14 Maggio 2024
Appunti di Storia

1919: turbolento, diabolico e glorioso (3^ parte)

L’aristocrazia dei combattentiIl proletariato dei geniali

 

5. L’ARISTOCRAZIA DEI COMBATTENTI

Per quella parte di opinione pubblica che di qui a qualche mese di definirà “fascista”, la contestazione a Bissolati assume quindi una grandissima l’importanza; infatti, si realizza nella serata scaligera la prima occasione di incontro effettivo, “sul campo”, tra ambienti umani strettamente collegati all’esperienza di guerra, che d’ora in poi, saranno sempre vicini al movimento mussoliniano.

Per costoro, veramente, l’elemento unificatore è costituito dai quattro anni di guerra: ad essa sono arrivati in massima parte con poche e non sempre chiare idee politiche, al fronte hanno affinato convinzioni e progetti a contatto con i più consapevoli sindacalisti rivoluzionari e nazionalisti, e sono ora tornati per dire la loro; soprattutto li spaventa la condanna, a cui sembra destinarli l’arroganza dei vecchi alleati e l’impotenza del Governo, a diventare i “vinti della vittoria”. Contro questa prospettiva principalmente intendono indirizzare il loro impegno.

Tra i primi vi sono i decorati e i mutilati; i decorati, orgoglio dell’intera Nazione, esaltati negli anni di guerra come i migliori esponenti della Patria in armi, conservano, soprattutto agli occhi dei più giovani e dell’ambiente militare in genere, grande fascino e capacità di attrazione. E’ per questo che i nastrini che fanno bella mostra sui loro petti serviranno, nei mesi a venire, a risolvere pacificamente più di un’occasione di attrito tra forze dell’ordine e fascisti.

I mutilati, con la partecipazione del loro più noto rappresentante, il “supermutilato” Carlo Delcroix al Congresso fascista fiorentino dell’ottobre ’19, confermeranno la sincerità di un legame profondo tra loro, che nella carne portano i segni della sofferenza per l’Italia, e i fascisti, che della vittoria italiana sono i più strenui difensori: legame che le manovre nittiane non indeboliranno per niente, perché, come dirà a Firenze Delcroix:

“Fratelli fascisti, posso assicurarvi che i mutilati d’Italia non si sono venduti e che la loro pensione non è per essi una catena ai piedi. Essi sapranno adoperare i loro moncherini per segnalare la sentenza di morte a tutti i vigliacchi. Noi abbiamo ritrovato la Patria e vogliamo portarla a salvamento.”

 

Ci sono, poi, i volontari di guerra e gli ex interventisti: essi hanno costituito il nucleo centrale dell’Esercito combattente e la punta di diamante dell’intero Paese in armi; spesso malvisti in guerra dai quadri di un Esercito professionale, per il quale costituivano un elemento di indubbia turbativa, sono ora affratellati da un comune sentimento di orgoglio, per aver salvato, con l’offerta della vita, la Nazione, e di disgusto per un’Italia ufficiale che sembra ignorare ogni sacrificio.

Sempre vicini al nascente fascismo, riceveranno pubblico riconoscimento dallo stesso Mussolini che, nei mesi a venire, ammetterà che il suo movimento tra le moltissime antipatie di cui è “onorato”, riesce ad andare d’accordo solo con gli Arditi e con i volontari di guerra.

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E, infine, ci sono i profughi e gli irredenti: la loro presenza, molto rumorosa ed irrequieta, a dispetto del numero non elevato, è carica di significati, perché testimonianza viva e fremente delle motivazioni della guerra e monito contro la minacciata mutilazione della vittoria. Mutilazione che cancellerebbe il senso stesso di un amor di Patria che ha visto i combattenti delle terre irredente, pochi ma valorosi, guadagnarsi una messe di medaglie al valore senza eguali, in quella che per loro è stata veramente una “guerra di indipendenza”.

I nomi di Damiano Chiesa, di Fabio Filzi e Nazario Sauro, e quello più noto di Cesare Battisti, sono, in queste settimane, frequentissimamente richiamati nei discorsi di chi non vuole cedere alla rassegnazione; già il 3 gennaio, i Dalmati delle ancora “non redente” Spalato e Trau rivolgono un saluto al Popolo d’Italia, assertore della battaglia di italianità contro ogni servitù straniera; sono i primi passi di un’intesa che farà di profughi ed irredenti, insieme con Arditi e futuristi, uno dei tre raggruppamenti ufficialmente a sostegno della lista fascista alle elezioni milanesi di novembre.

Ma, soprattutto, la sera dell’11 gennaio vengono in primo piano futuristi ed Arditi che, non solo saranno, almeno fino alla metà del 1920, i maggiori propagandisti dell’idea fascista, ma costituiranno, di fatto, il fulcro delle prime squadre d’azione.

 

6. IL PROLETARIATO DEI GENIALI

Arditi e futuristi sono, fin dalla fine della guerra, i più vicini all’ambiente umano mussoliniano che gravita intorno al Popolo d’Italia; diversi sono, però, i contributi e gli apporti che queste due categorie, questi due gruppi umani portano al primo fascismo; diversità che derivano dalla stessa natura degli appartenenti ai due gruppi.

Se per gli Arditi si può anche parlare – con tutti i limiti propri di una generalizzazione – di “fegatacci” senza tanti scrupoli e con uno spiccato gusto per l’azione diretta, lo stesso discorso non può valere per i futuristi, “proletariato dei geniali” che, nella quasi totalità, sono dotati di cultura superiore alla media e animati da interessi ed aspirazioni artistico-letterarie.

I primi costituiscono, per la loro varia provenienza sociale, formazione culturale, e spesso diversa origine politica, un agglomerato meno stabile, tenuto insieme dalla mistica della guerra e dal ricordo dei sacrifici compiuti, come aristocrazia dei combattenti.

I secondi, invece, sono un gruppo più omogeneo, già collaudato dalle esperienze dell’anteguerra, sia artistiche (le cosiddette “serate futuriste”) che politiche (le manifestazioni interventiste). I loro discorsi culturali, la ricerca del nuovo nell’arte e nella politica, la volontà di “svecchiare, purificare, innovare e velocizzare” l’Italia costituiscono la vera novità “originariamente italiana” nel panorama politico nazionale.

I futuristi portano quindi al primo fascismo anche il loro bagaglio di curiosità intellettuale e di gusto per la ricerca e la sperimentazione in tutti i campi, spesso al confine con la provocazione pura e semplice; forniscono agli spiriti inquieti dei primi squadristi il necessario supporto intellettuale per l’azione di piazza.

Il discorso politico futurista è volutamente poco realista, utopico e fantasioso: in esso, affermazioni di principio, destinate a restare solo sulla carta, si alternano a punti fermi che rispecchiano le istanze più rivoluzionarie dell’epoca: innanzitutto l’antiparlamentarismo. Non è in verità questa una prerogativa solo futurista: anche D’Annunzio non mancherà di definire la Camera dei Deputati come:

“…uno di quei bordelli regolamentari, situati sull’orlo della zona di fuoco, dove si scaricava di tratto in tratto la foia cieca della trincea prossima e si perdeva, senza fecondità, un torrente di giovane semenza, bastevole a impregnare una moltitudine di voragini e di gigantesse”.

 

Coerentemente a questa loro vocazione, l’11 luglio del ’19, Vecchi e Marinetti riescono ad accedere alla tribuna di Montecitorio ed insultano violentemente in quella “austera” sede Nitti; Marinetti, in particolare, lo apostrofa con insolenza:

“A nome dei Fasci di combattimento, dei futuristi e degli intellettuali protesto per la vostra politica, e urlo “Abbasso Nitti! Morte al giolittismo!”. Dichiaro che non può sussistere il Ministero dei sabotatori della vittoria, degli schiaffeggiatori degli Ufficiali, un Ministero che si difende con i Carabinieri e coi poliziotti… Vergognatevi! La gioventù italiana, per bocca mia, vi urla: “Fate schifo! Fate schifo!”

 

La pregiudiziale antidemocratica fa il paio con l’antiparlamentarismo; anch’essa è una costante della parte più vivace della cultura italiana: contro la democrazia, un attacco particolarmente violento è apparso sulle pagine di Lacerba nel 1914:

“Accidenti alla democrazia, impero delle bestie da soma, regno degli schiavi, padronanza dei servi, supremazia degli impiegati! Democrazia, sostegno degli sfiaccolati, trionfo dei cimiciosi, gloria dei piattolosi, arma dei brodoloni: democrazia, orchestra dei miasmi, concerto di sputi, convegno di sudori, sistema di muffe; democrazia, vittoria dei muscoli e disfatta dei nervi, esautorazione dell’arte e imposizione del mestiere, vita del debole e agonia del forte: lurida, sudicia e tetra democrazia, cloaca dove affogano fantasia, impegno, energia e tutte le soavità; proterva asineria, fessa stivaleria. Abbasso la democrazia!”

 

Contro il “democratico”, come tipo umano, rincarerà la dose, in perfetto stile futurista, Luigi Freddi, nel maggio del ’22:

“E il democratico? Oh! Il democratico è l’animale più noioso e più sciocco che il buon Dio abbia creato. Volete una ricetta per riconoscerlo ad occhio nudo? Ecco: se deve salire in tram aspetta che la vettura sia ben ferma; esce con l’ombrello non appena una innocua nuvola appare all’orizzonte; usa tacchi di gomma e cravatte col nodo già fatto; tiene sempre la sua destra lungo la via e rasenta i muri camminando; a scuola era il primo della classe e prendeva sempre 10 in condotta e 0 in ginnastica; nella vita è puntualissimo all’ufficio che è – quasi sempre – governativo; porta abiti ben spazzolati ma di taglio antiquato e lucidi… sul sedere; non gioca che a briscola la domenica, il primo maggio va in campagna e nelle altre feste ai giardini pubblici; legge da cima a fondo la gazzetta preferita e benpensante che poi ripone accuratamente; ne conserva 12 annate sul solaio… ; la sua casa ha un aspetto quasi pulito e la ornano le oleografie di Cavallotti, Garibaldi Mazzini e… Bissolati; ama assai il manzo a lesso, le cipolle, i suoi onesti genitori e la sua legittima e voluminosa metà, quando questa c’è, e, quando questa c’è, lui, il democratico, è naturalmente cornuto; ma non se ne lamenta… queste sono le opinioni… politiche del democratico; le discute sovente anche al caffè, accalorandosi talvolta al punto di rovesciare la chicchera, ma subito s’acquieta se giunge qualcuno di parere contrario. Allora tace o diventa dell’opinione dell’altro. Il democratico dunque non è un Partito e non è neppure un’idea: è semplicemente un abito fisico e morale, che equivale a viltà e mediocrume. In politica compie la funzione dello spegnimoccoli; la fiaccola di un ideale lo abbaglia e tenta subito di smorzarla, perché la luce mostrerebbe la sua bruttezza grottesca e il suo laido aspetto. Nella vita è paragonabile al simbolico bastone tra le ruote. La velocità, la fretta, l’ardimento, tutto ciò che è moto e progresso lo irritano. Allora si attacca disperatamente dietro il carro della vita, per tentare di frenarne la corsa fatale. Salvo poi, se tutto va bene, mettersi innanzi con l’aria presuntuosa e balorda delle mosche cocchiere. Il democratico… Ma basta! Si potrebbe continuare per un pezzo a descrivere questo molesto insetto noioso e ripugnante. Ma è meglio far punto e basta (tanto i democratici sono come i pidocchi, non c’è razzia che li distrugga). E allora conviene fare come il fante, fregarcene.”

 

Ma la polemica futurista non si esaurisce qua; a mettere ordine tra le idee futuriste può aiutare la lettura del manifesto-programma del Partito politico futurista, del settembre ’18: in esso troviamo, innanzitutto, la richiesta dello “svaticanamento” dell’Italia, predicato non solo a parole, ma con un anticlericalismo pratico “d’azione, violento e reciso… intransigentissimo e integrale, che vuole liberare l’Italia dalle chiese, dai preti, dai frati, dalle madonne, dai ceri e dalle campane”.

Anche in questo caso, alle parole seguono i fatti, e iniziano l’opera Marinetti e Vecchi che, il 31 agosto, “tagliano brutalmente a cazzotti e legnate un lunghissimo corteo di 50.000 cattolici che inneggiano per le vie di Milano al Papa Re”

Ci sono poi i “diritti della gioventù”:

“Rimpiazzeremo il Senato con un’assemblea di controllo composta da venti giovani non ancora trentenni. Invece di un Parlamento di oratori incompetenti e di dotti invalidi, moderato da un Senato di moribondi, avremo un Governo di venti tecnici eccitato da un’assemblea di giovani non ancora trentenni.”

 

Contro l’approssimativismo e la politicizzazione dominante, viene esaltata la valorizzazione dei tecnici e delle competenze, e richiesta la liberazione dell’Italia dalle oltre 500 “incompetenze” che fanno il bello e il cattivo tempo a Montecitorio; quindi, un Parlamento di poco più che ventenni, con un minimo di “deputati avvocati (sempre opportunisti) e di deputati professori (sempre retrogradi)”.

E poi ancora: diminuzione degli effettivi dell’Esercito, con invece numerosissimi quadri Ufficiali; preparazione alla socializzazione della terra e costituzione di un patrimonio agrario dei combattenti; riforma della burocrazia e sviluppo delle autonomie regionali e comunali; libertà di sciopero, di riunione di organizzazione, di stampa; massimo legale di 8 ore lavorative.

C’è tutto questo e dell’altro nell’ambizioso programma futurista, che, però, tende a distinguere nettamente il costituendo Partito dal movimento artistico: una vena di elitarismo rimane: mentre, infatti, al Partito possono aderire tutti gli italiani, anche se sprovvisti di ogni inclinazione artistica e letteraria, al movimento potranno partecipare solo quanti manifestino doti tali da includerli nell’avanguardia della sensibilità artistica della Nazione.

La rispondenza, comunque, che le idee futuriste, anche quelle più originali e contraddittorie, hanno tra la base fascista, testimonia in qualche modo dell’ansia di rinnovamento e della volontà di trovare forme nuove di organizzazione sociale che anima questa base. E poi, ciò che conta, è che i futuristi non appartengono a quella categoria di astratti e teorici intellettuali dei quali abbonda la Nazione, ma, quando necessario, non disdegnano di rimboccarsi le maniche: lo fanno normalmente nel corso dei loro spettacoli, spesso incomprensibili e provocatori per il pubblico più grossolano, lo hanno fatto nel maggio del ’15 , sono pronti a farlo ogni giorno, per difendere le loro ragioni, in questo agitato dopoguerra.

Azione e pensiero, quindi, come significativamente testimonierà Bolzon:

“Eppure, se mi rifò alla prima apparizione del fascismo, io non vedo un truculento ragazzaccio, avanzo di trincea e di vicolo, piantato per mania di saccheggio e di dispotismo in mezzo alla via, in atto di sfidare a sassate e pugnalate il regime e la legge! Anzi, se la memoria ancora mi assiste e nessuna aquila mi ha mangiato il cervello, noi primissimi della dura vigilia, potremmo ricordare, a coloro che allora con noi non furono, come poesia e impeto, cultura e coraggio fossero a dovizia presso gli iniziati. Tanta aurora insurrezionale era pervasa tutta di intellettualità combattiva. La funzione dei cosiddetti “elementi di azione” consisteva nell’ascoltare, credere e obbedire. L’aristocraticità consisteva in affermazioni di imperio e di audacia, non disgiunte da un’alta moralità di dottrine rinnovatrici. Non si cercava di stornare dalle responsabilità con la pretesa di rinnovare lo statuto. Tenevamo le piazze abbandonate da tutti i poltroni ed esteti, non solo colla bomba, ma con un pensiero consapevole. A imporci la dura disciplina quotidiana ci assisteva un fiero misticismo di patria. La violenza era il mezzo, non il fine. Apostoli o guerrieri, secondo la contingenza, demagoghi o teppisti mai. Lungi da noi il preconcetto antintellettuale: odiavamo e bandivamo soltanto dai nostri cenacoli inquieti ed ardenti gli “intellettuali di maniera”.

 

La crisi dei rapporti tra futuristi e fascisti si avrà verso la metà del 1920, grosso modo a partire dal Congresso di Milano. Marinetti attribuirà i dissapori al fatto che i futuristi non riescono ad imporre la loro linea anticlericale e antimonarchica; questo è vero, anche se normalmente la crisi viene addebitata più in generale agli accenni di involuzione a destra del movimento fascista riscontrabile in quel periodo.

In effetti, così come è innegabile che nell’estate del ’20 si va evidenziando un certo affievolimento di alcune delle istanze fasciste della prima ora, è altresì vero che la separazione tra i due gruppi – che rimarranno, comunque, sempre “contigui” – è forse determinata da motivi diversi e più “personali”, quale la difficoltà, per i futuristi , consapevoli della propria superiorità intellettuale e culturale, a rimanere intruppati in un movimento che è alla vigilia di diventare di massa e sempre meno disposto a farsi guidare nella sua azione dalla fumoserie e dai distinguo della minoranza marinettiana. Ciò, soprattutto con l’inasprirsi di una realtà locale caratterizzata da violenze fatte e subite, da sopraffazioni, da prepotenze e di intimidazioni.

Fino a quella data i futuristi daranno però un contributo essenziale, attivistico ed ideologico, al fascismo; essi hanno un proprio ruolo ben preciso anche nella elaborazione del primo programma dei Fasci di combattimento, e difendono “nei fatti” questo ruolo sia con la partecipazione alla contestazione a Bissolati che con la direzione dell’azione sfociata poi nell’incendio dell’Avanti.

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