13 Aprile 2024
Attualità Enrico Desii Esteri Marò

A due anni dall’inizio del caso, al governo interessa veramente far tornare in Italia Girone e Latorre?

Di Enrico Desii
La vicenda di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre ha ormai assunto, dopo le rinnovate voci su una possibile condanna alla pena di morte dei due fucilieri di Marina, i contorni dell’assurdo. Oltre alla preoccupazione per l’incolumità dei due militari italiani che, nella migliore delle ipotesi, vengono sottoposti da mesi ad una tortura psicologica comunque intollerabile, vale la pena sottolineare come gli eventi ribadiscano la considerazione della quale gode il nostro governo. Il quale, non solo si è infilato in questo labirinto, ma, in quasi due anni, non è riuscito a negoziare una soluzione diplomatica che potesse essere accettabile per entrambe le parti.

Ci siamo limitati, in sostanza, ad interventi di scarso spessore, tremebondi e poco convinti, soddisfacendo sempre le pretese indiane. Improvvisando sulla vita di due persone che, tra l’altro, sono loro stessi rappresentanti delle istituzioni. Ben diversa, naturalmente, sarebbe stata la reazione istituzionale e dell’opinione pubblica se, a venire sequestrati fossero stati i rappresentanti di qualche organizzazione no-profit al servizio di interessi altrui. Allora ci sarebbero le foto appese a tutti gli edifici pubblici, manifestazioni e presidi di protesta ad intervalli regolari. Neanche il papa avrebbe fatto mancare la sua parola.

In questo caso, invece, non se ne parla nemmeno. Si tratta di due militari, non pacifisti per definizione, troppo abituati alla gerarchia. E poi si sa che l’Italia, a partire dall’otto settembre 1943, le divise del proprio paese non le ama, preferisce obbedire a quelle straniere.

L’atteggiamento è ancora più stridente se paragonato a quello tenuto dall’India medesima nei confronti degli Stati Uniti dopo l’arresto a New York, nel dicembre scorso, della vice console per questioni di pagamento e di documenti della colf. Oltre alle ritorsioni diplomatiche, il governo di Nuova Delhi ha immediatamente fatto rimuovere le protezioni antiterrorismo in cemento davanti all’ambasciata. Chi deve capire capisca, insomma.

Gli avvenimenti che hanno coinvolto i due marò, sono (abbastanza) noti e non voglio stare qui a ripercorrerli. Mi permetto solo di mettere in luce alcuni elementi che mi sembrano difficilmente comprensibili e che hanno contribuito a provocare l’attuale situazione di stallo.

Mi pare, innanzitutto, singolare, che due militari di uno dei corpi più prestigiosi di quel che resta delle forze armate italiane, vengano stabilmente utilizzati, distogliendoli dalla loro funzione di tutela della Patria, a bordo di navi da trasporto a difesa di traffici commerciali privati, sia pure minacciati da un crimine come la pirateria. I quali privati, poi, li ringraziano anche di cuore, se è vero che l’armatore ed il comandante della Enrica Lexie hanno accolto senza tante discussioni, dopo la morte dei pescatori, le richieste delle autorità di inversione della rotta fino ad entrare nelle acque territoriali indiane. Di fatto consegnando i due fucilieri alla polizia.

Il tragicomico comportamento dei governi italiani che hanno “gestito” la vicenda, poi, è sotto gli occhi di tutti. Basti l’esempio del marzo 2013, quando i due marò dovrebbero rientrare dalla licenza loro concessa per poter votare alle elezioni politiche. Prima il ministro degli esteri Giulio Terzi di Sant’Agata annuncia che Girone e Latorre non sarebbero tornati in India, rivendicando la giurisdizione italiana sulla vicenda. Pochi giorni dopo il suo presidente del consiglio lo smentisce, costringendo i due militari a tornare a Nuova Delhi. Una prova di compattezza politica che, ovviamente, non può che impressionare la controparte. Se immediatamente sorge il sospetto che dietro la restituzione dei due marò vi siano interessi economici inconfessabili, il governo si dimentica, oltretutto, che, quando per il fatto c’è il rischio della condanna alla pena di morte, non si procede nemmeno all’estradizione di un criminale.

Sarò un illuso, ma mi stupisce anche il comportamento dei nostri vertici militari. Possibile che, in tutte le occasioni pubbliche che vi sono state in questi due mesi, nessuno abbia avvertita la necessità di compiere un gesto clamoroso di protesta contro un governo che afferma, ad esempio, di aver ricevuto garanzie di non applicabilità della pena di morte e viene smentito poche ore dopo da quello di Delhi? Per quanto possono valere, naturalmente, le assicurazioni dell’esecutivo rispetto ad un caso che è di competenza della magistrature che, almeno a parole, è normalmente indipendente. Troppo impegnati, i nostri bravi soldati, a dimostrare la propria fedeltà alla repubblica durante le parate del 2 giugno? Impensabile rovinarsi una carriera piena di distintivi? Può darsi. Spero che, almeno in privato, a qualcuno la coscienza rimorda, ricordandosi che l’onore è un’altra cosa. Per averlo letto in qualche libro, non per altro.

Negli ultimi giorni, poi, a fronte del riemergere della possibilità della pena di morte, da parte italiana è stato un susseguirsi di dichiarazioni in libertà. Se il ministro della difesa, Mario Mauro, rivela che la campagna elettorale indiana si sta avvicinando in maniera “prepotente e preoccupante” alla questione (interessante che il dibattito venga fatto sulla pelle di due nostri compatrioti), il presidente del consiglio riunisce un vertice d’urgenza del governo annunciando che si riserva di assumere “tutte le iniziative necessarie” (?). La ministra Bonino, evidentemente più interessata dalla vicenda Shalabayeva, si è limitata a constatare che “la situazione da parte indiana è sempre più confusa: la polizia non ha ancora esplicita
to i capi d’accusa
” (motivo in più per non riconsegnarli lo scorso anno). Il vicepresidente della Commissione dell’Unione Europea (già…che fine aveva fatto?) Antonio Tajani, si ricorda improvvisamente di essere italiano e afferma che “non si può negoziare un accordo di libero scambio con un paese che non rispetta i diritti umani”, annunciando che sulla vicenda “scriverà” a Barroso. Il quale, evidentemente, non ne è molto informato.

Molte parole, come si vede. Ma l’impressione è che, per i due militari italiani, la patria (in questo caso con la minuscola) sia lontana, molto lontana. E non soltanto per una questione di chilometri.

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