui si è infognato da più o meno 70 anni l’Occidente, si cela un Leviathan che sta gradualmente distruggendo tutto ciò che di buono era stato attuato nel secolo scorso: il Welfare State (soprattutto l’istruzione, capace, fino a inizio anni ’90, di formare coscienze critiche) e la libertà di pensiero, oggi polverizzata da un apparato mediatico pervasivo e spersonalizzante. Ma che cosa si intende per “potere”? Il potere non deve essere identificato tanto con strutture, istituzioni politiche ed economiche visibili all’occhio profano, quanto con lo spirito babilonico, sulfureo, da cui quelle istituzione sono permeate. Il potere è prima di tutto una dinamica, un rodaggio di per sé immutabile, che si perpetua nel corso dei secoli attraverso molteplici forme e modalità. Per fare un esempio spicciolo, una tipica manifestazione del potere è l’accentramento della formazione e del sapere nelle mani di pochi accademici ed intellettuali integrati nel sistema, un tempo chierici, oggi laici, che bollano come non scientifiche tutte le teorie, riflessioni e opinioni che non vengono sfornate da loro e da tutti i loro epigoni. Teorie, le loro, perfettamente allineate al Pensiero unico, di cui sono i sacerdoti esclusivi. Attraverso tale accentramento nel corso dei secoli il sapere è stato, ed è tuttora, monopolio di una cerchia ristretta di intellettuali e scienziati, che si sono arrogati il diritto – e ancora oggi lo fanno – di stabilire ciò che è scientifico e ciò che non lo è, ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è cultura e ciò che non lo è. Si possono fare in realtà innumerevoli esempi delle modalità attraverso le quali agisce il potere, è sufficiente uscire dagli steccati ideologici per contemplare con distacco e disincanto la sua machiavellica capacità di mimetizzarsi in regimi politici e sistemi economici molto diversi tra loro. Perché la vera natura del potere consiste nella sua capacità di assumere di volta in volta la forma che meglio conviene per nascondere la sua brutalità e per farsi accettare benevolmente da una società, un popolo, un insieme di nazioni. Come fece Nimrod, che riunì in un unico luogo gli abitanti della terra sottomettendoli al suo disegno perverso e tirannico di sfidare il cielo, cioè, in base al principio ermetico del così in alto come in basso, di sovvertire l’ordine naturale delle cose, poiché il microcosmo è in dimensioni ridotte specchio del macrocosmo.

Nimrod, secondo una leggenda ebraica del XII secolo, fece costruire una fortezza a forma di cono, nella cui sommità pose una gemma gigantesca, da usare come trono per se stesso. Pretese poi, una volta seduto sulla gemma, di essere adorato dagli abitanti di Babele come una divinità universale. Anche in questa leggenda parallela al testo biblico è ben intuibile il significato simbolico soggiacente: la pretesa universalità è sempre sinonimo di idolatria. Nel mito di Nimrod la dimensione idolatrica è accostata al culto religioso, nell’età di fine ciclo possiamo ritrovare tale dimensione in tutti gli aspetti della vita pubblica. Specialmente nella vita pubblica e nella politica si sono ormai depositate metastasi idolatriche, che hanno compromesso il loro funzionamento. La politica, infatti, sembra essere stata irreversibilmente ridotta a involucro vuoto riempito con i dogmi del neoliberismo. Il mantra dell’Unione europea a tutti i costi sembra essersi infiltrato come un verme solitario nella coscienza collettiva dei popoli, prosciugandone energie e vitalità, al punto che paventare un’uscita dal quel perverso sistema è vissuto ancora da molti come un attentato alla stessa sopravvivenza degli stati nazionali, ormai sotto ricatto dagli aguzzini della Troika. Anche in quest’ultimo caso agisce potente il cancro dell’idolatria, sapientemente innestata dai tecnici della disinformazione di massa.
Quale soluzione dunque? L’unica soluzione a breve termine che vedo attuabile è un ritorno alle identità culturali come antidoto alla propagazione del mondialismo, che reca con sé le cellule malate dell’idolatria omologante. Ritornare alle identità culturali significa rivalorizzare la cultura umanistica del nostro paese, difendere le eccellenze che l’Italia ha raggiunto in diversi campi del sapere e della scienza. Ma soprattutto significa non avere paura di essere etichettati come retrogradi dalle subculture, quella deviate del mondialismo, che vorrebbero ridurre l’umanità a larve spersonalizzate, obbedienti agli ordini dei vari Nimrod che infestano il nostro pianeta. Perché, questo è bene sottolinearlo, Nimrod non è invincibile, ma lo sarà fino a quando ognuno di noi abdicherà al suo compito di resistere alle sue pretese mondialistiche.

Federica Francesconi

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