13 Aprile 2024
Neri

Moreno Neri (a cura di), Giorgio Gemisto Pletone, Trattato delle virtù, Bompiani, Milano 2010.

Una delle più affascinanti ricerche che si possano svolgere nel terreno accidentato della Ierostoria, o Storia Sacra, o diciamo anche Storia Immaginale, è quella relativa a La survivance des dieux antiques, per dirla col titolo del classico libro di Jean Seznec. Ovvero, come, nel millennio che intercorre tra la proibizione del culto degli Dèi ad opera di Teodosio (391), sino alla loro riapparizione in immagine, in riflessione, in amorosa devozione, e talora anche in culto, nel contesto del Rinascimento italiano (data imprecisata; la più centrata forse è quella della fondazione dell’Accademia Platonica a Firenze nel 1459), in questo abbondante millennio, dicevamo, è ricerca appassionante quella delle vie carsiche e sotterranee per le quali gli Dèi degli Antichi sono transitati, metamorfizzati, nascosti, sopravvissuti, ed infine sottratti all’oblio. Appare ormai evidente che la figura terminale, e destinale, verrebbe da dire, tramite la quale l’Ellenismo come cultura, come filosofia, come religione, è stato restituito all’Occidente, e in Occidente traghettato, è quella di Giorgio Gemisto Pletone.

Tanto più meritevole il tenace impegno di Moreno Neri, che da anni, col suo appassionato lavoro, ha dato un contributo decisivo a far uscire il nome di Pletone dalla considerazione delle ristrette cerchie erudite e specialistiche.

Lo studioso ed erudito riminese, che ha tradotto, commentato, pubblicato, una considerevole quantità di   orazioni, discorsi e testi di Pletone, così come di opere che di Gemisto si occupavano, adesso, con questo Trattato delle virtù, uscito nella prestigiosa collana Testi a fronte dell’editore Bompiani, curata da Giovanni Reale, ci offre non solo e non tanto la traduzione di un testo di Pletone, che forse dopotutto non pertiene al vero e proprio hardcore del pensiero del saggio di Mistrà, quanto uno splendido ipertesto.

Lo chiamiamo così perché, delle 740 pagine di cui si compone il volume, il vero e proprio trattato pletoniano occupa solo 34 pagine, in originale ed in traduzione…

Moreno Neri ci offre, a partire dal testo di Pletone, e verso l’ “esterno”: 1) Un apparato esplicativo di note al testo che affrontano ogni minima questione, dall’ambito lessicale a quello esegetico a quello contestuale; 2) Un’introduzione al testo che lo relaziona con le restanti parti dell’opera di Pletone, così come con Platone e la tradizione platonica; 3) Un’ introduzione all’autore della dimensione di ben 288 pagine che, a parere di chi scrive, è la parte più rilevante del volume, e che potrebbe benissimo avere dignità di testo autonomo. 4) Una ricchissima bibliografia che, come le altre parti del testo di Neri, è fertilissima di spunti, suggestioni, indicazioni, verso altre possibili ricerche ed approfondimenti.

Come detto, l’introduzione all’autore risulta essere la parte più interessante del libro: qui Neri traccia un’affresco dettagliato di chi sia stato Pletone, cosa abbia detto o fatto, quale vita abbia condotto nel contesto dell’”Estate di San Martino” dell’Ellenismo bizantino, tra XIV e XV secolo; cerca di chiarificare quale formazione abbia ricevuto; si spinge fino alla zona d’ombra dei contatti avuti nell’ambiente dell’Anatolia Selgiuchide e proto-Ottomana (il misterioso ebreo Eliseo…); fa balenare un’ ”Aurea Catena” che conduce agli Ishraqiyyun, o “Platonici di Persia” (e magari, viene da aggiungere, a quei misteriosi Sabei di Harran che ricondurrebbero all’Accademia Platonica, chiudendo il cerchio…). E poi ci conduce all’altro capo della catena, a circostante ormai notissime, ma che possono ancora essere viste secondo altre prospettive, i Concili di Unione di Ferrara-Firenze, le diverse posizioni dei dotti d’Oriente e d’Occidente, i contesti politico-religiosi e culturali. Neri, partendo sempre dall’operato e dal pensiero di Pletone, ci presenta molte cose sotto altra luce, e  ci illumina sulla natura di quell’epigonale reviviscenza di platonismo politico, di stile “dorico”, diremmo, che fu il Despotato di Mistrà, sul piano pratico e molto più nella sua immagine ideale, in cui tanta parte ebbe Gemisto.

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“…Certo è che Gemisto fu de’ maggiori ingegni e de’ più pellegrini del tempo suo, che fu decimoquinto secolo…”. Così scriveva nel 1827  Giacomo Leopardi, nel constatare come al suo presente tacesse la fama di colui che fu definito “l’ultimo degli elleni”.

Oblio tanto più singolare se, a dar credito al poeta di Recanati, in Giorgio Gemisto Pletone è ravvisabile uno dei maggiori ingegni di un secolo, il Quattrocento, che di individualità eccezionali fu ricchissimo.

Dall’epoca di Leopardi ad oggi, il secolare lavoro di ricostruzione della Tradizione Antica, e delle vie per cui si è tramandata, è anch’esso, in fondo, p
arte di questa stessa Tradizione.  

Grazie a Moreno Neri, che, abbiamo detto, da numerosi anni dedica tanta parte della sua vita intellettuale alla ricostruzione di questo filone nascosto della Prisca Theologia, costituito dalla trasmissione della Tradizione sub specie platonica tra la Neà Romè e l’Italia, è ormai sufficientemente ben dimostrato quanto Giorgio Gemisto Pletone sia un cardine essenziale di questa trasmissione. Potremmo aggiungere come il lavoro del Neri completi la seconda parte di un dittico, il cui perno è Mistrà, e la cui prima parte è costituita dal grande e suggestivo lavoro di Silvia Ronchey, L’enigma di Piero.

Ampliando il discorso, da un certo numero di anni diversi tra dotti, studiosi, accademici, battitori liberi della cultura, vanno ricostituendo il tracciato di un misconosciuto odòs, sentiero, tramite il quale UNA modalità dell’Antico e della Tradizione è giunta fino a noi.

E’ in questo contesto in progressiva confluenza di opere, lavori e studi, che Moreno Neri ha dato un altro magistrale contributo alla comprensione di quello snodo costituito dalla Bisanzio morente come transito e condizione necessaria della sopravvivenza degli Antichi Dèi, della loro memoria, del loro culto, della possibilità che tutto questo pervenisse a noi.

Federico Gizzi

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