10 Aprile 2024
Appunti di Storia Banditismo rosso

“Pagine Di Gloria” del biennio rosso: «Siano bruciati negli altiforni!» L’occupazione delle fabbriche e il duplice omicidio Sonzini-Simula (Torino, 22 Settembre 1920) – Pietro Cappellari

In un’Italia sprofondata nelle violenze pre-rivoluzionarie anarco-massimaliste, in attesa dello scoppio della rivoluzione bolscevica mondiale e della venuta dell’Armata Rossa – che “stazionava” in Polonia -, iniziava uno dei più clamorosi eventi del Biennio Rosso: l’occupazione delle fabbriche. Un evento senza precedenti che coinvolse 185 stabilimenti e 600.000 operai, da Genova a Venezia, da Milano a Napoli.

In quel Settembre 1920, all’occupazione delle terre che si registravano ormai da alcuni mesi, si era aggiunta l’occupazione delle fabbriche da parte degli operai: cosa che aveva colpito profondamente la borghesia italiana. E non solo per l’impressionante compattezza operaia, ma per quello che tale movimento poteva scatenare, ossia la rivoluzione bolscevica che – come ben annotava Gramsci – sarebbe stata prima di tutto una guerra di annientamento della borghesia, già espressione dei vituperati quadri del Regio Esercito in guerra; una borghesia vile, inutile e parassitaria che sarebbe stata espulsa dal campo sociale “col ferro e col fuoco”[1].

 

In questo clima di violenze e timori generalizzati, il 22 Settembre – dopo una giornata di scontri che videro contrapporsi nelle strade di Torino sovversivi e Forze dell’Ordine – vi furono gli assassinii del nazionalista Mario Sonzini e della Guardia Carceraria Costantino Simula (nelle cronache erroneamente chiamato “Scimula”). Un delitto – tra i tanti – destinato ad entrare nella storia.

Sonzini e Simula non furono le sole vittime della violenza rossa a Torino. Nel capoluogo caddero altri cinque militari e due innocenti. Cinque, invece, furono gli operai uccisi negli scontri contro le forze dell’ordine che si verificarono in quei tesissimi giorni di rivolta. Ancora una volta l’“Avanti!” commentava assolvendo e giustificando gli assassini sovversivi:

 

Ebbene se così è, che quei giovani e quelle donne hanno fatto realmente un tribunale e condannato e mandato alla morte. In quei giovani, in quelle donne, in quella condanna, non vi è più un gruppo di individui, di delinquenti, di disumani, ma vi è una classe come un corpo unico che si colpisce e si difende esasperata, forse nemmeno pienamente cosciente di sé, ma guidata da un istinto cieco di conservazione.

 

In quell’Estate del 1920 il Paese sembrò sprofondare: ovunque Guardie Rosse, ovunque pareva imposto l’ordine rivoluzionario massimalista. E questo senza contare le notizie che giungevano dall’estero. L’Armata Rossa avanzava in Polonia: le armate dei “cosacchi bolscevichi” marciavano vittoriosi per “liberare” il proletariato dell’Occidente dal capitalismo. Una nuova èra parve allora all’orizzonte. Lo stesso Lenin si convinse che la prossima conquista di Varsavia avrebbe permesso la costituzione di un “ponte rosso” con cui si sarebbero aperte alla rivoluzione comunista le porte dell’Europa occidentale. La Germania sarebbe insorta e così l’Italia, dove i dirigenti sovietici – Lenin, Stalin, Zinov’ev e Bucharin – erano convinti che fosse giunto il momento di “promuovere senza indugio la rivoluzione”. E di ciò furono convinti anche i dirigenti socialisti italiani dell’ala insurrezionalista-rivoluzionaria del PSI. Questi, fino alla Primavera 1920, erano stati sempre preoccupati del successo della rivoluzione. Se la Francia non fosse contemporaneamente insorta, come avrebbe fatto da sola un’Italia comunista a resistere schiacciata dal blocco economico delle potenze capitaliste? Ora, con l’Armata Rossa che avanzava in Polonia, queste constatazioni erano superate: anche l’Italia era pronta per la rivoluzione e la dittatura del proletariato.

In realtà, il 18 Agosto precedente l’esercito bolscevico aveva subito una catastrofica sconfitta alle porte di Varsavia e stava ripiegando su tutto il fronte. Ma a Settembre, quando gli operai italiani occuparono le fabbriche, di questa situazione pochi erano informati, bollata tutt’al più come propaganda della “reazione”. Le Armate di Lenin, ben presto, sarebbero venute a “liberare” l’Italia…

Le speranze che Giolitti potesse riportare l’ordine tramontarono presto: la sua neutralità durante i moti per l’occupazione delle terre dell’Estate 1920 e il mancato intervento dopo l’inizio dell’occupazione delle fabbriche convinsero tutti che lo Stato era incapace di gestire la situazione pre-rivoluzionaria che si era creata.

Scrisse Giorgio Alberto Chiurco:

 

Si inizia col 30 Agosto l’occupazione operaia delle fabbriche e dei cantieri in tutta Italia. È Ministro Taddei.

La rivolta rossa passa dall’ostruzionismo, attuato a cominciare dal 20 Agosto, ad una fase più grave; gli operai prendono possesso degli stabilimenti metallurgici, vi si insediano da padroni, li trasformano in vere e proprie fortezze armandoli di mitragliatrici, istituendo turni di sentinelle, issando le bandiere rosse su tutti i camini; pattuglie di Guardie Rosse vigilano giorno e notte a che nessuno si avvicini agli stabilimenti. Nell’interno di questi, i capi organizzatori instaurano una specie di disciplina militare; si fabbricano armi e si distribuiscono agli stabilimenti minori. L’Italia è sull’orlo della rivoluzione.

[…] I dirigenti vengono sequestrati […].

Il 2 Settembre, a Milano, l’Ing. Vittorio Barini, Direttore generale della S.A. Acciaierie Lombarde, mentre si reca in automobile allo stabilimento, è aggredito dagli operai, immobilizzato e trattenuto.

Il 4 a Milano avviene il sequestro del Direttore Picasso, catturato con le rivoltelle alla mano da una pattuglia rossa. […] Avvengono scaramucce ogni notte […]. Allo stabilimento Pirelli ove è sequestrato anche l’Ing. Alberto Pirelli […].

[Il 3 Settembre, a Torino] gli operai sequestrano il Cav. Aielli amministratore e l’Ingegner Fornaca Direttore generale. È sequestrato al suo stabilimento il Cav. Bautieri. […]

Il 2 Settembre gli operai del cantiere Odero [di Genova], in numero di qualche migliaio, tentano di penetrare nello stabilimento scavalcando i cancelli; ma tutte le porte d’ingresso sono sbarrate dalle truppe. Partono colpi di rivoltella dalla massa operaia e le Guardie Regie rispondono. Cadono uccisi due operai, feriti altri. […] In tutta la Liguria, in specie a Genova, Sampiedarena e Conigliano, sono arrestati Russi e Ungheresi che svolgevano propaganda tra quelle maestranze.

[…] A Torino il 10 è sequestrato un industriale insieme al suo chauffeur e alla macchina, ed è portato al cospetto della Commissione interna della Savigliano. Scaramucce notturne si impegnano intorno agli stabilimenti occupati, e le notti sono turbate da continui spari.

La battaglia avvenuta a Trieste tra comunisti, Croati e fascisti, ha a Pola immediate ripercussioni […]

Nella borgata industriale di Pozzo Strada non scioperavano le maestranze della fonderia dell’Ing. Franco De Benedetti. […] Nella notte dall’11 al 12, mentre l’Ingegnere rincasava, veniva fatto segno a colpi di fucile e dal suo stabilimento si rispondeva con dei colpi in sua difesa.

Il giorno 12 altri colpi erano diretti contro l’Ingegnere, il suo fratello e un capo tecnico. Individuati due individui che sparavano dallo stabilimento Capamianto, l’Ing. De Benedetti, provetto tiratore, li uccideva con due colpi ben diretti. Veniva allora tentato un assalto alla fabbrica e la forza pubblica era costretta ad intervenire […].

15 Settembre – […] Durante l’occupazione dello stabilimento Breda di San Giovanni (Milano) una bomba scoppia in mano ad un operaio uccidendolo.

L’organizzazione militare dei centri operai si completa e si perfeziona. È una vera e propria mobilitazione soviettistica. Le Guardie Rosse sono ormai completamente “equipaggiate per il prossimo assalto” e ne assume sostanzialmente il grado di Capo supremo l’Onorevole Vella. […]

17 Settembre – Scoppia nella Borsa di Genova un potentissimo ordigno esplosivo causando grande spavento e gravi danni. […]

Contro il direttissimo da Milano per Roma presso Rogoretto sono esplosi colpi di arma da fuoco, e rimangono ferite una donna e una bambina.

Aggressioni e sequestri a Torino

Il 17, alcuni Ufficiali di ritorno in caserma venivano improvvisamente assaliti da una cinquantina di Guardie Rosse che li attendevano in agguato. Disarmati, venivano condotti alla fabbrica Blanc dinanzi al Consiglio di fabbrica e dopo un interrogatorio rilasciati.

[…] Nella notte dal 18 al 19 un nucleo di operai armati assaltava la villa del Comm. Agnelli, amministratore della FIAT, venendo ad uno scambio di fucilate con le Guardie Regie[2].

 

I nervi erano alle stelle e in molti Italiani di sentimenti patriottici o, comunque, stanchi e disgustati dalle continue violenze dei sovversivi montava la reazione. Il 19 Settembre 1920, ad esempio, a Rovereto (Trieste) – mentre in tutta Italia giungeva al culmine l’occupazione delle fabbriche – una Guardia Municipale intervenuta a fermare un corteo socialista che percorreva le strade al canto di Bandiera Rossa non esitava a sparare ed uccidere Enrico Bandiera, di 30 anni, della Direzione provinciale del PSI. Stava iniziando una vera e propria guerra civile (a bassa intensità).

Il 24 Settembre, l’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore Centrale diramava a tutti i Comandi di Corpo d’Armata e agli Uffici di Polizia Militare l’invito a tenersi in contatto con i fascisti. Questa circolare – che passò alla storia con il nome di Circolare Caleffi, dal nome del suo compilatore il Col. Camillo Caleffi – ufficializzò un rapporto informale già in atto dall’Estate 1919 (cfr. sciopero del 20-21 Luglio) e rende bene l’idea come i Fasci fossero oramai recepiti anche dalle Forze Armate: la “parte sana” della Nazione, gli unici in grado di opporsi alla sovversione massimalista e, nello stesso tempo, di promuovere una politica in difesa degli interessi della Nazione italiana. Non è un caso che “Il Popolo d’Italia” – che da tempo sosteneva le rivendicazioni degli Ufficiali – divenne in breve tempo “uno dei fogli più letti e amati dai militari di carriera”. E si giunse anche al caso limite di Bari, dove il locale Corpo d’Armata si fece garante del nascente fascismo pugliese.

É bene tuttavia evidenziare che il diciannovismo non condannò in toto l’occupazione delle fabbriche: i futuristi, ad esempio, si schierarono su posizioni favorevoli. Lo stesso Mussolini non esitò ad appoggiare le richieste degli operai (salvo condannare l’occupazione in sé, in quanto essa poteva essere il “cavallo di troia” della rivoluzione bolscevica). Già nel Maggio 1920, del resto, i sindacati fascisti si erano uniti a tutti gli altri (socialisti, anarchici e cattolici) nel richiedere all’associazione padronale A.M.M.A. (Associazione Metallurgici Meccanici Affini) una nuova sistemazione delle condizioni di lavoro.

“Giramondo” – si presume Mussolini –, durante la RSI, sul “Corriere della Sera”, sostenne che l’allora Direttore de “Il Popolo d’Italia” si recò presso gli uffici di Bruno Buozzi, Segretario della FIOM che aveva promosso le occupazioni, dicendosi di essere al fianco degli operai se questi avessero promosso un’azione insurrezionale costruttiva. Ovviamente, non si fece nulla. Né dal punto di vista insurrezionale, né dal punto di vista costruttivo.

Antonio Alosco cita di un’offerta di armi di Gabriele d’Annunzio a Buozzi per favorire lo sbocco rivoluzionario dell’occupazione, cosa che, però, non trova riscontri oggettivi: del resto, gli operai non avevano certamente bisogno di armi, né le voleva un riformista come Buozzi. Al sindacato mancava in realtà una pianificazione e una volontà rivoluzionaria. Così come al PSI. I Legionari fiumani, in questo contesto, non avrebbero avuto – ne avrebbero potuto avere – nessuna funzione, né i socialisti avrebbero permesso mai loro di averne una. Entrambi i soggetti, se posti l’uno al fianco dell’altro, non avrebbero esitato un attimo a spararsi contro a vicenda. Altro che “simpatia” rivoluzionaria. Che – stando così le cose – mai vi fu. Tipico è quello che avvenne tra le fila dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia, che già si era distinta per una clamorosa provocazione: Edmondo Mazzuccato e Umberto Maurelli si erano presentati davanti allo stabilimento metallurgico di Porta Vittoria a Milano occupato dai sovversivi, imponendo agli operai di bruciare la bandiera rossa ed issare quella italiana.

Proprio durante l’occupazione delle fabbriche, la direzione del sodalizio delle Fiamme Nere progettò un’azione violenta: una nuova distruzione della redazione dell’“Avanti!” di Milano. Questa volta con l’uso di una bomba ad orologeria. L’azione era stata progettata per evitare in modo categorico ogni danno alle persone. Fu lo stesso Segretario dei Fasci Umberto Pasella, però, a fermare l’operazione, considerando il momento non opportuno. La bomba fu poi sequestrata dalla Polizia durante una perquisizione che – tanto per cambiare – scompaginò le fila dell’Associazione i cui responsabili finirono per alcuni giorni nelle patrie galere.

Incredibilmente, l’occupazione delle fabbriche rappresentò il culmine della crisi organizzativa del socialismo italiano. La CGdL dichiarò al PSI che se il moto si fosse allontanato dal quadro della rivendicazione sindacale per inserirsi in uno rivoluzionario, avrebbe dovuto lasciare la guida del movimento al Partito. Ma il PSI non accettò la proposta e fu la premessa della fine ingloriosa di un moto iniziato con tutti altri auspici. Mentre ovunque la produzione cessava per incapacità gestionale degli operai, il Governo si inserì nella contesa promuovendo un compromesso tra le parti che decretò la fine dell’occupazione.

Ci fu chi tentò di resistere alla smobilitazione, come i dirigenti dell’USI e la frazione comunista interna al PSI, ma nulla si poté fare concretamente. Unica novità politica fu la costituzione alla FIAT Centro di Torino di un Partito Comunista Rivoluzionario, che agì subito in polemica con i riformisti socialisti, prodomo della prossima scissione del Partito.

Tra il 25 e il 30 Settembre tutte le fabbriche vennero evacuate, con estremo sconcerto da parte degli “insorti”, e il 1° Ottobre 1920 fu siglato un concordato tra la FIOM e la Confindustria.

 

Conclusasi l’occupazione, Mussolini, il 28 Settembre, ne traccia un bilancio sul suo giornale:

Quella che si è svolta in Italia, in questo Settembre che muore, è stata una rivoluzione, o, se si vuole essere più esatti, una fase della rivoluzione cominciata da noi nel Maggio 1915. L’accessorio più o meno quarantottesco che dovrebbe accompagnare la rivoluzione, secondo i piani e le romanticherie di certi ritardatari, non c’è stato. Non c’è stata, cioè, la lotta nelle strade, le barricate e tutto il resto della coreografia insurrezionista che ci ha commosso sulle pagine dei Miserabili. Ciò nonostante, una rivoluzione si è compiuta, e, si può aggiungere, una grande rivoluzione. Un rapporto giuridico plurisecolare è stato spezzato. Il rapporto giuridico di ieri era questo: merce lavoro da parte dell’operaio; salario da parte del datore del lavoro. E basta. Su tutto il resto dell’attività industriale ed economica capitalistica c’era scritto: è severamente vietato l’ingresso agli estranei e precisamente agli operai. Da ieri questo rapporto è stato alterato. L’operaio, nella sua qualità di produttore, entra nel recesso che gli era conteso, e conquista il diritto a controllare tutta l’attività economica nella quale egli ha parte.

Parole chiare,  pienamente coerenti con le idee espresse a Dalmine un anno prima, e che appaiono poco conciliabili con la pretesa “conversione a destra” che il movimento fascista (e il suo capo in particolare) starebbero attuando in questi mesi; non  solo parole: da qualche mese ha aderito al fascismo marchigiano una singolare figura di industriale, Silvio Gai, destinata ad assumere rilevanza nell’ambito del movimento, che ha realizzato, nella sua azienda, una rivoluzionaria forma di collaborazione tra capitale e lavoro. Egli, che ha iniziato da operaio, per diventare Ingegnere, Direttore ed Amministratore delegato della Società Marchigiana di Elettricità, così ricostruirà la sua esperienza di questi tempi:

I prestatori d’opera, educati per lunghi anni alla più intima e fattiva collaborazione, quando i tempi divennero torbidi, dopo la vittoria del 1918, ed i lavoratori venivano malvagiamente trascinati dai partiti sovversivi… chiesero di dare un opposto esempio di italianità. Poi proposi loro la diretta partecipazione al capitale sociale, con un posto nel collegio sindacale[3].

Su questo scenario crepuscolare si elevava il dramma della disfatta dell’Armata Rossa in Polonia: nel Settembre 1920, l’esercito polacco aveva piegato la Russia, fatto eclatante che metteva praticamente fine ai sogni della rivoluzione mondiale: l’armistizio tra i due eserciti venne formalmente siglato il 15 Ottobre. Per molti fu un fallimento totale e lo scoramento cominciò a diffondersi anche tra gli operai. Le stesse Guardie Rosse – che Gramsci aveva individuato come il nucleo dal quale costituire “una forza armata fedele e bene distribuita per tutte le evenienze e tutti i bisogni” – rientrarono nei ranghi del Partito o del sindacato, disarmando pacificamente. Del resto, erano state impostate malamente, con spirito difensivo, limitato alla difesa della fabbrica, non certo come avanguardie armate in grado di scatenare una rivoluzione. Oltre al limite dello “spazio”, mancavano di contatto con l’esterno della fabbrica, in particolare con i militari che, in Russia, si erano uniti ai rivoltosi permettendo il successo del processo rivoluzionario. In Italia, nonostante alcuni tentativi di guadagnare alla causa socialista i soldati, nulla era maturato e le Guardie Rosse rimasero spauracchi isolati dalla realtà italiana, in grado certamente di imporre il loro ordine nel breve termine, ma incapaci di elaborare un progetto rivoluzionario vero e proprio.

 

Oggi possiamo affermare che la fine della vertenza e delle agitazioni coincide con la fine del periodo più acutamente rivoluzionario del primo dopoguerra; si può ben dire che l’occupazione degli stabilimenti segna l’apice della tensione sovversiva e, nello stesso tempo, l’inizio del declino di questa tensione; la cosa, però, sul momento non è evidente a tutti: “Giovanni Agnelli rientrò alla FIAT, ma il suo ingresso assomigliò ad una resa. Passò, infatti, a capo chino, sotto un arco di bandiere rosse e, quando arrivò nella sua stanza di lavoro, al posto del ritratto del Re trovò una immagine di Lenin. Sul momento rimase interdetto. Un operaio gli si avvicinò e gli disse: «Bacialo!». E Agnelli lo baciò”[4].

Queste considerazioni, fatte con senno del poi, non vennero recepite al tempo dai più. Infatti, al disarmo momentaneo delle Guardie Rosse operaie, corrispose, in quell’Autunno 1920, una nuova e vasta ondata di agitazioni contadine che portò intere zone d’Italia sotto l’“ordine socialista”. Ordine, sia detto per inciso, imposto con la violenza e il terrorismo e che troverà vasta eco in uno degli episodi simbolo di quelle settimane: l’uccisione a Mede (Pavia), nella Lomellina, del fittavolo Luigi Magni, morto a seguito delle ferite riportate dopo la spedizione punitiva dei comunisti del 10 Ottobre 1920, durante la quale rimasero feriti anche i suoi due figli reduci di guerra. Del resto, il PSI si lasciò velocemente alle spalle il fallimento rivoluzionario, mobilitando le masse nella campagna elettorale per le Amministrative di quell’Autunno, per la conquista proletaria delle Amministrazioni locali, distraendo l’attenzione da quanto era appena avvenuto, evitando così anche una severa analisi politica dello smacco subito.

Scrisse Roberto Farinacci che, invece, quell’analisi fece:

 

Certo, l’occupazione delle fabbriche, quale esperimento di un autogoverno degli operai, era condannata all’insuccesso, ma poteva essere il lievito di quella rivoluzione che il socialismo ufficiale ogni giorno proclamava imminente fino dal 1919: mancò il capo, mancò la volontà rivoluzionaria nei capi socialisti, mancò l’unità, mancò uno scopo definito, al quale non si potevano dunque adeguare né furono in realtà adeguati i mezzi necessari.

Non il Governo, né la classe dirigente vinsero la insurrezione, ma la ignoranza e la impreparazione degli operai, la viltà del Partito Socialista, la folle ingenuità della Confederazione del Lavoro e della F.I.O.M., la irresolutezza di tutti, la contraddizione in tutti fra le parole e le azioni.

L’abilissima F.I.O.M. non sa prevedere quale fermento rivoluzionario può offrire agli avversari suoi, ai massimalisti, ai comunisti, agli anarchici, l’occupazione delle fabbriche, e tuttavia ordina ai gregari l’occupazione delle fabbriche che essa, meglio di tutti, prima di tutti, sa condannata alla disfatta proprio per motivi economici e tecnici e amministrativi.

La direzione del Partito Socialista ufficiale, da cui sarebbe dovuto discendere l’ordine risoluto e l’impeto enorme a tutti i gregari, è perplessa, mutevole, inquieta e bugiarda, che ostenta la volontà di fare la rivoluzione e concede alla F.I.O.M. il comando e il diritto di non fare la rivoluzione.

La moltitudine mostra per mille segni la “profonda vibrazione rivoluzionaria” e accetta e vuole la lotta fino alle estreme conseguenze, ma principalmente e quasi esclusivamente per impulso degli operai meno preparati, meno colti, meno educati, per esaltazione dei fanatici, dei creduli, degli ingenui, più ricchi di enfasi che di volontà profonda, ai quali era più affascinante il colpo di fucile contro il Carabiniere che la prova silenziosa della gestione operaia.

I più autorevoli Parlamentari del socialismo, quelli della tendenza riformista, per non perdere “il contatto con la folla”, acclamano alla occupazione, la osteggiano copertamente in attesa di vituperarla scopertamente, e premono sul Governo per salvare la Confederazione, offrendo amicizia e ricattando e minacciando la vittoria del bolscevismo.

[…] Certo è che in quei giorni, mentre sanguinavano a Torino i cittadini nella guerra civile e l’assassinio di Sonzini e di Scimula [sic; leggasi “Simula”] chiudeva con tragico orrore la folle rappresentazione degli operai, molti Italiani di ogni città d’Italia avrebbero udito con fremito d’indignazione l’On. Giolitti discutere quel problema “tecnico” di pubblica sicurezza e chiamare “episodi concomitanti” i sequestri di persona, i colpi di fucile e di bomba, le violazioni di domicilio, l’emissione di carta moneta, le perquisizioni, le vessazioni, le detenzioni dei cittadini. E molti dei grandi industriali e degli uomini d’affari che tante volte s’erano strizzati l’occhio confidandosi con letizia le abbiette parole: «Che mascalzone quel Giolitti, ma che uomo!», ora digrignavano i denti e guardavano in giro dove trovare salvezza.

[…] Di fronte a tutta questa tempesta Mussolini stette fermo al suo detto del 1919: «Se la borghesia crede di trovare in noi dei parafulmini, s’inganna. Noi dobbiamo andare incontro al lavoro». Disse, il 20 Settembre a Pola: «Io sono pronto a riconoscere alla classe operaia il diritto di controllo nella fabbrica: quando essa sarà in grado di portare maggior benessere alla Nazione. Se la classe dirigente è moribonda, è necessario che, secondo la convinzione di Vilfredo Pareto, sorgano delle nuove élites sociali a sostituirla. Ma oggi nego questa superiorità alla classe lavoratrice. La nego specialmente per il fatto che è dominata da una demagogia che ha soltanto mutato colore. Ai preti si sono sostituiti i preti».

E il 28 Settembre su “Il Popolo d’Italia”: “Se, come leggiamo nell’odierno numero della ‘Critica Sociale’, scopi immediati della riforma vogliono essere — giusta le ripetute dichiarazioni della Confederazione del Lavoro — rendere il lavoratore partecipe della gestione dell’azienda, elevare la sua dignità, insegnargli a conoscere i congegni amministrativi dell’industria, evitare di questa le degenerazioni speculazionistiche, ridestare nel lavoratore la rallentata spinta al lavoro intensamente e gioiosamente produttivo, chi può essere a priori contrario al controllo operaio? Nessuno. É l’applicazione pratica che bisogna regolare e che ci preoccupa”[5].

Comunque sia, i violenti episodi in cui si dilettarono i sovversivi in quell’Autunno del 1920 provocarono una reazione nella coscienza popolare che, stanca del clima pre-insurrezionale e dei continui soprusi dei massimalisti, cominciò a chiedere la fine di questo stato di anarchia. Nello stesso tempo, infatti, cominciò a montare in gran parte della popolazione italiana la rabbia, lo sdegno, la stanchezza, per le violenze generalizzate che avevano accompagnato l’occupazione delle fabbriche. Violenze che certamente non saranno dimenticate.

Se la conflittualità tra agrari e contadini era limitata e circoscritta ai rapporti di forza tra le due classi sociali, con i primi pronti a blindarsi in difesa dei propri egoistici privilegi e i secondi costretti a lottare – anche sul piano della violenza – per affermare il legittimo diritto ad una vita più dignitosa, con la predicazione rivoluzionaria dei socialisti questo conflitto si era esteso, coinvolgendo tutto il territorio e la popolazione che vi risiedeva, trasformando la contesa da economica ad eminentemente politica. Le parole d’ordine di “dittatura del proletariato” e “rivoluzione bolscevica”, l’attesa della prossima insurrezione bagnata dal sangue della borghesia, avevano trovato ben pochi estimatori tra il resto della popolazione estranea alla contesa agrari-contadini. Ora, con il passaggio della lotta politica a lotta armata che colpiva tutti e tutto, anche e soprattutto gli interessi privati dei cittadini che non erano parte in causa nell’iniziale diatriba economica e nemmeno si interessavano di politica, la reazione sorgeva spontanea.

In molti, colpiti anche nei loro interessi privati, cominciò a sorgere una chiara volontà di reagire davanti ad una situazione che pareva travolgere tutti e tutti, non solo i valori in cui si credeva fermamente o lo Stato in generale, ma anche gli affetti più cari o, più semplicemente, i propri beni, i propri campi posti alla mercé dei sovversivi della zona.

Durante il Regime fascista, l’occupazione delle fabbriche sarà ricordata per il duplice omicidio Sonzini-Simula del 22 Settembre 1920, elevato ad esempio della barbarie sovversiva di quell’evento storico. I corpi dei due sventurati vennero ritrovati la mattina seguente in un sentiero di Corso Regio Parco, in Corso Novara, nei pressi del Cimitero Monumentale di Torino, ad un centinaio di metri l’uno dall’altro.

Il clima nel quale maturò questo crimine si spiega con l’esaltazione degli operai torinesi, oramai convinti di essere davanti ad una situazione insurrezionale.

Già nella notte tra il 21 e il 22 Settembre, Torino era stata sull’orlo della rivolta generalizzata: una pattuglia di Carabinieri Reali comandata dal Cap. Raul Brunero era stata attaccata in un agguato nei pressi dello stabilimento Biack. Cadeva colpito a morte il V.Brig. Tommaso Dore, molti altri militi restavano feriti a terra, mentre tra i sovversivi si contavano due caduti. In altri scontri registratisi quella notte trovò la morte la Guardia Regia Vincenzo Nazario.

Il nuovo giorno che sorgeva vide tutta la città in subbuglio. Ovunque, sparatorie, feriti. Anche vittime civili, come Giuseppina Sariafotti, di 8 anni, uccisa da un proiettile vagante mentre cercava scampo in un portone, durante un attacco di Guardie Rosse contro una pattuglia di Guardie Regie.

Altri morti, sembra tre operai, nei pressi della Fonderia Maldoccio, dove le Guardie Rosse avevano lanciato alcune bombe contro la Polizia di ronda nella zona[6].

Sempre quel 22 Settembre, durante un corteo funebre di un operaio caduto negli scontri, i sovversivi non avevano esitato a sparare contro una Guardia Regia che si aggirava in bicicletta.

In questo clima di guerra civile, maturò, come abbiamo, detto il duplice omicidio Sonzini-Simula, destinato poi a passare alla storia e, ovviamente, ad essere cancellato nel dopoguerra. Del resto, quando i partigiani entrarono a Torino negli ultimi giorni del 1945 si verificarono massacri di innocenti di tale intensità che resero rosso il Po, davanti i quali anche il duplice omicidio Sonzini-Simula perse ogni confronto, derubricato ad “incidente” di un lontano passato.

Mario Sonzini, di 23 anni, sindacalista, nazionalista, tra i fondatori dei Fasci di Combattimento di Torino e membro della Commissione interna alle Officine Metallurgiche, fu sequestrato dalle Guardie Rosse del suo stabilimento. Fu subito individuato come “nemico di classe”. Dopo una parodia di “processo proletario”, venne ucciso con un colpo alla nuca. Stessa sorte per Costantino Simula, di 20 anni, catturato dai sovversivi, “processato dal popolo” ed eliminato alla sovietica.

Scrisse Roberto Farinacci:

Ma non furon messi in libertà né Mario Sonzini né Costantino Scimula [sic; leggasi “Simula”]. Mario Sonzini fu “fermato” e condotto allo stabilimento Nebiolo. Una Guardia Rossa che aveva lavorato con lui nella fabbrica Beccaria lo accusò di avere qualche mese prima, essendo Segretario del reparto torneria alle Metallurgiche, avversato il movimento operaio durante uno sciopero, e, il giorno prima, di aver dato aiuto alle Guardie Regie per l’arresto di alcuni tranvieri in Piazza Castello: fu tradotto alle fonderie Subalpine. Costantino Scimula [sic] fu fermato e trascinato — le rivoltelle puntate al viso — nello stabilimento Bevilacqua dove, riconosciuto quale Agente di custodia nelle carceri giudiziarie di Torino, si discusse non sulla colpa o sulla pena, ma sul genere della sua morte: se doveva essere gettato nei forni, o ammazzato a colpi di rivoltella, o messo in cantina perché provasse le “delizie della galera”, e non valse, mentre altri lo percuoteva per impazienza e per odio, ch’egli implorasse pietà della vecchia madre lontana e dei cinque piccoli fratelli, non valse che, invocando in ginocchio la testimonianza di quelli che fossero stati in prigione, un operaio confessasse la bontà che aveva usato verso i detenuti: quattro colpì di rivoltella lo uccisero, e uccisero a breve distanza di tempo Mario Sonzini, nazionalista e fascista, decorato e Volontario di Guerra[7].

Le violenze sovversive continuarono anche il giorno seguente quando, in Corso Principe Oddone, “un Capitano dell’Esercito veniva inseguito, disarmato, bastonato a sangue”: “L’Ufficiale trovava riparo in una casa e veniva liberato dalla forza pubblica, accorsa sul posto con autoblindate”. Sempre lo stesso giorno, “il commerciante Carlo Zotto era sequestrato dai rivoltosi, condotto alla FIAT e perquisito”.

 

Presso la Barriera di Lanzo avvenivano altri orrendi episodi: la Guardia Regia Luigi Santagata, di anni 27, veniva improvvisamente circondata dai rivoltosi e uccisa a colpi di rivoltella. Accorreva in aiuto dell’aggredito una pattuglia di Guardie Regie, ma veniva colpito a morte da tre proiettili l’Agente Mario [sic; leggasi “Matteo”] Crimi […].

E il fuoco si intensificava nei rioni della città e il terrore si spargeva ovunque. Nella terribile battaglia cadevano altri morti e i feriti si contavano a centinaia. Colpito mentre si recava a visitare il padre ammalato cadeva ucciso il tipografo della “Gazzetta del Popolo” Giuseppe Notari, trentacinquenne. Nella serata spiravano due altri feriti nei conflitti fra i quali il bambino di 8 anni Giuseppe Carpiotti […]

23 Settembre – […] A Follonica una pattuglia di Carabinieri viene fatta segno a colpi d’arma da fuoco ed è ferito il Carabiniere Salvatore Golino. La P.A. locale rifiuta di trasportarlo all’ospedale; il ferito muore il 30 dello stesso mese per emorragia, essendo stata lesa l’arteria femorale[8].

Ma erano gli ultimi fuochi di una rivoluzione che moriva ancor prima di nascere… Già dal 25 Settembre, dopo il via libera dato dagli operai, venne dato l’ordine di smobilitazione. Le fabbriche furono abbandonate dagli insorti, anche se violenze diffuse si conteranno nei giorni seguenti.

Con la fine dell’occupazione delle fabbriche si poterono iniziare le indagini per scoprire i colpevoli del misterioso duplice omicidio Sonzini-Simula.

Non fu facile individuare i sovversivi protagonisti degli eventi, coperti dalla tradizionale omertà criminale dei circoli di sinistra, come ben evidenziò “La Stampa” il 12 Ottobre 1920, fonte certamente non fascista, sulla quale vogliamo indugiare per far comprendere il clima di barbarie creatosi durante il Biennio Rosso per opera della predicazione anarco-socialista.

Dai banchi del Parlamento, il “moderato” Bruno Buozzi, a nome del PSI, protestò per l’arresto degli assassini, “reclamando che anche i reati comuni e di sangue beneficiassero dell’impegno governativo di non perseguitare gli autori e i responsabili di quella parodia di rivoluzione”. Del resto, l’“Avanti!” non si era vergognato di commentare: “Sonzini […] è un fascista militante. E il militare porta con sé questi inconvenienti: di andare a finire sull’orlo di una via, con la tempia forata da un proiettile”.

Parole che non saranno dimenticate.

 

Nel rievocare questo episodio delle luttuose giornate del Settembre scorso, il più truce e il più sanguinoso fra quanti ebbero una eco nelle cronache giornalistiche, sembra quasi di rivivere le pagine fosche del primo periodo iniziale della Rivoluzione russa, quando, dopo un giudizio sommario, le Guardie Rosse dominate soltanto più da un bieco istinto di sangue, uccidevano spietatamente coloro che esse credevano sostenitori della causa zarista. Non ci par vero che in una città come la nostra, che vanta una tradizione di civiltà ed anche di bontà, l’odio politico abbia potuto generare un simile delitto.

Subito dopo la prima azione dell’Autorità di Polizia giudiziaria per riuscire a scandagliare il mistero di tanta pazzia sanguinaria, le voci più fantastiche si diffusero, particolarmente nei rioni popolari, che furono teatro della gesta criminosa, ma non credemmo allora di rilevarle, poiché l’Autorità procedeva a stento nella sua indagine, e non volevamo assolutamente intralciare la sua opera. Si tratta qui non già di un reato politico vero e proprio, ma di un delitto comune, provocato da un trovo istinto e non già dal fanatismo per un’idea. […]

Entrambi i cadaveri recavano ai polsi segni di profonde lividure, come se fossero stati con le mani legate oppure due uomini robusti li avessero trattenuti a viva forza, rendendo vani ai due infelici ogni tentativo di divincolarsi dalla stretta. Certo quelle lividure indicavano che il Sonzini e lo Scimula [sic, leggasi “Simula”] avevano fatto sforzi disperati per sottarsi al supplizio crudele che li attendeva!

[…] Nel rione popolare prossimo agli stabilimenti Bevilacqua e Nebiolo, la morte dei due giovani era tema di tutti i discorsi. Molti erano stati testimoni dell’arresto della Guardia carceraria. Questo era avvenuto verso le 19 di sera, sotto un portone di Via Pisa, luogo in cui il disgraziato, spaventato dalle fucilate che venivano sparate da individui appostati nei sunnominati stabilimenti occupati dagli operai o scorrazzanti in camion per la regione, aveva cercato un riparo. Egli si trovava quel giorno ad avere il suo permesso di libera uscita e la sua cattiva stella aveva guidato i suoi passi in quel disgraziato luogo. Molti di coloro che abitano nei pressi avevano visto un gruppo di giovinastri precipitarsi verso quel portone e trarne fuori a viva forza il giovane sconosciuto che vi si era appiattato; lo videro malmenare dagli energumeni, mentre egli in un concitato linguaggio che tradiva il suo paese d’origine (era sardo) gridava disperatamente: «Pietà! Pietà! Mamma mia! Mamma mia!». Ma le invocazioni del poveretto non commossero i giovinastri, che a pugni e calci lo spinsero in mezzo a loro verso lo stabilimento Bevilacqua, mentre alcuni di essi gridavano: «Dagli! Dagli che tanto è un “terra da pipe”!».

Il gruppo, con in mezzo il prigioniero, era scomparso entro la fabbrica e il portone si era chiuso. […]

Ecco il racconto che noi stessi abbiamo potuto raccogliere in quel popolare rione, ma che solo ora abbiamo voluto pubblicare per non intralciare l’opera dell’Autorità di Pubblica Sicurezza.

Pochi momenti dopo che il Costantino Scimula [sic] era stato arrestato dalle Guardie Rosse dello stabilimento Bevilacqua, il Sonzini, il quale voleva ad ogni costo raggiungere la sua abitazione in Corso Brescia, non avendo potuto attraversare il Ponte Mosca, poiché in qual momento una mitragliatrice piazzata sullo stabilimento Gardini batteva il Corso Ponte Mosca, mentre le Guardie Rosse sparavano alla lor volta contro l’opificio, aveva girato a valle attraversando il Ponte delle Benne e prendendo per Corso Palermo che lo avrebbe condotto direttamente in Corso Brescia.

Disgrazia volle che proprio mentre egli passava, un nugolo di Guardie Rosse facesse una “retata”. Il Sonzini (sempre secondo il racconto fattoci) sarebbe stato preso da costoro e condotto nello stabilimento Nebiolo. A tarda si riunì il Consiglio di fabbrica per giudicare degli arrestati, tanto della Nebiolo quanto di quelli dello stabilimento Bevilacqua, non avendo questa fabbrica che maestranza femminile.

Il verdetto di questi nuovi giurati sarebbe stato unico tanto per la Guardia carceraria (che per tale era stato riconosciuto lo Scimula [sic] da un giovane che aveva avuto poco tempo prima l’occasione di soggiornare per un breve periodo alle Carceri Nuove) quanto per il Sonzini, identificato per impiegato della FIAT, ex-combattente ed attivo nazionalista, e per di più attivo sostenitore della neutralità degli impiegati nella vertenza metallurgica. Tutti e due dovevano essere accompagnati a lavorare per un’intera notte ai forni delle Fonderie Subalpine. Le Guardie Rosse avevano avuto incarico di scortare i due arrestati fino alle suddette Fonderie. Fu così che i due picchetti, di quattro Guardie ciascuno, sarebbero usciti rispettivamente dagli stabilimenti Bevilacqua e Nebiolo dirigendosi pel Corso Regio Parco verso il cimitero.

Scortava i due picchetti (sempre secondo informazioni nostre) un Commissario degli Arditi Rossi, il quale però, avendo compreso che le Guardie Rosse non volevano in alcun modo ubbidire agli ordini ricevuti ed intendevano uccidere gli arrestati, per scindere la propria responsabilità dalla loro, sarebbe ritornato sui suoi passi.

I giovinastri, dominato soltanto dai loro pravi sentimenti, giunti sul Corso Novara, e cioè poco prima di arrivare alle Fonderie, avrebbero messo ad effetto il delittuoso piano.

Il duplice assassinio sarebbe avvenuto, secondo questa versione, verso le 22 di sera. Quale tremendo supplizio avranno provato i due miseri giovani, abbandonati in balia di quei pazzi ubriachi di violenza, conoscendo, per averla udita dalla stessa bocca dei loro carnefici, la terribile sorte che li aspettava, malmenati, percossi, insultati, soli nelle tenebre nella deserta regione, in quella notte paurosa flagellata dallo scrosciar della pioggia in cui si udiva tratto tratto il lontano o vicino crepitar delle fucilate? Che cosa pensarono di due miseri in quegli ultimi tragici momenti? Quali invocazioni ebbero per implorare pietà? Credettero essi che, in quella notte fatale stesse maturando la temuta rivolta? Sperarono fino all’ultimo che dalle tenebre fosse loro venuto un provvidenziale aiuto, a liberarli dall’incubo tremendo? Poveri giovani, nessuno doveva allontanare da essi l’atroce visione!!

[…] Pochi giorni orsono […] venne dato ordine di eseguire gli arresti […]. Vennero fermati infatti molti giovani, tutti minori dei vent’anni, che notoriamente avevano appartenuto durante il periodo di gestione operaia alle Guardie Rosse addette alla difesa degli stabilimenti Nebiolo e Bevilacqua, ma sette tra gli imputati ricercati e cioè quelli più propriamente indiziati quali autori materiali del duplice assassinio, avevano ormai preso il largo. […]

Anche due donne, due operaie della ditta Bevilacqua e che facevano parte della Commissione, furono tratte in arresto, poiché su di esse pure pesavano sospetti di complicità, tanto più che una, secondo la deposizione di altri arrestati, avrebbe replicatamente malmenato la Guardia carceraria Scimula [sic] mentre i giovinastri esprimevano ad alta voce il proponimento di ammazzare il disgraziato giovane.

Fra i primi interrogati vi fu anche un certo Giuseppe Tealdi, di 17 anni, che tra le Guardie rosse aveva il grado di Commissario. Molti particolari vennero alla luce dalla deposizione di costui e tra l’altro la certezza che la Guardia carceraria era stata veramente arrestata dai giovani addetti alla difesa operaia del maglificio Bevilacqua, avendo lo stesso Tealdi confessato di aver preso parte a tale cattura.

Anche un altro giovane arrestato, certo Jorietti, portò molta luce in questo misterioso delitto. […] L’unico fra gli attuali arrestati che prese parte attiva al delitto. […]

Fu alla fine di questo interrogatorio che forse spaventato o pentito di quanto aveva deposto e che poteva grandemente pregiudicarlo, nel momento stesso era stato chiamato a firmare il suo interrogatorio, colto un istante in cui si trovava insorvegliato, balzò alla finestra e si gettò a capofitto nel sottostante cortile coll’evidente intenzione di uccidersi. Ma egli non aveva pensato che la industre attività di un ortolano aveva da tempo trasformato il cortile in un rigoglioso orto […]. I cavoli nel ricevere l’inaspettato peso caduto dal cielo si schiacciarono nel modo più completo, ma il loro sacrificio salvò la vita al giovanotto […].

Da documenti rinvenuti, risultò che in quella tragica sera lo Scimula [sic]

ed il Sonzini non furono i due soli individui arrestati dagli Arditi Rossi, ma vi furono altresì l’Ufficiale Giuseppe Ghersi ed un vecchio signore svizzero, certo Zweifel Giovanni, […] di anni 62. Però, tanto l’Ufficiale, quanto il borghese, dopo subito un interrogatorio e dopo aver rilasciata regolare dichiarazione di essere stati “soddisfattissimi” del trattamento ricevuto, furono rilasciati in libertà. […]

La Guardia carceraria venne fermata da Chicco Pietro [di anni 17], Giuseppe Rossi [di anni 23], Andrea Vincenti [di anni 20]. A costoro si era aggiunto l’operaio della ditta Nebiolo Agostino Boggio [di anni 17].

La cattura […] venne operata a mano armata. Appena chiuso in una stanza terrena del maglificio Bevilacqua, lo Scimula [sic] venne brutalmente percosso ed i suoi lamenti furono per lungo tempo uditi dalle persone abitanti nel vicinato. Solo dopo questo atroce trattamento esso venne condotto alla presenza della Commissione di fabbrica presieduta da Maria Actis [di anni 20], Margherita Tealdi [di anni 21] e Carolina Falchero […]. A questo giudizio presero parte altri Arditi Rossi sopraggiunti insieme a Boggio […] identificati per Bertero Ferdinando [di anni 20], Enrico Vincenzo Binello [di anni 17], Tealdi Antonio [di anni 16] e per ultimo Jorietti Giuseppe [di anni 19].

Durante questo giudizio […] il Boggio e il Rossi sostennero la necessità di uccidere lo Scimula [sic], per sbarazzarsi di un testimone pericoloso che, una volta in libertà, avrebbe denunciato tutti quanti. […] La morte del Sonzini era stata decisa per la sicurezza di tutta la banda e bisogna quindi far subire uguale sorte allo Scimula [sic] uccidendolo dopo un giudizio sommario.

[…] Quando comprese che volevano ucciderlo [Simula] proruppe in grida disperate. Pianse tute le sue lacrime, tentò di gettarsi in ginocchio dinanzi ai suoi carnefici, implorò, spasimando, in nome di sua madre, in nome di Dio che gli lasciassero la vita; promise di subire tacendo qualunque tortura, pur di vivere ancora! A vent’anni non si può morire così!

[…] Il Jorietti si fece avanti e dichiarò che nel tempo in cui egli stato detenuto alle carceri giudiziarie aveva constatato che lo Scimula [sic] si mostrava mite e buono. Ma anche questa deposizione non valse a salvare la vita alla Guardia carceraria. Il Boggio insistette per la condanna a morte.

[…] Il Sonzini […] risultò fermato dal Boggio, dal Binello, dal Bertero, dal Jorietti e altri ancora che non fu possibile identificare. […] Comparve dinnanzi alla Commissione interna della ditta Nebiolo presieduta quel giorno da Giacomo Biava [di anni 41].

[…] È possibile che questi giovani, ebbri di malsane idee, abbiano potuto pensare freddamente a così atroce supplizio?[9]

Il 22 Marzo 1922 i due principali imputati, gli anarchici Luigi Monticone (di 27 anni) e Matteo Avataneo (di 24 anni), vennero condannati a 30 anni, mentre ad altri nove complici furono comminate pene minori.

Monticone uscì dal carcere grazie ad uno sconto di pena nel 1938, dopo aver scontato metà della condanna. Dovette abbandonare il capoluogo piemontese per timore di rappresaglie fasciste contro la sua persona. Anche Avataneo poté usufruire dell’atto di clemenza del Regime del 1938 e lasciare così la casa circondariale in cui era ristretto.

Tutti gli imputati, ritiratisi a vita privata, scomparvero dalle cronache e di loro non si è più saputo nulla.

 

Luigi Monticone

 

Matteo Avataneo

 

Nel 1921, a Sonzini – che aveva la tessera sia dell’Associazione Nazionalista, sia dei Fasci – fu dedicata una Squadra dei “Sempre Pronti” di Roma.

 

Mario Sonzini

 

Sonzini e Simula saranno riconosciuti durante il Regime fascista come Martiri per la Causa nazionale.

Ancora a Sonzini furono dedicati alcuni Gruppi Rionali del PNF come quello di Torino (Corso Giulio Cesare n. 77) e quello della Garbatella-Ostiense di Roma (Via Passino n. 26).

 

 

Sempre in onore di Sonzini, la Regia Marina varò, nel 1932, una Dragamine che prese il suo nome. Nel 1938 fu classificata come Cannoneria e il 30 Luglio 1943, a seguito della caduta del Fascismo, fu ribattezzata “Tramaglio”. Sequestrata nell’Egeo dai Germanici dopo l’8 Settembre, venne affondata durante uno scontro navale dai Britannici il 7 Ottobre successivo, a Nord dell’isola di Stampalia (oggi Astypalea)[10].

A Torino v’era una Via Mario Sonzini (oggi Renato Martorelli). Così anche a Tripoli, a Spalato e in altri centri. Toponomastica che non è sopravvissuta al revisionismo politico militante che vuole cancellare la storia.

A Torino v’era anche una Via Costantino Simula (oggi Renato Vuillermin).

Sopravvive, incredibilmente, a Venosa (Potenza), una Via Sonzini e Scimula – che riporta lo stesso errore delle cronache nel cognome di Costantino Simula – sfuggita all’odio antifascista del primo dopoguerra e – non sappiamo ancora per quanto – all’isteria fasciofoba degli ultimi anni.

Grazie all’interessamento dell’Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria, il 27 Ottobre 2013, nel cimitero di Pozzomaggiore (Sassari), è stata inaugurata – alla presenza del Sindaco – una lapide in ricordo del sacrificio del natìo Costantino Simula, perché le generazioni future non dimentichino mai i crimini commessi dai sovversivi nel Biennio Rosso e il puro sacrificio di un servitore dello Stato[11]. Un gesto importante che sugella il recupero di una parte della nostra storia nazionale che tanti, troppi, hanno voluto dimenticare e cancellare.

 

Pietro Cappellari

 

 

Note

[1] Cfr. P. Cappellari, Fiume trincea d’Italia. Il diciannovismo e la questione fiumana: dalla protesta nazionale all’insurrezione fascista 1918-1922, Herald Editore, Roma 2018, pagg. 400-404.

[2] Cfr. G.A. Chiurco, Storia della Rivoluzione fascista, Vallecchi, Firenze 1927-V, vol. II, pagg. 110-124.

[3] G. Reale, 22 Settembre 1920: “Ferita di arma da fuoco alla testa”, in www.alicedemo.net/ereticamente, 2 Ottobre 2013.

[4] Ibidem.

[5] R. Farinacci, Storia della Rivoluzione fascista, Cremona Nuova, Cremona 1938-XVI, pagg. 120-126.

[6] Cfr. G.A. Chiurco, Storia della Rivoluzione fascista, cit., vol. II, pag. 118.

[7] R. Farinacci, Storia della Rivoluzione fascista, cit., vol. II, pag. 118.

[8] G.A. Chiurco, Storia della Rivoluzione fascista, cit., vol. II, pagg. 126-127.

[9] I drammatici particolari rivelati dall’indagine giudiziaria nell’assassinio dell’impiegato Sonzini e della Guardia Carceraria Scimula [sic, leggasi “Simula”], “La Stampa”, 14 Ottobre 1920.

[10] Cfr. R. Azzalin, Nel Dodecaneso con la Regia Nave “Mario Sonzini”, Macchione, 2017.

[11] Cfr. A. Cocco, Pozzomaggiore-SS: una lapide in memoria di Costantino Simula, “Il Poliziotto Penitenziario in congedo”, a. IV, n. 11, Marzo-Aprile 2014.

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