9 Aprile 2024
Segnali di Luce

Azione e contemplazione – Rita Remagnino

Il V cielo del Paradiso dantesco è grandioso. Il pianeta più luminoso della Via Lattea, Marte, rosso “per li grossi vapor” che lo avvolgono (Pg II 13-14), «rosseggia» più del solito minacciando «morte di regi e transmutamento di regni» (Cv II XIII 22). Quassù domina il rosso, una tonalità cromatica legata al sangue ma anche carica di «memoria medica», ovvero di «magia» e di conoscenze arcane, come testimonia la prima apparizione di Beatrice che velata di mistero entra nel poema indossando un abito «sanguigno».
Assimilato all’impegno, all’animosità e al fervore, il rosso viene illustrato in questo canto dagli Spiriti Combattenti che in vita difesero la fede con convinzione. Su Marte costoro scorrono sotto forma di lumi sfolgoranti lungo i bracci perpendicolari di una immensa croce, dove, ad un certo punto, il poeta ha persino l’impressione di vedere lampeggiare la figura del «combattente» Gesù Cristo.
Corroborato dall’atmosfera guerresca che lo circonda (Pd XIV 85-87) Dante definisce la croce marziana che brilla sullo sfondo della Via Lattea “(…) il venerabil segno / che fan giunture di quadranti in tondo” (Pd XIV 101-102), cioè il venerabile segno prodotto dalle linee di congiunzione dei quadranti in un cerchio.
I commentatori hanno visto nella geometria del V Cielo un’allusione alla fondazione di Firenze da parte dei legionari di Giulio Cesare (59 a.C. circa). Sembra che il centro fiorentino avesse in origine una forma quadrangolare dentro un cerchio mentre il dio Marte, secondo la visione classica, durante le «primavere sacre» guidava i giovani più intraprendenti verso la costruzione di nuove città.
L’ipotesi è plausibile ma non necessariamente attendibile. Tanto più che scorrendo scintillando lungo i bracci perpendicolari della croce i lumi di Marte poco si addicono a un contesto urbano. Al massimo richiamano la tradizione vedica, che, appunto, concepisce il fuoco celeste (spirituale) in forma quadrangolare. Ma visto che siamo nel Medioevo tanto vale tirare per la giacchetta il teofilosofo Occam: a parità di fattori la soluzione più semplice è quella da preferire, e, fino a prova contraria, il teatro dell’azione si trova nell’iperspazio.

 

In orbita l’astronauta-poeta vede la Via Lattea, scrosciante tra gli opposti poli celesti, percorsa da “maggiori e minori lumi” (stelle) che formano il segno venerabile nella profondità di Marte (Pd XIV 94-102). Per quale motivo una croce posta ad altezze vertiginose dovrebbe evocare la fondazione di una città? Non sarebbe più logico pensare alla Costellazione del Cigno, il cui simbolismo cruciforme occupò un posto d’onore nella preistoria dell’Eurasia e buona parte delle speculazioni degli iniziati del Medioevo europeo?
Governato da Venere, secondo la tradizione stellare classica, il Cigno celeste presentava al suo interno una croce visibilissima a dispetto della luminosità della circostante Via Lattea: le stelle comprese fra Deneb e Albireo formavano il braccio verticale mentre quelle fra Gienah e Rukh costituivano le «ali». Discendono da questo tracciato stellare molte simbologie successive, compresa probabilmente la croce di Cristo.
Nel tratto più scintillante del disegno c’era Deneb, che virtualmente baciava l’orizzonte settentrionale nel punto più basso del suo transito, sul meridiano nord-sud, la linea immaginaria con cui gli antichi astronomi tagliavano in due il cielo. Sessantamila volte più luminosa del sole, in tempi preistorici era lei la regina del firmamento, cioè «la rosa più bella sulla croce» inclusa nelle riflessioni metafisiche dei sapienti custodi di conoscenze arcane.
Poco affine a «fondazioni», o «rifondazioni», di centri urbani l’asterismo esprime invece una molteplicità di significati in ambito spirituale; basterà citarne un paio: reduce dal lungo inverno glaciale, circa 17mila anni fa, il Sapiens si rimise in marcia grazie al conforto dei lumi provenienti dal Cigno celeste, e, verosimilmente, lo stesso desiderio di riscatto ispirò l’opera dell’anonimo estensore del Fama Fraternitatis Rosae Crucis che nel 1614 annunciò il ritorno della luce dopo il buio (spirituale) causato dal peccato di Adamo.
Rimane ufficialmente un mistero con quali strumenti l’antenato antidiluviano osservasse la vasta regione oscura generata al centro da detriti cosmici e allineata al piano galattico, o come facesse Dante a sapere che «le stelle muoiono», generando eventi spettacolari come le supernove. Tutto questo però è accaduto, prendiamone atto a andiamo avanti.

 

Il Quinto Cielo non acchiappa il lettore soltanto per via degli effetti speciali giacché Dante, come tutti i poeti, ha la musicalità nel sangue e perciò associa alla coreografia guerresca una potente colonna sonora sulle cui note si distinguono le parole «risorgi» e «vinci», forse un’allusione al Cristo trionfante. Al termine dell’inno di lode orchestrato dalla posizione simmetrica e armonica di Marte, il poeta paragonerà la stella rossa alla Musica stessa (Pd XIV 86, XVIII 28 e XXII 146).
Quand’ecco staccarsi dalle frenetiche luci una voce fuori dal coro. E’ quella del trisavolo Cacciaguida, ex-combattente e crociato, il quale spiega come tutti i fatti presenti e futuri siano già scritti nella mente divina e in una certa misura anche in quella dei beati, motivo per cui lui si trova nella condizione di poter assicurare al pronipote un futuro dolce come la musica di un organo, a dispetto dell’esilio che lo aspetta.
La scena sembra uscita da un mito indoeuropeo, con tanto di Grande Avo defunto che predice al discendente il suo destino: non preoccuparti se ci saranno momenti difficili, rassicura il trisavolo, Beatrice pregherà per te. Dante non fa in tempo a girarsi verso l’Angelo per mostrare gratitudine che una forza ultraterrena lo preleva dal rosso Marte per depositarlo sull’argenteo Giove, associato alla «bianchissima» Geometria, sesta arte liberale, che è “sanza macula d’errore”.
Quassù troneggia l’Aquila imperiale, araldo dell’implacabile Giustizia del Signore (Pd XVIII 105). Dopo avere affrontato il tema della veggenza di dio (e di riflesso dei beati) i versi imboccano così la strada dell’imperscrutabilità del pensiero divino che vede tutti e comprende tutti. Anche chi, per esempio, essendo nato in India non ha conosciuto il cristianesimo.
Perché proprio in India? Si tratta di un posto preso a caso, o serpeggia tra le righe una delle principali radici culturali dell’Eurasia? Comunque sia l’Aquila non dice se il virtuoso indiano si salverà oppure no, né accenna al Limbo o ad altre zone neutrali.
La prima impressione è quella che il poeta voglia escludere la salvezza in assenza della fede in Cristo; poi, però, ripensandoci, torna in mente che la fede viaggia su un doppio binario perché è possibile credere nel Cristo «che è venuto» oppure in quello «che verrà», cioè nel Salvatore o nella Salvezza. Diversamente non sarebbe stato possibile recuperare dalle nebbie del passato i patriarchi dell’Antico Testamento, tanto per fare un esempio.

 

Se le cose stanno come dice l’Aquila, replica Dante, “ov è questa giustizia che ‘l condanna?” La risposta del pennuto è una stilettata al cuore: chi sei tu, che vuoi salire in cattedra per giudicare da mille miglia di distanza e non vedi oltre il tuo naso? “Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?” (Pd XIX 79-81).
Torna in primo piano il tormentone dell’imperscrutabilità della giustizia divina associata alla limitatezza della ragione umana e inseparabile dalla predestinazione. Ma nonostante l’altezza ormai raggiunta dai versi il problema non trova soluzione neppure nel Cielo equilibrato di Giove, la “dolce stella” (Pd XVIII 115), o comunque non trova una risposta alla portata degli uomini, ai quali è preclusa la visione di dio nella sua interezza.
Ignorando per un attimo l’arcigno interlocutore Dante si rivolge direttamente a Giove (secondo i classici figlio dell’algido Saturno e padre del focoso Marte) affinché interceda presso dio e solleciti una punizione esemplare a carico dei principi cristiani corrotti e del clero avido di danaro. Il gesto rivela la fede del poeta nell’antica religione astrale con i pianeti-dèi al centro, una fiducia del resto condivisa dall’intellighenzia medioevale nient’affatto provinciale ma bene inserita nel contesto continentale.
Nel mondo indoeuropeo la «vendetta di sangue», poi sostituita dal pagamento di un’ammenda, era cosa normale. Ancora in quello greco Nemesi (letteralmente “distribuzione del Fato”) veniva intesa come Giustizia Compensatrice, o Riparatrice, e così è stato fino alla tradizione giudaica che ammantando di superiorità l’autorità giudicante ha coniato il termine Giustizia Divina.
Niente di più facile che alla base dei meccanismi punitivi di cui l’Eurasia dell’Età del Bronzo fece largo uso e consumo ci fosse il senso profondo della comunione universale: il bene doveva essere compensato dal male in egual misura, e viceversa. Guai ad opporsi alla suprema Legge dell’Armonia! Chi aveva subito un torto sarebbe stato risarcito, mentre chi si era trovato a beneficiare di fortunate circostanze senza alcun merito (la Chiesa romana, nella fattispecie) doveva aspettarsi il peggio. Anche se talvolta la Giustizia divina può sembrare distratta, prima o poi arriva.

 

Nel frattempo al lettore sorge un dubbio: se i primi tre cieli sono calati in una dimensione sublunare tutt’altro che tranquilla, il Sole crea luci ed ombre, su Marte gli Spiriti Combattenti scorrono come forsennati e gli Spiriti Giusti di Giove se ne stanno annidati nel poco rassicurante occhio dell’Aquila, significa che non c’è pace neppure in Paradiso?
Per il momento godiamoci l’avanzata solenne dell’ultimo dei cieli planetari, Saturno, espressione della vita contemplativa al livello più alto, il quale appare come “la sommità dello Yoga, la calma profonda ad essere il mezzo” (Bhagavad Gītā VI, 3). Quassù Dante comprende cosa sia veramente il distacco totale “da ogne altro intento” e prende le distanze da se stesso.
Intanto la luce di Beatrice si è fatta talmente intensa che se solo gli sorridesse potrebbe incenerirlo, o accecarlo con il suo fulgore. Messo in guardia dal potenziale pericolo il poeta si gira dall’altra parte e vede l’ardente Costellazione del Leone nell’atto di diffondere sulla Terra il proprio influsso mescolato a quello di Saturno (Pd XXI 13-15). Quindi osserva gli Spiriti Contemplanti, che fluiscono come luci lungo i gradini di una scala dorata che sale verso l’alto a perdita d’occhio.
Lo spettacolo è stupefacente: uno sciame di anime sante scende dallo scalone roteando mentre il loro splendore cresce gradualmente; nel nugolo ci sono Pier Damiano e Benedetto da Norcia, due personaggi che in vita unirono in modo esemplare l’azione alla contemplazione. Prendendo la parola il primo non sa dire al poeta per quale motivo tocchi proprio a lui parlargli, neppure i beati conoscono le disposizioni occulte della Provvidenza divina.
Un grido lancinante interrompe la conversazione. La pace è bell’e che finita. Se in quello schiamazzo i beati volevano inviare al pellegrino un messaggio da decifrare, Dante non l’ha capito; meglio così, i danni provocati dagli ultrasuoni cosmici sono la rovina del cervello umano. E comunque l’intermezzo sonoro non spegne la polemica anti-ecclesiastica: “Tu vedrai”, tuona Beatrice, “la vendetta [di dio] innanzi che tu muoi” (Pd XXII 14-15).

 

Inutile dire che i commentatori nel corso del tempo hanno avanzato varie ipotesi a proposito di questa profezia, ma cosa veramente volesse dire Dante resta un mistero. Fa capolino in mezzo alle supposizioni una delle massime auree della nostra comune cultura: ogni cosa positiva nasce dal giusto zelo, mai eccedere né risparmiarsi, il tutto in armonia con i segnali provenienti dalle stelle che il libero arbitrio ha il compito di decifrare e mettere in pratica. Gli astri sono un dono di dio, ovvero la massima espressione del rapporto d’amore che lega il Creatore al creato; chi li ignora mette a repentaglio il proprio destino felice, cioè si nega al Bene per cui è stato creato.
Queste parole non vengono pronunciate in un posto qualsiasi bensì su Saturno, indicato come il vero simbolo dell’«astronomia/astrologia». Nel Medioevo era inoltre opinione diffusa che Saturno in congiunzione con Giove creasse condizioni eccezionali. Una per tutte: la nascita a Betlemme del Bambino che avrebbe redento il mondo (Matteo 2,1-2).
Anche secondo Keplero la famosa «stella cometa» che diede l’annuncio ai Magi non era affatto una stella bensì una congiunzione astrale, o per meglio dire la conjunctio magna verificatasi intorno al 7 a.C., data presunta della nascita di Gesù. Gli stessi Vangeli non parlano di «cometa» ma usano il termine aster, che significa «fenomeno celeste», un’ipotesi suffragata dall’Almanacco stellare di Sippar e dalla Tavola Planetaria di Berlino in cui sono registrati i movimenti e le congiunzioni astrali di quel periodo.
E’ raro, insomma, che la congiunzione Giove-Saturno passi senza lasciare il segno, a maggior ragione se la circostanza si verifica in prossimità dell’equinozio di primavera. Accadde qualcosa di speciale anche nel 1305, quando l’esule Dante vagando per l’Italia centro-settentrionale da una corte all’altra si sentì investito di una missione messianico-profetica e decise di addentrarsi nella selva oscura … il resto è patrimonio dell’umanità.
Chiaramente ognuno è libero di ascoltare o ignorare le stelle, come di cavarsela con un sorrisetto sarcastico pensando che gli Antichi fossero una massa di buontemponi. Tuttavia è ancora fresco il ricordo dei fatti verificatisi in prossimità dell’equinozio di primavera del 2020, quando Giove, Saturno e Marte furono in congiunzione (il 18 marzo) e il decrepito sistema liberista tentò di rifarsi una verginità, ribaltando il mondo con un colpo di mano. Ne è seguito un annus horribilis a livello planetario come non si ricordava da tempo, dopo di che l’ideologia antiuomo ha messo al bando ogni aspetto umano dell’esistenza. Forse tutto questo merita un pensierino, forse Dante aveva le sue buone ragioni, forse i presunti passi in avanti compiuti dall’umanità nell’ultimo secolo sono solo un diversivo per depistare i curiosi.

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (ed. Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (ed. Audax Editrice). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

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