9 Aprile 2024
Età oscura

Poveri diavoli – Rita Remagnino

Nel rispetto della legge del taglione, cioè dell’antico principio giuridico-morale del contrappasso, coloro che sulla Terra divisero le persone sono fatti a pezzi dalla spada affilata di un diavolo invisibile nella nona bolgia dell’Inferno. E’ un vero macello quello che vedono dall’alto del ponte i due pellegrini: corpi mozzati, squartati dal mento all’ano, budella che pendono tra le gambe, escrementi dappertutto. “Già veggia, per mezzul perdere o lulla, / com’io vidi un, così non si pertugia, / rotto dal mento infin dove si trulla. / Tra le gambe pendevan le minugia; / la corata pareva e ’l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugi” (If XXVIII 22-27).
Dante non riesce a scollare gli occhi dai corpi orribilmente mutilati e il Maestro lo bacchetta. Suvvia, dice, sembra quasi che tu voglia contarli! Nelle altre bolge non lo hai mai fatto. Tuttavia c’è sempre una prima volta davanti alla seconda, alla terza e così via. Infatti nel Canto XXX il discepolo ci ricascherà, durante la rissa scoppiata tra Sinone e Mastro Adamo, indugiando sul mentitore spergiuro che suona come un tamburo il monetiere panciuto. “E l’un di lor [Sinone] che si recò a noia / forse d’esser nomato sì oscuro, / col pugno li percosse l’epa croia” (If XXX 100-102).
Nuovamente Virgilio rimprovera la «bassa voglia» di Dante, ricordandogli che dovrebbe avvicinarsi all’isola-Purgatorio con uno spirito ben diverso. Colto in flagrante l’altro china il capo e si rincresce come colui che sogna il suo danno e sognando vorrebbe sognare che ciò non fosse accaduto. “Qual è colui che suo dannaggio sogna, / che sognando desidera sognare, / sì che quel ch’è, come non fosse, agogna” (If XXX 136-138). Vabbè, dai, abbandona ogni tristezza, replica il protettivo Maestro; vergogne minori lavano colpe più gravi della tua. Se comunque dovesse ricapitare, io sarò al tuo fianco.

 

Con il XXXI canto i pellegrini abbandonano le Malebolge per entrare nel silenzio inquietante dell’ultima zona degli Inferi, la ghiaccia di Cocito, quarto ed ultimo dei fiumi infernali. All’improvviso il fragoroso suono di un corno scuote lo spazio riservato ai traditori. Dante volge lo sguardo nella direzione da cui esso proviene e intravede in lontananza le sagome di alcune torri. O almeno, così crede. Mettendo a fuoco l’immagine s’accorge però che sono Giganti.
Sia nella Titanomachia di tradizione greca che nella letteratura biblica costoro vengono descritti come «divinità precedenti» che entrarono in conflitto con i nuovi dèi, persero la guerra e furono cacciati dal mondo. Virgilio scrive nel VI libro dell’Eneide (580-584) che dopo la ribellione i vincitori li relegarono nel Tartaro, facendo sue le fonti bibliche che a loro volta erano rimaneggiamenti di narrazioni accadiche riferite ai «figli del peccato», ovvero i figli meticciati delle discusse unioni interetniche causate dall’alta mobilità dei popoli dopo il Diluvio.
In tempi ormai compromessi i trascrittori rabbinici chiamarono i mezzosangue con il nome di «Nefilim» (dalla radice ebraica del verbo nafàl, che indica appunto «cadere, scendere in basso») e li divisero per etnia: Emìm erano quelli la cui sola vista «provocava il terrore», Refaìm erano gli esseri davanti ai quali la paura faceva diventare le persone «come di cera», Gibborìm erano gli astuti giganti il cui cervello misurava «45 piedi», Zamzummìm erano i guerrieri «più feroci», Anaqìm erano i vanitosi agghindati con grosse collane, Avim erano i pochi consapevoli che a furia di combattere contro i piccoli uomini da questi sarebbero stati infine distrutti. Il tutto da prendere con le pinze perché il Potere non si cuce su misura solo le regole e il diritto, ma anche la Storia.

 

Basandosi su queste ed altre (ignote) fonti Dante conficca nel ghiaccio i Giganti dall’ombelico in giù, bloccando l’antica esuberanza con l’impotenza ed immaginandoli anche un po’ duri di comprendonio. Sulla stessa linea Virgilio li definisce «anime sciocche», «anime confuse», condividendo così la diceria secondo cui gli esiliati, a causa di una progenie omozigote, alla fine dei loro giorni generarono dei minorati mentali.
Efialte che osò mettersi “contra ’l sommo Giove” e prese parte alla battaglia di Flegra in cui i Giganti spaventarono gli dei, è legato come un cane alla catena e reagisce quasi abbaiando all’avvicinamento dei pellegrini. Mentre davanti a Nembrot, che grida parole sconnesse senza riuscire a comunicare nulla, il Maestro sbuffa con sufficienza: “Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; / ché così è a lui ciascun linguaggio / come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto” (If XXXI 79-81). Salvo poi mettersi a conversare con il presunto costruttore della torre di Babele per ben due terzine. Ma come, non era uno stupido?
Per ovvie ragioni il poeta non può dire bene di personaggi di cui la Chiesa dice male; confida tuttavia nella perspicacia del lettore, al quale non sfugge la presa per i fondelli di quel “fer paura a’ dèi”. Per non parlare dell’elenco fatto da Virgilio dei tanti trofei conquistati da Anteo, il quale uccise più di mille leoni nella valle di Zama, partecipò alle guerre puniche e se non fosse nato troppo tardi avrebbe di sicuro portato alla vittoria i suoi fratelli, cioè i Figli della Terra in guerra contro i Figli del Cielo.
Non è chiaro se si tratti di un reale apprezzamento o di pura captatio benevolentiae finalizzata alla continuazione del viaggio, che deve andare avanti costi quel che costi. Nel dubbio, comunque, terremo buona la prima. Se così non fosse, per quale motivo di lì a poco il collaborativo Anteo andrà a depositare i due pellegrini sulla ghiaccia di Cocito come un’amorevole cicogna il suo fardello?

 

I Giganti di Dante sono uomini, smisurati certo, ma pur sempre uomini poiché nel Medioevo si credeva ancora che la stirpe gigantesca fosse realmente esistita, o più precisamente che in tempi remoti una cultura planetaria di altissimo livello fosse precipitata in basso per essere poi dimenticata. L’importanza delle nostre Origini doveva sparire allo scopo di non mettere in cattiva luce le mezze cartucce che si stavano avvicendando al potere, fino alle totali nullità di oggi.
Emblema della superbia punita i Giganti preludono all’entrata in scena del Superbo per eccellenza, caduto dalle alte sfere a testa in giù e conficcatosi come un chiodo appuntito nel culmine del Regno delle Tenebre; dove, a dire la verità, uno si aspetterebbe di trovare il «caldo infernale» anziché un «freddo boia».
Invece quaggiù la temperatura è talmente bassa da far apparire i dannati della Giudecca, quarta ed ultima sezione del nono cerchio dell’Inferno, come tante pagliuzze trasparenti in un oggetto di vetro. Ghiacciano persino le «calde lacrime», impedendo a chiunque la possibilità di piangere per sfogare il proprio dolore. Un fatto spiegato dai commentatori con l’estrema gravità del peccato commesso dai traditori, i quali sono immersi più o meno profondamente nella ghiaccia di Cocito a seconda del grado della colpa, minore (contro la parentela e la Patria) o maggiore (rifiuto di ospitalità e gratitudine).
Se Dante ha collocato queste anime perse in fondo al pozzo significa che ritiene lo spergiuro un campione di meschinità. Tale giudizio morale e sociale potrebbe derivare in parte da visioni religiose, filosofiche e giuridiche anteriori, oltre che dalla pessima opinione del poeta sui politici corrotti e voltagabbana, numerosissimi ieri come oggi.
Ciò non spiega tuttavia la presenza del ghiaccio, che fino a prova contraria non è lo strumento di tortura più offensivo in assoluto. Sinceramente nel corso del viaggio s’è visto di peggio: teste mozzate, membra conficcate nel terreno, carni lambite dalle fiamme, corpi immersi nella pece bollente, serpenti attorcigliati, orribili malattie, sbudellamenti e viscere penzolanti.

 

Nel panorama generale del poema l’atmosfera che circonda la «distesa ghiacciata» è più unica che rara ma la reale fonte ispiratrice di Dante è un rebus. Alcuni commentatori hanno indicato la Bibbia, dove in certi luoghi l’immagine del freddo e del ghiaccio è associata a Lucifero, personificazione del male e del peccato. Altri si sono rifatti a precedenti rappresentazioni medievali dell’Inferno, in cui l’immersione nel ghiaccio è appunto una delle pene più dure. Ci sono infine quelli che vedono il congelamento dell’ultimo tratto dell’Inferno come una suggestiva immagine del cuore di ghiaccio dei traditori in contrapposizione al fuoco della carità.
Divagazioni a parte, finora nessuno ha preso in considerazione l’ipotesi geologica. Alla faccia di Dante, che da un pezzo evoca l’emisfero australe. Se è vero che da almeno 122mila anni la parte più consistente del continente antartico è ricoperta dal ghiaccio, è altrettanto certo che l’Antartide Minore sia stato relativamente sgombro di ghiacci fino al 4000 a.C. circa, come confermano alcuni «strani» portolani realizzati probabilmente sulla scorta di «carte sorgente» arcaiche provenienti dalla grande biblioteca di Alessandria d’Egitto. Uno studioso come Dante poteva non esserne a conoscenza?
Inoltre Virgilio non proferisce parola per tutto il Canto XXXII. Rasentando il ridicolo si è insinuato che il Fiorentino parli in prima persona per togliersi lo sfizio di lavare in piazza i panni sporchi dei traditori del suo tempo; neanche si stesse parlando del portinaio del palazzo! Se invece volesse sussurrare all’orecchio del lettore che il Maestro di «certe cose» non sa niente? Ci sarebbe da ridere se dopo tanti eruditi ghirigori Dante fosse stato veramente al corrente dell’esistenza del «sesto continente» e di un evento catastrofico che in tempi remoti aveva ibernato un pezzo di mondo, sigillando in una bara di neve la sua civiltà.

 

Il vento polare congela anche le lacrime del poeta. Piccoli schermi di cristallo gli riempiono tutta la cavità dell’occhio fin sotto il ciglio. Ma da dove viene l’aria gelida, se sottoterra gli eventi atmosferici non si manifestano? Virgilio sta sul vago: “Avaccio sarai dove / di ciò ti farà l’occhio la risposta, / veggendo la cagion che ’l fiato piove” (If XXXIII 106-108).
Finché la fonte dei venti che raggelano tutto il nono cerchio comincia ad intravedersi in lontananza, tra l’oscurità e la brina. Per precauzione Dante si fa scudo con il corpo aereo della sua guida, unico riparo sicuro in questa landa di ghiaccio. Ad un certo punto gli sembra di scorgere un mulino a vento, o forse è l’albero di una nave con le vele dispiegate. Anzi, no …
Confitto nel ghiaccio nella medesima posizione in cui venne precipitato all’alba dei tempi, Lucifero è visibile solo dalla metà del petto in su. Ha tre facce unite a una sola testa, tre paia d’ali di pipistrello, denti aguzzi per sbranare, un corpo fitto di pelo e altri attributi animaleschi che rimandano al teriantropo del Canto VI, il guardiano Cerbero, anch’esso legato alla Terra, materia polverosa della quale si ciba (Genesi, 3, 14).
Bloccato dalla morsa glaciale il re mastica i peggiori traditori della Storia (Giuda, Bruto, Cassio) e piange sbattendo le ali come un uccello in trappola. Le sue lacrime scendono lungo i volti mescolandosi, all’altezza della bocca, alla saliva e al sangue delle carni straziate dei peccatori, mentre con la parte inferiore del corpo chiude come un tappo di bottiglia l’imbuto del suo regno.

 

A metà strada tra l’Angelo biblico e il re dell’Averno, “lo ‘mperador del doloroso regno” viene chiamato nel poema sia Dite che Belzebù (v.127). Inaspettatamente non sfoggia alcun ghigno satanico, né manifesta il carattere maligno che ci si aspetterebbe di trovare in un diavolo. L’aria che si respira nell’ultimo tratto dell’Inferno è piuttosto polvere di macerie prodotta da una rovinosa guerra e nello squallore generale Lucifero interpreta la parte del Grande Perdente della nostra civiltà, che si direbbe caduta insieme a lui.
Il canto dedicato al Principe delle Tenebre, l’ultimo che chiude in bellezza il poema, inizia in latino ma le parole non sono tratte dalla Bibbia né da altri testi religiosi. La formula è solenne, fin troppo pomposa per trovarsi nel punto più profondo dell’Inferno ma perfetta per annunciare l’entrata in scena dell’Angelo ribelle, che presentando tutti gli attributi di un «anti-dio» manca totalmente delle caratteristiche del dèmone.
Vexilla regis prodeunt inferni. Le insegne del re avanzano. Questo antico inno alla Croce veniva cantato soprattutto nella Settimana Santa, dove ovviamente il re che avanzava era Cristo. Dante non è certo un uomo che lascia niente al caso, per cui c’è ancora molto da riflettere sulla descrizione della triplice faccia del re dipinta con i colori lunari della tradizione indoeuropea (rosso, nero e pallidus), gli stessi che caratterizzeranno l’immagine di dio nell’ultimo canto del Paradiso.
A tale proposito merita una digressione il fatto che secondo i Catari «i due principi [dio e anti-dio] hanno ciascuno la sua trinità» (J.Duvernoy, La religione dei Catari, 2000). Senza contare i vari passaggi della Commedia in cui si dice che il mondo duale (Bene e Male) è stato non proprio creato ma prodotto da Lucifero. Un punto sul quale il poeta tornerà durante il viaggio nel Purgatorio.

 

L’apparizione di Lucifero provoca l’ennesimo mancamento di Dante, che sviene precipitando in uno stato sospeso tra la vita e la morte. “Com’io divenni allor gelato e fioco, / nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo, / però ch’ogne parlar sarebbe poco. / Io non mori’ e non rimasi vivo: / pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno, / qual io divenni, d’uno e d’altro privo” (If XXXIV 22-27).
Non appena si riprende il Maestro lo incoraggia ad avvicinarsi per osservare meglio. Chi l’avrebbe mai detto: tanto quella creatura gigantesca era bella e ingegnosa allorché rifletteva le qualità trinitarie (potenza, sapienza, amore), quanto la ribellione l’ha trasformata in una specie di brutta copia dell’Unità e Trinità di dio con il quale ha cercato di competere.
Povero diavolo! Normalmente quando si tocca il fondo non si può che risalire, ma a Lucifero l’ascesa è preclusa. La funzione dell’ex-angelo, bloccato al culmine di un regno caldo (l’Inferno) e intrappolato in un cerchio freddo (la ghiacciaia di Cocito), è quella di simboleggiare in eterno l’«attrazione inversa della natura», vale a dire la tendenza all’individualizzazione.
Più precisamente il soggiorno di Lucifero è “il punto al qual si traggon d’ogni parte i pesi” (If XXXIV 110‑111), un posto la cui ragione di esistere consiste nel conflitto tra forze attrattive e compressive che genera sempre una «pesantezza» di fondo. In vita costui è stato un narcisista patologico incline all’uso della soggettività come criterio di giudizio, è caduto per eccesso di personalismo quando invece avrebbe dovuto trovare il suo posto nella dimensione comunitaria naturale dell’essere umano. Tutti argomenti che nel mondo-social dell’Io/mio sono irrilevanti, dato che la normalità nell’Età Oscura consiste nel costruirsi con le proprie mani la gabbia d’acciaio dell’individualismo e poi rimanerci dentro a vita.

 

Contagiato dal virus del missionario questo padre spirituale delle più antiche civiltà ha premuto l’acceleratore fino in fondo, offrendo il fuoco della conoscenza a uomini incapaci di comprendere il «dono degli Angeli». Tutto preso dal suo slancio prometeico egli ha ignorato il più elementare dei principi: ognuno va lasciato libero di progredire «naturalmente», secondo i propri ritmi, senza spinte dall’esterno poiché la condizione di «troppo, e troppo presto» spinge al livello caotico un gruppo umano che non possieda i necessari requisiti spirituali per mantenere la posizione raggiunta.
Dante lo definisce un «pre-maturo», cioè un soggetto che al momento della ribellione ancora non aveva raggiunto la piena maturità, un requisito che deriva unicamente dalla luce della Grazia, dono che invece fu concesso agli angeli rimasti fedeli a dio. Più avanti il poeta tornerà sulla sorte di questo povero diavolo che “per non aspettar, lume cadde acerbo” (Pd XIX 48), riproponendo il tema del debole (immaturo) vinto dalle basse passioni (la superbia, nella fattispecie).
Se fosse stata un’anima perfida “lo ‘mperador” non avrebbe permesso ai pellegrini di aggrapparsi a “le vellute coste”, cioè alla sua peluria, utilizzando i ciuffi di pelo come appigli per uscire dall’Inferno. Questo ed altri dettagli inseriti da Dante nel poema lasciano intendere che l’autore non voglia parlare dei bistrattati Giganti della Bibbia, cioè degli Angeli caduti in disgrazia dopo essersi ribellati al potere divino, ma piuttosto dei Giganti della Preistoria che strada facendo civilizzarono il mondo. Prima per l’appunto di cedere alla debolezza, entrare in competizione tra loro, scatenare una guerra cosmica e auto-annientarsi.
Non mancano nella Commedia i riferimenti ad altre figure prometeiche che pagarono di persona il prezzo della propria indulgenza verso l’uomo incivile, il quale può essere solo grato a chi sacrificò se stesso per emanciparlo. A proprio uso e consumo i posteri demonizzarono gli sconfitti, rei di avere proposto una visione alternativa a quella dominante, e così nacquero i «diavoli». Un’operazione didattica in piena regola: visto cosa succede a chi osa ribellarsi?

 

Durante l’arrampicata Virgilio adocchia una crepa in cui infilarsi: tieniti forte, dice a Dante, dobbiamo allontanarci da tanto male (l’Inferno) salendo su per quelle scale. Fuori dal tunnel c’è una sorta di caverna. Istintivamente Dante volge lo sguardo verso il re dell’Inferno, credendo di trovarlo nella medesima posizione eretta in cui lo aveva lasciato, invece ne scorge le gambe. Allora chiede spiegazioni al Maestro: perché Lucifero è confitto così sottosopra? Che fine ha fatto il ghiaccio? E noi, come abbiamo percorso in un baleno il tragitto dalla sera alla mattina?
Quasi sollevato, Virgilio risponde con calma: hai passato il nodo cruciale dove si sono concentrati tutti i mali del mondo. A metà discesa ci siamo capovolti (mettendo la testa nella direzione delle gambe di Lucifero) perché dovevamo oltrepassare il centro di gravità del mondo e adesso ci troviamo sotto l’emisfero australe, opposto a quello boreale dove fu ucciso l’uomo (Gesù) che nacque e visse senza peccato, così che adesso tu hai i piedi su una piccola sfera che si trova di fronte alla Giudecca. Hai ragione, stava calando la sera quando sei entrato qua dentro. Tra poco però rivedrai il chiarore delle sette e mezza del mattino, perciò prepara i tuoi occhi alla luce: stiamo per uscire “a riveder le stelle”.
Essendo sabato sera se ne deduce che il “cammino ascoso”, cioè la risalita del cunicolo che dal centro della Terra porta alla spiaggia del Purgatorio, è durato circa 21 ore. Ormai siamo in viaggio con i due pellegrini dalla serata di giovedì, almeno una cosa pertanto l’abbiamo capita: il vero Inferno dantesco si trova nelle azioni degli uomini, non certo nelle figure demoniache che servono da simboli e allegorie, cioè da facilitatori di lettura della complicata dimensione umana, che nonostante i numerosi accorgimenti stentiamo ancora a comprendere.

 

Nel mondo capovolto costituito dall’Età Oscura l’Inferno è già su questa Terra, non c’è bisogno d’imbarcarsi in rocamboleschi viaggi letterari e spirituali per andarlo a cercare in universi paralleli, mentre i dèmoni non sono simbolici bensì autentici e se ne fregano altamente delle leggi divine (naturali), avendo a disposizione per nuocere un apparato macchinico e bellico mai visto in precedenza. Mai e poi mai costoro darebbero una mano all’uomo, che detestano visceralmente e vorrebbero vedere morto (siamo in troppi!), oppure ridotto a oggetto trans-umano da manovrare a piacimento attraverso i fili del genderfluid, del cibo sintetico, dei microcontrollori e di altre diavolerie similari.
I dèmoni del XXI secolo sono la versione geneticamente modificata della stirpe di Malthus, che voleva combattere la povertà con l’incremento di guerre e carestie, cioè con lo sterminio di massa. Sono i figli dell’eugenetica di Francis Galton che perfezionò una pratica già in voga negli Stati Uniti, dove l’immigrazione massiccia tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo aveva spinto la società e la politica verso l’introduzione del “race suicide”, il suicidio razziale.
Il Male non cresce mai così bene come quando la sua strada viene illuminata dal faro di un’ideologia. In questi casi un intero imbuto infernale può risultare insufficiente a contenere tutti i suoi eccessi, solo il Giudizio Supremo può cancellarlo dalla faccia della Terra. Per un po’, s’intende, perché poi ritorna insieme alla «mediocrità», assimilabile all’umana «normalità».
Morale della favola: con il Male, che è il Bene in negativo, ognuno di noi è obbligato a convivere schivando i suoi tiri mancini e mantenendo la luce sempre accesa per non farsi trascinare nelle tenebre. Averne paura significa ingolosirlo, meglio pensare che alla fine la «potenza del tempo» e la morte (intesa come agente trasformatore) rimetteranno le cose a posto.

 

 

Avviso ai naviganti: il viaggio all’Inferno è tecnicamente terminato, ma la figura di Lucifero merita una piccola sosta. Ancora un po’ di pazienza, prima di affrontare la risalita della montagna del Purgatorio.

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (ed. Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (ed. Audax Editrice). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

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