11 Aprile 2024
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Sui Sigilli magici di Gioacchino da Fiore – Luca Valentini

Per le meritorie Edizioni Melchisedek di Torino recentemente è stato recentemente pubblicato un prezioso volume, a firma del noto ricercatore tradizionale Michele Proclamato, dedicato ai sigilli ermetici attribuiti all’abate calabrese Gioacchino da Fiore. Il testo in riferimento non si presenta come una classica dissertazione simbolica delle opere del beato cristiano, ma spesso assume quasi la forma del dialogo di un narratore che conduce per mano i propri lettori in un mondo a primo impatto misterioso, come spesso si rivela un certo cristianesimo meridionale nel Medioevo. Tale forma scelta dal Proclamato risulta essere efficace nell’ambito dei capitoli descrittivi ed introduttivi alla personalità ed all’opera dell’abate, ma quando ci si accosta al simbolismo che si dovrebbe analizzare spesso la prosa assume caratteri fumosi e poco puntuali: un testo che affronta lo studio dei simbolismi più complessi della spiritualità occidentale ed ermetica del Medioevo con la completa mancanza di note e di una bibliografia di riferimento, rappresenta un vulnus non da poco, nell’ambito comunque di un approfondimento assolutamente di alto profilo ed interessante.

Nel merito, il volume del Proclamato segna un’evoluzione della sua interpretazione del mondo dello spirito e del simbolismo secondo i canoni che egli stesso definisce inerenti alla Legge del tre e del sette e alla potente Teoria dell’Ottava, che, anche se non citato, fa ritornare alla mente gli insegnamenti di un Georges Ivanovič Gurdjieff, in cui l’espressione del ritmi dell’universo conosco delle precise ripetizioni e dei salti, dei momenti di vuoto o di intervallo, in cui la Natura e l’Uomo hanno la possibilità, se colta, di acquisire la consapevolezza dell’Eterno, in cui la dynamis del fenomenico viene assunta quasi come uno spartito frammentato fondata, strutturata e armonizzata da un compositore unico, Dio. Se tale sia la visione dell’autore, reputiamo abbia colto moto meritoriamente il senso profondo insito nelle raffigurazioni dell’ebreo calabrese Gioacchino, anche se un’adeguata esegesi ermetica è assolutamente assente nella trattazione in questione. Spesso, infatti, ci si limita a riportare le interpretazioni teologali e ecclesiastiche delle opere, nella loro visione apocalittica, in riferimento all’evangelo di Giovanni, ma non cogliendo che in quei simboli vi è molto di più di qualche intuizione misticheggiante, come ha fatto notare Glenn Alexander Magee, nel suo studio dedicato a Hegel e la tradizione ermetica per le Edizioni Mediterranee, con una stupenda postfazione dell’amico Giandomenico Casalino, in cui la teoria storica del mistico calabrese viene magistralmente inserita nel filone magico della PanSofia, della Sapienza Universale, in cui si ritrova, coniugandosi, con gli insegnamenti alchimici di un Raimondo Lullo, di un Alberto Magno, di un Jacob Boheme, ma anche con la mistica di altissimo livello di un altro eretico quale Meister Eckhart (p. 52 del testo di Magee).

Tutto ciò diviene palese, per esempio, nel capitolo dedicato ai due alberi dell’umanità (p. 209ss), in cui alcun riferimento al significato cabalistico ed alchimico dell’albero cosmico, quale axis mundi della trasmutazione ermetica, viene riportato o accennato e che le tavole meritoriamente riportate evidenziano ad una semplice indagine visiva, limitandosi ad una semplice interpretazione testamentaria.

Altro esempio che possiamo riportare, tra i tanti, è quello inerente alla Tavola XIV (p. 234), del Draco Magnus e Rufus, in cui un evidente riferimento all’uroboros di Ermete, con le sette teste della Sapienza, viene derubricato semplicemente a espressione anticristica e apocalittica.

Il Proclamato, a parer nostro, avrebbe potuto proseguire sulla linea di una sua felicissima intuizione, nel suo breve riferimento ai sigilli magici di Giordano Bruno (p. 68 – 69), quando nell’esaminare la figura n. 14 Minerva o Intelletto, ha mirabilmente riconosciuto i due 8 incrociati, che, come insegna Plutarco e tutta l’Ars Magna, poco hanno a che spartire con lo Spirito Santo, ma molto con la Sapienza di cui la Dea Romana era depositaria, come conciliazione della manifestazione, essendo tale numero, anche nella sua espressione geometrica dell’ottagono, sia l’espressione della mediazione tra Cielo e Terra, sia l’espressione dell’Eterno, matematicamente rappresentando, l’8 in posizione orizzontale, l’Infinito.

Nonostante tutto ciò, l’autore coglie come Gioacchino da Fiore abbia impresso nei suoi sigilli la possibilità di comprendere ed interagire sia sulla materia sia sulla conoscenza umana, un «protocollo simbolico numerico» in grado di risvegliare l’anima di chi non sa ancora che si deve imparare a «morire in vita» prima di poter rinascere attraverso altre realtà.

La possibilità offerta da questa esegesi di una valente studioso della Tradizione offrirà ai lettori la possibilità di intuire un canone palingenetico e simbolico che assume vita propria, se la legge ternaria evocata sappia cogliere quell’eterno presente che lo stallo della fenomenologia cosmica premettere di sperimentare. Non casualmente la terra dell’abate da Fiore è quella Calabria che fu la patria italica del Pitagorismo, dell’Orfismo, di Bernardino Telesio, e, nel ‘900, della Schola italica e pagana di Amedeo Rocco Armentano, di Arturo Reghini, di Giulio Parise et alii e della loro celebre Torre Talao, una terra che vide la scoperta della prima laminetta d’oro orfica, una terra che nei sigilli di Gioacchino ha nuovamente palesato la sua “vocazione” ermetica.

In conclusione, un vero sincero plauso lo rivolgiamo sia a Michele Proclamato ( a cui speriamo non dispiacciano le nostre annotazioni critiche) ed alle amiche Edizioni Melchisedek per il grande lavoro di riscoperta delle radici ancestrali dell’esoterismo occidentale.

Luca Valentini

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