11 Aprile 2024
Società

O tempora, o mores: morire di smartphone – Gianfranco De Turris

Morire di smartphone, il telefono veloce, il telefono brillante: psicologicamente, culturalmente, fisicamente.

Premessa. Il primo Rapprto Auditel-Censis del settembre 2018 ci fa sapere che l’89% degli italiani possiede uno smartphone, percentuale che sale al 98% nella fascia di età 18-34 anni. Gli “utilizzatori notturni” sono quasi metà della popolazione (28 milioni), vale a dire coloro che se lo tengono accanto nel letto, anche per usarlo, insieme o al posto del partner. Invece circa la metà (49,2 %) sono i minori fra 4-10 anni collegati con la Rete. Ogni invenzione ha due facce. Si pensi a quanto si disse e scrisse contro l’automobile: che faceva rumore, che puzzava, che uccideva, che distruggeva la campagna, poi ci abbiano fatto l’abitudine e, nonostante le critiche sul traffico, fa parte della nostra vita quotidiana e non se ne può fare a meno. Ci ha consentito di spostarci velocemente da un luogo all’altro, ci ha dato l’autonomia di movimento individuale. Il cellulare e poi la sua evoluzione rapida in smathphone, ormai di dieci anni fa, ci ha dato invece l’autonomia di comunicazione: possiamo parlare con tutti dappertutto e non solo in un luogo fisso, casa, ufficio, cabina telefonica che fosse. Possibilità di comunicare e di essere rintracciati dovunque. Però, a mia memoria, mai prima era avvenuto che una invenzione divenuta ormai planetaria in un paio di decenni abbia cambiato radicalmente il modo di vivere causando una mutazione che potremmo definire antropologica, giungendo col tempo ad avere effetti deleteri. Lo smartphone a differenza, che so, del cinema o della televisione, attenta a noi stessi. Esagerato, dirà qualcuno, però non lo dice il sottoscritto, ma l’analisi psicologica e la realtà dei fatti. Vediamo. Uno dei giornalisti che vano per la maggiore, Aldo Cazzullo, un “democratico” ed un “moderato” al quale ogni tanto sfugge qualcosa controcorrente, ha scritto un libro, Metti via quel cellulare (Mondadori, 2017) in cui dialoga con i suoi figli: lui contro e loro pro il cellulare. Ovviamente il giornalista ne fa uso come tutti noi, ma guarda le conseguenze. I figli vedono l’aggeggio che hanno permanentemente in mano come una “apertura al mondo”, alle gente, al futuro. Una apertura “alla vita”, dicono addirittura. Ma va la! Il cellulare nella mutazione smartphone ci collega velocemente e costantemente con mille altri, ma essendo un mini-computer ci collega soprattutto a Internet e a tutte le sue possibilità (per questo i nomi dei vari modelli iniziano con la I), ma allo stesso tempo ci chiude: siamo lì con la testa china su quel piccolo schermo e sui tasti, pigiamo freneticamente su di essi, pensiamo solo a quello, siamo appunto chiusi (non aperti) al mondo esterno per concentrarci sul mondo racchiuso nel gadget tascabile che si ha tra le mani. Dappertutto.

E basta guardasi intorno per strada, nei mezzi pubblici, nei ristoranti, nei negozi, nei musei, addirittura nelle scuole e nelle chiese, in auto. Uomini e donne, giovani e vecchi. Non si pensa ad altro. Siano morti ai rapporti interpersonali diretti non per interposto smartphone. Siamo morti anche culturalmente, ci accontentiamo dell’aggeggio, e non approfondiamo: qualcuno ha fatto caso a quante edicole e librerie stanno chiudendo intorno a noi? Le notizie, specie i giovani, preferiscono leggerle rapidamente sullo schermo e non approfondirla sulla carta stampata. Ma siamo anche morti-morti. Ormai il 40% degli incidenti stradali avviene per la distrazione prodotta dallo smartphone. In auto e a piedi. Non per nulla nella ipertecnologica Seul il governo sudcoreano ha introdotto dl maggio 2018 una app che spegne lo smartphone non appena il suo possessore compie cinque passi… Stare sempre con la testa china sul gadget mentre si cammina ha prodotto un aumenti vertiginosi di incidenti e morti negli ultimi cinue anni. Un rimedio drastico, ma se ci hanno pensato in Corea dove li fabbricano… Psicologicamente lo smartphone, così come le Reti Sociali, ha potenziato il narcisismo di moltissimi, giovani adulti anziani, persone sconosciute e notissime. Per farsi belli con se stessi e gli altri si effettuano autoscatti in posizioni e situazioni pericolose e a rischio. Sì, quelli che la banalità conformista, da quando un giornalista li ha chiamati selfie (neologismo americano – la lingua inglese si presta facilmente a crearli – da self, se stesso) sono detti così, tanto per pigrizia mentale e assuefazione culturale e disprezzo della propria lingua. I selfie della morte…

Sì, perché gazzettieri, intellettuali e psicologi si accorgono del fenomeno solo quanto ci scappa il morto, specie se giovane. I ragazzini, o anche non più tali, che si autofotografano a strapiombo su una cascata, in bilico su un parapetto, appesi ad un filo, aggrappati ad un treno, sul tetto di un vagone in corsa, sdraiati sui binari, in cima ad un grattacielo e poi ci rimettono la pelle per un errore di calcolo, per un caso, per una coincidenza, si è sentito ch lo fanno per “esorcizzare la morte”. Non sono una psichiatra né un sociologo, ma mi domando se a 15 anni o anche meno si sente la necessità di “esorcizzare la morte”… Non lo credo, tanto è vero che uno di questi ragazzini precipitato dal tetto di un magazzino aveva scritto: “Non temo la morte”. Perché per loro, a mio parere, la morte non esiste, comne in genere si pensa a quella età, ma anche perché i giovanissimi di oggi pensano di vivere non in una Realtà Vera ma in una Realtà Virtuale, un eterno videogioco. Inoltre, si deve aggiungere, fanno quel che fanno “per noia”. Una giustificazione usata spessissimo per spiegare certe cose terribili, dal rogo di una automobile con dentro un poveraccio morto bruciato, al far cadere un vecchietto togliendogli di mano all’improvviso il bastone e filmando il tutto, vantandosene, su Youtube… Altro che allontanare il timore di morire! Si fanno i selfie della morte invece per puro autoesibizionismo, immortalando le proprie bravate e inserendole appunto su Facebook o Youtube e riceverne apprezzamento, per conquistare quanti più like possibile, per essere visti dai coetanei, ammirati e invidiati. E’ il narcisismo della Rete che ha contagiato i suoi utenti più giovani e suggestionabili. Le sfide anche assurde e pericolose decenni prima si facevano lo stesso da ragazzi, ma le si faceva considerandole come prove di coraggio, come una sorta di prova iniziatica per entrare a far parte di un gruppo, per provare di essere “grandi”. Anch’esse alcune volte finivano male. Ma oggi si muore non per questo, ma per voler piacere alla platea virtuale degli utenti delle Reti Sociali, ignoti che essi siano, per avere più like di altri coetanei. Non si “esorcizza” qualcosa che non conta: si veda quel tale che si fa l’autoscatto con sullo sfondo il morto annegato o travolte dal treno. Oppure l’incredibile immagine di quel filippino che, mentre corre con la tempesta alle spalle, non resiste alla tentazione di fare il selfie a se stesso con dietro l’uragano che avanza…

Secondo me non c’è stata invenzione umanamente più deleteria che il telefono portatile nella sua mutazione in pc portatile che ha di certo rivoluzionato il mondo, sconvolto il nostro modo di vivere, ma nello stesso tempo ha portato conseguenze inimmaginabili che solo col tempo si stanno manifestando. Da mezzo per facilitare la vita, a fine della vita stessa. a non è che ci si possa porre rimedio, ormai. Solo la scuola (non parliamo della famiglia) potrebbe dare degli insegnamenti di vivere comune, ma non lo fa, e non interessa a nessuno, tanto è vero che lo smartphome è nelle tasche di ogni alunno in classe mentre dovrebbe essere proibito. Sicché, il ministro leghista dell’Istruzione si svegli e si dia una mossa: a parte un eventuale uso didattico, proibisca, come ha fatto il suo collega francese, lo smartphone alle elementari e alla medie e per le superiori renda obbligatorio dappertutto quel che ha fatto intelligentemente e autonomamente una suola di Piacenza, il Liceo paritario San Benedetto all’inizio di questo anno scolastico: cn una circolare imponga di inserire l’aggeggio in una apposita custodia schermata che lo ammutolisce non appena si entra in classe!

Gianfranco de Turris

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