10 Aprile 2024
Appunti di Storia

ASPETTANDO LA RIVOLUZIONE: Ferrara, 12 maggio 1922 (prima parte) – Giacinto Reale

Ho chiuso l’anno vecchio, questa notte,
con un discorso di propaganda: ho iniziato il
nuovo con un altro discorso.

(Italo Balbo, nel suo “Diario 1922”, alla data del 1° gennaio)

 

 

L’ “Esercito degli scalzi” muove sulle città.

 

Anche a Ferrara la battaglia interventista approfondisce le lacerazioni che già dividono la città. Da una parte, i partiti tradizionali, dai clerico-moderati ai socialisti, che si contendono il potere in alternanza elettoralistica, dall’altra, quelli di più recente costituzione o rivoluzionari, che nel sindacalismo di nuova fattura principalmente si riconoscono.

Le masse rurali sono convinte dalla predicazione di Umberto Pasella e Michele Bianchi (per citare solo due futuri dirigenti fascisti) e si inquadrano nella loro Camera del Lavoro Sindacalista. In città, invece, dove manca un vero proletariato industriale, a farla da padrone sono le vecchie consorterie. Pochi i nazionalisti, mentre i socialisti si affacceranno, dopo la grande stagione degli scioperi agricoli, intorno al 1910, affidandosi a giovani borghesi affascinati dalle promesse di chi vuole cambiare le cose e realizzare la tanto agognata giustizia sociale.

Di fronte alla guerra, i partiti “costituzionali” si dicono per un condizionato neutralismo, che per i socialisti diventa invece “senza se e senza ma”, mentre ad opporsi restano quelli che si riuniscono intorno al “Fascio interventista”.

Tra essi, in prima fila, Italo Balbo, che si definisce “mazziniano” e si è già messo in luce, quando nel 1911, studente di quarta ginnasiale, è scappato di casa per imbarcarsi, da Bari o Brindisi, verso l’Albania, dove Ricciotti Garibaldi sta organizzando una spedizione per sollevare la popolazione contro la Turchia. Il suo tentativo fallirà, ma nella – in fondo piccola – comunità ferrarese, il nome comincerà a circolare.

Due anni dopo, una manifestazione di migliaia di giovani, da lui guidata, si concluderà con la carica dei Carabinieri e lo schiaffeggiamento di un professore, vero atto rivoluzionario per i tempi. Un giovane “leaderino”, potremmo dire con termine moderno, che dimostra, da subito, capacità di controllare e guidare la massa. Soprattutto con l’esempio. Dopo un tentativo di espatrio in Francia, per andare a combattere con i garibaldini, prima ancora che l’Italia scenda in campo (come ha fatto Curzio Suckert), si arruola come volontario.

Va a fare servizio negli Alpini, passa agli Arditi Reggimentali, e si dimostra combattente di valore, guadagnandosi una medaglia di bronzo e due d’argento, fino al rientro a Ferrara, dove riprende la sua azione di propaganda mazziniana.

Infatti, è impegnato in un comizio fuori città il giorno 20 di dicembre del 1920, quando si verificherà l’episodio destinato a dare una svolta alla storia del fascismo ferrarese e nazionale, oltre che alla sua stessa vita.

A quella data, nella città estense il movimento fascista sta muovendo i primi passi: gesti goliardici, come la tradizionale sottrazione di bandiere rosse che sventolano sul Castello, si alternano a iniziative più squisitamente politiche, come quando i boicottati dalle leghe vengono convinti, con la promessa di protezione contro eventuali ritorsioni, a presentare regolare denunce alla Magistratura contro i loro persecutori.

A capo degli squadristi c’è Olao Giaggioli, valoroso Ufficiale in guerra, decorato con quattro medaglie d’argento, antisocialista fervente, ma per nulla disposto a farsi strumentalizzare dai padroni dell’Agraria. È lui che organizza, in occasione delle elezioni amministrative della fine del 1920, la prima dimostrazione di forza, con una ronda volante presso i seggi, per evitare la ripetizione delle violenze dell’anno prima, quando, alle “Politiche”, le cabine elettorali sono stati presidiate dai socialisti, che hanno coartato in tutti i modi la libera espressione di voto di quanti ritenevano potenziali avversari.

Ad affiancarlo, pochi altri, per i quali possiamo fare riferimento al “colorito” ritrattino di Manlio Cancogni:

 

Gaggioli era il fondatore del fascio di Ferrara. Nei primi tempi l’avevano seguito in pochi. Un giorno del ’20 aveva affrontato un comizio socialista che si teneva al Montagnone verso Porta a mare. I comizianti erano alcune migliaia, lui era solo, con una grande bandiera tricolore…era rientrato in città camminando in mezzo a Corso Giovecca, alto grosso, con la bandiera sula spalla, come se marciasse alla testa di un Reggimento. Lo seguiva una frotta di ragazzini incuriositi dalle quattro medaglie d’argento che portava sul petto.

Gaggioli era una specie di atleta. In guerra era stato Tenente dei Bersaglieri, ferito, più volte decorato, un eroe. Ora viveva modestamente facendo il tipografo…Dopo di lui, si erano iscritti: Breviglieri, che prima della guerra faceva l’operaio metallurgico a Parigi, e che ora era disoccupato; Alberto Montanari, detto “unghia d’oro” per la sua grande abilità nel giocare a carte, e Giulio Divisi, che più tardi avrebbe avuto il soprannome di “sciagura”. Anche Montanari in guerra era stato Ufficiale dei Bersaglieri, aveva ricevuto medaglie e promozioni, arrivando fino al grado di Tenente, benché avesse un modesto titolo di studio…Aveva una faccia spavalda, era un bell’uomo… (1)

 

Sono loro che, con uno sparuto gruppetto di camerati, hanno partecipato, a Bologna, il 21 novembre alla contromanifestazione – conclusasi tragicamente – per l’insediamento dell’Amministrazione socialista. Per rendere il favore, una cinquantina di fascisti bolognesi vengono a Ferrara per dare manforte al Fascio locale, il 20 dicembre. È una giornata particolare. I mussoliniani vogliono ricordare, ad un mese esatto, la morte dell’avvocato Giulio Giordani, consigliere di minoranza, ucciso a palazzo D’Accursio dalle Guardie Rosse, mentre i socialisti hanno organizzato un comizio di protesta, con l’intervento di tutte le organizzazioni della provincia, a seguito della bastonatura subita, nel capoluogo di Regione, dall’avv. Adelmo Niccolai, Deputato del collegio Ferrara-Rovigo.

Di nuovo in questo caso, come a Bologna, l’Autorità media, trovando, alla fine, una soluzione che sembra accontentare tutti: i socialisti manifesteranno all’interno del teatro comunale, mentre i fascisti non si muoveranno dalla loro sede di corso Giovecca. Anche stavolta, però, qualcuno non sta ai patti. I socialisti, per raggiungere il teatro, fanno volontariamente ed ostentatamente lunghi giri in città, sventolando le rosse bandiere, finchè i loro avversari, avvertiti dai cittadini inviperiti, escono dalla sede, pronti allo scontro.

E infatti, nei pressi del Castello, sede dell’Amministrazione comunale, i due gruppi vengono a contatto e partono i primi colpi di pistola; agli sparatori in piazza si aggiungono una ventina di Guardie Rosse che anche qui, grazie alla complicità dei consiglieri socialisti, si sono appostate, armate di fucili, in alto, sui tetti dell’edificio medievale.

Questa volta, fortunatamente, non c’è lancio di bombe sulla strada, ma i fascisti, bersagliati da più parti, hanno tre morti, due dei quali sono iscritti al Fascio da pochi giorni, alla loro prima avventura. Una quarta vittima è un infermiere estraneo ai fatti (per il quale i genitori, comunque, vorranno funerali insieme ai mussoliniani), e solo l’intervento della forza pubblica, che provoca la fuga dei cecchini così ben riparati, e quindi in grado di fare altri danni, evita un numero maggiore di caduti.

I funerali si svolgono qualche giorno dopo, con grande mobilitazione di tutti i Fasci limitrofi. Un elemento di novità e modernità rispetto alla solennità della cerimonia è l’apparizione di un aeroplano, che lancia fiori sulle salme mentre sorvola il corteo, al quale vi è un’adesione grande e spontanea da parte della popolazione.

Comincia da qui la fine del predominio rosso in città. Il primo a farne le spese è un dirigente arrivato da fuori, ma che ha fama di essere determinato e capace di risolvere le situazioni più difficili. Non a Ferrara, però:

Matteotti, inviato ad assumere il controllo del movimento nel Ferrarese, in assenza di Zirardini (il Sindaco resosi latitante ndr), fu costretto a girare per la città circondato da Guardie Rosse armate di bastoni. In una occasione, una folla di parecchie migliaia di persone si raccolse in pochi minuti mentre percorreva corso Giovecca, e lo bersagliò con frutta e ortaggi. (2)

In questo clima, aumentano le adesioni al Fascio. Si iscrive anche Balbo, e si può ben dire che, con il suo arrivo, la musica cambia, anche per personalissime “invenzioni”, che danno al suo Fascio sicuri tocchi di originalità:

Come i garibaldini, Balbo era avventuroso e romantico. Per lui le battaglie e la vita militare erano, come scrisse, “non solo azione, ma anche poesia”. Attraverso adunate, giuramenti, canzoni, riti di guerra, voleva imbandierare le sue spedizioni di poesia. Le scorrerie fasciste dovevano essere fatte con una baldanza, una temerarietà, una spregiudicatezza, una cavalleria “non priva di gaiezza”. Se si prevedeva che una marcia sarebbe stata pacifica, invitava la sorella Egle a partecipare al divertimento. Gli piaceva escogitare nuovi colpi, scherzi goliardici e tiri mancini, spesso crudeli. Per esempio, somministrare al nemico l’olio di ricino. Questa classica tortura squadrista probabilmente prese il via tra fascisti ferraresi, forse tra gli ex combattenti che ricordavano come i medici militari talvolta dispensassero olio di ricino al posto dell’aspirina. (3)

 

Se appare francamente esagerato – oltre che contrastante con gli stessi righi che precedono – parlare di “tortura squadrista” per quei bicchieri di “olio” già di normale uso tra i medici militari, va detto che la “poesia” non eviterà allo squadrismo ferrarese un pesante tributo di sangue, con una ventina di Caduti.

Questo va tenuto presente, anche nel valutare il brano che segue, di Giordano Bruno Guerri, che contiene una verità di fondo, normalmente sottaciuta, quando accenna alla “pericolosità” di essere squadrista a Ferrara, all’inizio dell’avventura balbiana, anche al netto di esagerazioni-eroicizzazioni che poi saranno comuni alle due parti:

Inoltre, bisognerà pur dire che nel ’21 fare lo squadrista a Ferrara era un mestiere né comodo né facile. Uno studio realistico sulla violenza in Italia durante quegli anni non è stato ancora fatto, ma generalmente si tende a ipervalutare la violenza fascista. Già allora, infatti, i fascisti avevano il massimo interesse a gonfiare a dismisura il numero delle loro azioni, la durezza dei loro attacchi, la quantità di nemici feriti. Allo stesso modo. i socialisti sconfitti avevano uguale interesse a far apparire l’avversario più attivo, forte e cattivo di quanto fosse in realtà.

Insomma: se un socialista riceveva un graffio da un fascista, entrambi hanno tramandato alla storia una ferita lacero-contusa, e il ribaltamento di due vecchie scrivanie in una Lega diventava per entrambi una distruzione totale. (4)

 

Sarà così per tutto il 1921, e già alla metà dell’anno all’incirca, quando, dopo le elezioni del 15 maggio che vedranno il trionfo dei candidati fascisti in loco (tra i quali lo stesso Mussolini), nonostante l’assenza di Balbo che sarebbe stato eletto plebiscitariamente, ma non ha voluto presentarsi, coerentemente con la linea “rivoluzionaria” ormai sposata in pieno, il pericolo sovversivo sul territorio potrà dirsi inesistente.

Lui preferisce stare tra i suoi uomini, che lo adorano. Tutti, anche quelli che al fascismo sono arrivati prima di lui, ma che gli riconoscono indiscussa superiorità nell’organizzazione e nel comando. Come gli squadristi della ”Celibano”, la più famosa squadra ferrarese:

Se non per ordine di tempo, certamente per merito, i celibanisti erano i primi squadristi di Ferrara. Due volte al giorno, dopo desinare e dopo cena, si riunivano in quel caffè (il caffè Mozzi, dietro piazza Duomo ndr) e, prima di lasciarsi, bevevano un bicchierino di cherry brand. Breviglieri (che poi sarà ucciso dai sovversivi il 10 aprile del ’21, a Pontelogoscuro ndr) una sera aveva detto al cameriere: “Dammi un celibano”. Gli era scappato così, senza pensarci. Da allora non dissero più “cherry brand”, ma “celibano”. Fu deciso di dare quel nome alla squadra. I celibanisti erano ventuno: la prima tessera fu data ad Olao Gaggioli, la seconda a Breviglieri. (5)

 

Tessera di “celibanista” vorrà anche Mussolini, che proprio a Ferrara, il 4 aprile del 1921, si rende conto dei mutamenti del movimento fascista, che si avvia a diventare di massa. Davanti al suo palco sfilano, infatti, 20.000 rurali inquadrati da Balbo, con bandiere e gagliardetti che hanno preso il posto di quelli delle vecchie Leghe. Un numero impressionante, se si considera che i mussoliniani in tutta Italia sono, a questa data, 80.000 circa.

Le 70 bandiere sottratte o consegnate dalle Leghe rosse, sullo sfondo del palco stesso, testimoniano una cosa, e cioè che la predicazione fascista, spesso affidata uomini del vecchio sindacalismo rivoluzionario, ha fatto breccia, più di legnature e rivoltellate. Al generico e astratto “la terra ai contadini” socialista, i fascisti sostituiscono un più calzante e realizzabile “la terra a chi la fa fruttare e la lavora di più, nell’interesse generale del Paese”, che, nelle ultime parole, risulta particolarmente gradito agli uomini di quelle “fanterie contadine” che – come molti dicono e credono – hanno consentito la vittoria in guerra.

Nei mesi successivi, in mancanza ormai di un avversario degno di questo nome, si svilupperà allora – così come avverrà da altre parti – una polemica tutta interna al movimento fascista (anche se, forse, parlare di “dissidentismo” è qui un po’ improprio, e sarebbe più esatto dire “opposizione anti-Balbo”, con forti carattere di personalismo).

Il futuro trasvolatore non se ne curerà più di tanto, e, se da un lato si impegna nella contrapposizione al “Patto di pacificazione”, dall’altra prosegue nella sua opera di “capo militare del fascismo”, il cui capolavoro sarà la “Marcia su Ravenna” di settembre.

Lo dimostra anche lo stile col quale ricorderà questo episodio, in un discorso pronunciato a Milano il 21 aprile del 1923, nella sua nuova veste di Comandante Generale della Milizia:

L’11 settembre, anniversario della Marcia di Rochi, tremila fascisti in camicia nera entravano polverosi in Ravenna ed inchinavano i loro gagliardetti innanzi alla tomba del divino Poeta.

Era quello un piccolo Esercito, che ho avuto l’onore di comandare, l’Esercito di Bologna e di Ferrara, divido in Reggimenti, Battaglioni, Compagnie e Plotoni, un Esercito che aveva marciato per tre giorni sulle vie polverose, che aveva consumato i ranci sulle sponde dei larghi fossati, che aveva sostato negli accantonamenti sulla paglia fragrante e che, per ordine e disciplina, s’era comportato come una vecchia e superba Brigata di fanti. Era un Esercito di studenti e di contadini, lieto della faticosa marcia che gli donava l’applauso delle popolazioni attonite e la gioia della conquista.

A Ravenna i Reggimenti compiono il rito d’omaggio del fascismo al poeta della Patria, congiungendo il suo nome al martirio di Fiume ed al gesto liberatore di Gabriele d’Annunzio. (6)

 

Lascerà così campo libero in città ai suoi avversari interni, ma senza grossi risultati:

 

Questa fu la situazione di fronte alla quale venne a trovarsi Balbo al ritorno dalla “Marcia su Ravenna”. Da quel momento, a Ferrara, fu tutto un susseguirsi di assemblee e controassemblee, di manifesti e contromanifesti delle due fazioni in xcui si divide il fascismo cittadino. (7)

 

 

FOTO 1: Ferrara 1920, il Castello

FOTO 2: 1914, il giovane Balbo interventista

 

 

 

NOTE

  1. Manlio Cancogni, Storia dello squadrismo, Milano 1959, pag. 75
  2. Paul R. Corner, Il fascismo a Ferrara, Bari 1974, pag. 133
  3. Claudio G. Segrè, Italo Balbo, Bologna 1988, pag. 69
  4. Giordano Bruno Guerri, Italo Balbo, Garzanti 1984, pag. 77
  5. Manlio Cancogni, cit., pag.74
  6. Italo Balbo, Lavoro e milizia, ristampa sil, 2018, pag.30
  7. Alessandro Roveri, l’affermazione fascista nelle campagne ferraresi 1921-22, Ferrara 1979, pag. 26

 

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