11 Aprile 2024
Storia

Afrit… un racconto di Gianluca Padovan – 2^ parte

Il Balosso non era poi così stupido o sprovveduto. E di domande se ne faceva eccome.

Ad esempio, quello che mai riusciva a spiegarsi era per quale mefistofelico motivo il Regno d’Italia fosse entrato in guerra. Già, perché con i fatti di Danzica, in quell’agosto del 1939, con i Polacchi che aprirono il fuoco e i Tedeschi che colsero la palla al balzo in quanto attaccati, gli Italiani se n’erano stati in un cantuccio e guardandosi bene dall’intervenire accanto all’alleato. Salvo poi dichiarare guerra l’anno successivo a una Francia digià sconfitta dalle truppe alemanne. Pareva proprio che l’Italia le legnate se le volesse cercare con il lanternino!

Ma quel che non si diceva era che il re d’Italia, o Mussolini, o chi per loro, non aveva avvisato per tempo la flotta mercantile italiana. Risultato: in guerra si partiva già zoppi perché la metà dei mercantili, quelli migliori e più grandi, ovvero quelli oceanici che stavano navigando al di là dello Stretto di Gibilterra, erano finiti “sequestrati” nei porti stranieri. Sarebbe bastato dare l’ordine di rientro in patria con un paio di settimane d’anticipo…

E poi, perché negarlo, la marina inglese percorreva più o meno 5.000 chilometri per rifornire le proprie basi in Egitto, riuscendovi pienamente. Quella italiana non era in grado di percorrere poche centinaia di chilometri di Mediterraneo per fare altrettanto con le eroiche ma scalcagnate truppe del Regio Esercito.

Talvolta il Balosso allontanava da sé i libri di storia che parlavano di tali incongruenze. E con un moto di stizza. Ma poi finiva per riacchiapparli, perché gl’incubi del padre Cecco e l’Afrit gl’impedivano di abbandonare le proprie indagini “casalinghe”.

Certamente un dubbio gli era venuto, forse colto dalla cosiddetta “febbre cospirativa”: non è che qualche generale italiano voleva fare finta di chiudere lo schieramento con un pugno di ragazzotti pervasi certamente da patriottico spirito, ma digiuni delle cose belliche, al fine di fargli fare la fine della porta che viene sfondata?

Difatti le Brigate avversarie puntavano verso nord-ovest proprio nell’intento di superare Bir el-Gobi, certe di sbaragliare con qualche pedata quel pugno di “ragazzi”, e tagliare così in due la sconnessa asse italiano-tedesca fin’oltre Tobruk.

Qualcheduno a Roma, e conseguentemente anche nella propria comoda postazione di retrovia laggiù nel deserto, desiderava forse che l’Italia si dichiarasse sconfitta già nel 1941?

«Ovviamente sì!», pensava il Balosso.

Al di là di tante chiacchiere da bar il dato di fatto chiaro e inequivocabile che rimase alla Storia, quella vera, fu quello dei reiterati attacchi avversari che s’infransero contro le postazioni italiane attorno alle tre quote di Bir el-Gobi.

L’attacco persistette fino al 7 dicembre, ma inglesi, indiani e quanti altri al seguito si dovettero ritirare, sconfitti da un “pugno di ragazzi”. I “britannici” lasciarono sul campo una cinquantina di mezzi tra carri armati, autoblindo e altri mezzi ruotati, perdendo più di un migliaio di uomini tra morti, feriti, dispersi e prigionieri.

*****

La madre del Balosso si nettò delicatamente le labbra “in punta di tovagliolo” e alzò lo sguardo dicendo sommessamente: «Tuo padre s’indignò quando andò al cinema a vedere il film “Salvate il soldato Ryan” del regista Steven Spielberg».

Il figlio la guardò con fare interrogativo intanto che le mascellone sminuzzavano un’ampia porzione di petto di gallina bollita.

«Sì», proseguì la madre, «alla fine del Novanta uscì questo “filmone ollivuddiano” ambientato nella Francia del 1944. Parlava della missione affidata a un capitano americano del 2° Battaglione Ranger, ruolo interpretato da Thomas Jeffrey Hanks, il “superpremiato” Tom, il cui padre Amos era un discendente del rosacrociano Abrahm Lincoln, XVI Presidente dell’Unione…».

«Però!», la interruppe il Balosso intanto che frenava un cacofonico rutto nel tovagliolo, «Dacché non ti sbottonavi, Ma’, ora me la stai condendo un po’ troppo lunga…».

La donna l’ignorò proseguendo pacatamente, ma imperterrita. Sapeva bene che in quella “testa tutt’osso”, come avrebbe detto un toscano, c’erano pur sempre una scintilla d’intelligenza unita ad un primitivo intuito.

«Il tuo povero padre diceva che era colpa del karma, sì… disse che fosse il karma che lo perseguitava…».

Su questo termine della filosofia o religione indiana indicante che il risultato delle azioni compiute da ogni essere umano influivano sulla sua rinascita successiva, il Cecco ogni tanto ci disquisiva. Preferiva comunque interpretare il karma come “destino”, o meglio come conseguenza immediata o quasi delle azioni compiute in vita.

«Dai, Ma’, perché il babbo s’impermaliva con ’sto film?», ora incalzava incuriosito il Balosso.

«Nella pellicola si fa vedere che il capitano americano, per salvare la vita dei propri commilitoni e soprattutto di Ryan, benché ferito avanza, ma subito s’accascia contro un sydecar, … però estrae la propria pistola e spara ripetutamente contro un carro armato Tigre che avanza…, ma questo viene colpito da un aereo…».

«Ah, questa poi!» esclama il Balosso, subito zittito dalla madre.

«Tuo povero padre disse che quei mascelloni vitaminizzati degli Americani avevano copiato il fatto». L’anziana bevve un sorso d’acqua e meccanicamente si pulì ancora una volta le labbra sottili e quasi esangui.

«Il terzo giorno della battaglia di Bir el-Gobi, ovvero il 5 di dicembre», spiegò inarrestabile la madre, «un carro inglese… e tuo padre ripeteva che si trattava probabilmente di un “Mark III”, detto affettuosamente “Valentine” in quanto il primo prototipo venne pronto il 14 febbraio 1940…, colpisce a cannonate una postazione d’artiglieria e poi vi si dirige per finire il lavoro con mitragliatrice e cingoli».

Il Balosso ha la bocca spalancata come un’ebete, per lo stupore, dal momento che sua madre pareva avere finalmente rotto ogni reticenza.

«Ippolito Niccolini, già ferito più d’una volta, balza fuori, lancia una bomba contro il carro armato che sferraglia facendo sprizzare ai lati ciottoli e sabbia… ma quello non si ferma… oramai è a pochi metri dai suoi commilitoni feriti… che saranno impietosamente macinati dai cingoli fatti ruotare a bella posta…».

«E quindi?!?», incalza il figlio.

Ma la madre lo ignora, abbassando commossa lo sguardo sul piatto… «Estrae la pistola e, mirando alla feritoia del pilota, spara fino a vuotare il caricatore. Il carro sbanda un poco e poi si arresta, segno che ha fatto centro, ha ucciso il pilota. Purtroppo Ippolito rimane schiacciato dal carro stesso, non avendo potuto gettarsi di lato. Una foto di cui parlava spesso il tuo povero padre era quella che ritraeva il fratello, Mario Niccolini, con un braccio ferito al collo, accanto a quel carro armato oramai fermo e conquistato».

«E allora?», bofonchia il Balosso.

«E allora…», gli fa bonariamente il verso la madre, «allora devi sapere che il pilota di un carro Tigre guardava all’esterno attraverso una sorta di periscopio fatto con vetro blindato, mentre il pilota del carro inglese guardava attraverso una semplice feritoia… pertanto solo quest’ultimo si poteva ammazzare a pistolettate… testa di rapa!».

Il Cecco era poi finito a el-Alamein, nel 1942. Ma quella era un’altra faccenda.

Però sembrava che la guerra non gliene avesse fatte passare abbastanza, perché anni dopo tornò tra le sabbie del Sahara, un inverno, per dare una piccola mano a un altro soldato: Paolo Caccia Dominioni. Costui s’era arruolato volontario nella Prima Guerra Mondiale, aveva partecipato alla Guerra d’Etiopia nel 1935, nel 1942 era divenuto comandante del 31° Battaglione Guastatori d’Africa e aveva combattuto anche a el-Alamein. Infine, nel 1944, era nella Brigata partigiana Garibaldi; catturato, venne fatto rilasciare dai Tedeschi e probabilmente su ordine di Rommel.

Il Cecco soggiornò per un paio di settimane proprio a el-Alamein, in una baracca, aiutando Dominioni a recuperare scheletri di fanti e di paracadutisti italiani, ma pure d’inglesi e d’australiani, da comporre nelle tombe. Dominioni dava corpo al proprio impegno di voler costruire un sacrario, là in mezzo a quella distesa di sabbia, schegge e rottami. E il tutto in barba alla burocrazia e alla politica italiane che di quella località, el-Alamein per l’appunto, e dei suoi morti, non ne voleva nemmeno sentire il sussurro.

Da parte sua, il Cecco diceva che fosse stato il karma a riportarlo nel deserto. Sua moglie brontolava che fosse il fatto che per lui quella maledetta guerra non era realmente mai finita.

«Tuo padre soleva raccontarmi alcuni episodi, un po’ macabri e inquietanti, per la verità… Ovvero che talvolta comparivano gli spettri dei soldati morti e non per fare paura ai vivi, ma per indicare dove fossero le spoglie affinché si potesse dare loro una degna sepoltura».

Il Balosso stava ancora a bocca spalancata, ma il suo cervello registrava e si muoveva vorticosamente. In senso metaforico, ovviamente.

La madre s’alzò dirigendosi in soggiorno, per prelevare un piccolo volumetto dalla copertina rigida macchiata di scuro: “El Alamein 1933-1962”. Tornata in cucina ne sfogliò le pagine mormorando: «Già nel 1948 Caccia Dominioni se n’era accorto, che i beduini nutrivano seri timori. Ed ecco qui una testimonianza dell’anno successivo, datata 15 agosto 1949, che spiega il terrore degli arabi che stavano a el-Alamein: “Ho paura dei morti, la notte.” “E tu?” A mezzanotte ho sentito un rumore, sono uscito e ho visto l’afrit, il fantasma.” “Com’era vestito?” “Di tela. In testa aveva un cappello di ferro, con tante piume che gli sventolavano da una parte”». E la donna chiuse il libro.

L’afrit era il fantasma, o i fantasmi.

In tempo di guerra gli Ascari ne avevano un sacro timore e lo palesavano ogni qualvolta ne vedevano qualcuno.

Ma anche dopo la guerra gli arabi li vedevano camminare tra la dune, questi “afrit”, e ne udivano talvolta i lamenti…

«Tuo padre rimase poco a el-Alamein, a scavare tombe. Ma prima di tornare definitivamente a casa volle dirigersi laddove ebbe il battesimo del fuoco. E se ne pentì, perché nelle tre notti in cui bivaccò a Bir el-Gobi non poté chiudere occhio… da tanti amici e commilitoni si recavano a salutarlo pregando che le spoglie loro si facessero tornare in patria».

L’ultima mattina si fermò davanti a quella che doveva essere stata la tomba del caporale Giorgio Cocchi, su cui anni prima s’era piantata la croce di legno e su di un braccio un commilitone aveva fissato il nero fez.

«Riposa in pace…», solo quello gli era riuscito di dire.

La madre infine tacque.

Mai più tornò sull’argomento.

Col tempo, a dispetto delle reticenze dei genitori, il Balosso aveva comunque capito il perché di talune sue inquietudini tanto notturne quanto diurne. Purtroppo pure lui sentiva e talvolta vedeva gli “afrit”.

Aveva capito perché, stramaledizione, quando passava per via Maiocchi la testa gli ondeggiava e sentiva le urla. Erano le urla dei civili rimasti intrappolati sotto le macerie delle loro case per via dei bombardamenti aerei. E che finirono poi all’ossario, nella fossa comune o tra i rottami della città semicancellata con cui si innalzò il Monte Stella, ovvero la verruca di macerie e rifiuti che viene chiamata anche “Montagnetta di San Siro”.

Quando passava per il quartiere Gorla era anche peggio. Superato il settecentesco ponte sul Naviglio Martesana due braccia tese sorreggenti il bimbo morto lo salutavano, immancabilmente. Ma se quelle del monumento le vedevano tutti… le braccia, le decine e decine di braccia che uscivano da sotto le aiuole, da sotto l’asfalto e dal monumento stesso le vedeva forse solo lui. Erano quelle di quasi duecento piccoli scolari morti con i loro insegnanti nell’esplosione della bomba americana, sganciata il 20 ottobre 1944 da un luccicante bombardiere sulla scuola. Uno dei tanti, tantissimi, che avevano bersagliato il popolare quartiere.

E non per errore.

L’africano enorme aveva visto un fantasma, l’afrit! E lui, il Balosso, quello che fin da ragazzino prendevano in giro perché “vedeva cose e sentiva cose”, l’afrit l’aveva sentito come un brivido nella schiena almeno un paio di secondi prima che il metrò inchiodasse in galleria.

Dopo frenata e bestemmie dei passeggeri l’altoparlante del convoglio metropolitano cinguettò: «… quindi stiamo aspettando il segnale dalla Centrale operativa per proseguire il viaggio». La seconda cinguettata venne emessa in lingua inglese.

«Il segnale un paro di c…» sbraitò un signore di mezza età che si rassettava i pantaloni.

L’enorme africano s’era infine messo a sedere e tra le mani strusciava uno strano oggetto di legno e cuoio estratto da una tasca della sua tunicona. E borbottava una litanìa altrettanto strana. Ma il motivo era chiaro: recitava qualche cosa e faceva gli “scongiuri” manco fosse un italiano superstizioso!

Per un istante il Balosso ripensò al fatto che lo scavo dei tunnel metropolitani avesse turbato il sonno dei morti sepolti nelle macerie, le cui ossa erano inglobate nei calcinacci che in molti punti della città erano stati solo spianati per fungere come base alle nuove costruzioni, oppure da sottofondo al manto stradale.

I cadaveri, calcinati o solo pressati “a modino” dalle macerie, si erano sicuramente polverizzati… infilandosi, insinuandosi nelle fondamenta delle case.

E le “presenze”?

Forse sì, c’erano… anzi, sicuramente…

Tutto torna, se non proprio come nell’origine, ma torna e in ottemperanza a taluni aspetti del karman

Ma lui, e non lui solo, qualche “afrit” lo aveva sempre visto… seppure più di rado con il passare degli anni.

Al Balosso balenò un quesito nella mente: “..ma i sensori di movimento piazzati lungo le gallerie delle linee metropolitane… sì, proprio quei modernissimi sensori appena messi… potevano rilevare le presenze incorporee?”.

L’omone scuro gli pose con delicatezza, ma con estrema fermezza, la mano sul braccio e lo guardò dritto negli occhi: «Ti sento… anche se non parli. Fidati dei tuoi sensi… i moderni sistemi di rilevamento installati nelle gallerie per via dell’orwelliano terrorismo sono in grado di rilevare tutto!».

E il Balosso, sbalordito e stentando a credere alle proprie orecchie, si lasciò sfuggire un debolissimo: «… ovvero proprio tutto?!? Anche l’afrit?».

 

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