10 Aprile 2024
Tradizione

L’orbo e il monco – Rita Remagnino

Alzi la mano chi negli ultimi mesi non ha scosso la testa almeno una volta davanti all’infimo spettacolo offerto dagli illusionisti della politica. Il discorso vale per tutte le democrazie occidentali, nessuna esclusa. Ormai i capi, cioè le persone in vista che si gloriano di fare parte della cosiddetta «classe dirigente» della società, sono delle macchiette. I loro maneggi per rimanere a galla toccano vette d’ilarità mai raggiunte in precedenza. Idem dicasi per la «realtà dominante», che per apparire più reale delle altre deve continuamente difendersi dagli attacchi degli oppositori, e nel fare ciò è talmente ridicola che è impossibile non sorridere davanti al susseguirsi incessante delle sue azioni maldestre. Come non pensare ai tempi remoti in cui l’uomo era disposto a «dare un occhio, o un braccio» per chi lo guidava. Nel caso in cui fosse in gioco l’incolumità e la sopravvivenza del gruppo, anche tutti e due. L’accoppiata «orbo-monco», infatti, è un classico della narrativa mitologica e tradizionale eurasiatica. Messe insieme queste figure simboleggiano le prime due funzioni sovrane della cultura indoeuropea, ovvero quella magico-giuridica (l’occhio) e quella guerriera (il braccio), nonché tutte le forme di sacrificio rituale ad esse connesse. Il monocolo più famoso d’Europa è senza dubbio il nordico Odino, ritenuto dai suoi contemporanei «colui che conosce più cose al mondo». Secondo i bardi che ne cantavano la gloria, il sovrano sapeva recitare melodie che rendevano malleabili le rocce, spostavano le pietre, calmavano le acque, aprivano i tumuli e abbindolavano i nemici in battaglia «legandoli con un laccio invisibile». Esclusa l’origine aliena del re degli Æsir, rimane percorribile solo la strada dell’iniziato, cioè del «conoscitore di tutte le cose del Primo Tempo». Inclusa la famigerata scienza sonica appartenuta ai primi dèi-civilizzatori, i quali sollevavano in aria pietre che mille uomini non sarebbero riusciti a spostare attraverso giochi di onde sonore a noi sconosciuti. Si vedano certe pratiche riconducibili ai sacerdoti Bön-po, o a quelli di On. Da vero campione di un’umanità nuova, solare e bellicosa, riunita sotto il sigillo dell’utopia e rigenerata attraverso la scienza, Odino esordì sul palcoscenico della Storia con uno «smembramento rituale», quello del gigante primigenio Ymir, la cui carcassa servì a ri-forgiare Cielo e Terra. Un gesto pregno di suggestioni sciamaniche. Ma i tempi erano molto cambiati da quando Purusha si era «diviso» in due per «liberare» i contrari necessari a dare una fisionomia all’universo. Senza contare che il grande re, in qualità di essere non-presente all’origine della Creazione, non era neppure un uomo cosmico. Per questo motivo dovette sacrificare se stesso per ottenere le rune.

Profondamente coinvolto nel grande dramma succeduto alla catastrofe che aveva segnato la fine di un mondo, Odino fu il riformatore che diede l’avvio alla «seconda epoca» dell’uomo, quella propriamente storica. A questo scopo “rimase appeso all’alto tronco sferzato dal vento del frassino Yggdrasill per nove intere notti, ferito di lancia” (un rituale che fa pensare alla Wiwanyag Wachipi, la Danza del Sole dei Pellerossa). Offrì anche uno dei suoi occhi alla sorgente di Mímisbrunnr, fonte di ogni sapere, in cambio della sapienza pura, primordiale e originaria. Un gesto potente poiché la perdita della vista, o di parte di essa, nella più remota antichità eurasiatica si accompagnava alla comparsa di una percezione ben più acuta e importante: quella dell’occhio interno, il «terzo occhio», che permetteva di guardarsi dentro ottenendo il massimo della sapienza. Molti sono i ciechi dotati di singolari proprietà compresi nelle mitologie di origine indoeuropea. A cominciare dall’indiano Bhaga, il dio cieco che conquistò il potere di comandare il futuro grazie alla sua menomazione. Era un non vedente anche l’indovino tebano Tiresia. Mentre il legislatore Regulus narrato da Plinio il Vecchio, per pronunziare le sue sentenze di carattere «magico» usava dipingersi a mo’ di benda un ampio cerchio intorno a un occhio. Altrettanto diffuso nelle narrazioni tradizionali eurasiatiche è il profilo di un dio/uomo, o di un eroe, che perde un arto o una mano per proteggere e conservare l’ordine cosmico-sociale all’interno del suo gruppo. Si pensi ad esempio a Týr, uno dei massimi rappresentanti della funzione guerriera, che perse una mano in battaglia cacciandola incautamente nelle fauci del lupo Fenrir. Emblematica sotto questo aspetto appare una storia importata in Europa dagli invasori sciti Túatha Dé Dánan, eredi spirituali di quei «popoli delle steppe» che sparsero il loro seme per tutta l’Eurasia a partire dal IV millennio a.C., i quali strapparono agli aborigeni Fir Bólg il dominio sull’Irlanda, la mitica Ériu.

La stirpe guerriera dei Túatha apparteneva probabilmente alla variegata famiglia etnica che una volta l’anno (stando ai racconti di Erodoto) immolava vittime umane dinanzi a un’immensa catasta di fascine dominata da una spada, simbolo della guerra. L’uomo da sacrificare veniva scelto tra i «nemici più accaniti», cioè tra i prigionieri che si erano distinti in battaglia per ferocia e crudeltà. Prima gli si versava del vino sulla testa, poi lo si sgozzava sopra un vaso. Il celebrante saliva quindi sulla catasta di fascine e irrorava la sua spada con il sangue della vittima.  Quando invece le sorti della battaglia volgevano al peggio, si cercava di tagliare il braccio destro con la spalla al re o al campione che guidava l’esercito nemico. L’arto veniva lanciato in aria e poi lasciato cadere a terra tra urla di disprezzo e grida oscene. Un’azione rituale in piena regola. Incappò in un simile incidente persino il leggendario re Nuada mac Echtain. Ucciderlo sarebbe stato controproducente perché i bardi lo avrebbero glorificato, tramandando il poema delle sue gesta per chissà quante generazioni. Mentre sfregiarlo un attimo prima del trionfo equivaleva ad umiliare con un ultimo atto d’orgoglio sia il campione che la sua stirpe, dando un gusto amaro alla vittoria. Ma in questo caso gli aborigeni Fir Bólg non avevano fatto i conti con le conoscenze sciamaniche degli invasori Túatha, i cui medici e fabbri di corte si lanciarono subito in un delicato intervento chirurgico. Il guerriero ne uscì con un braccio d’argento con tanto di mano e dita mobili, ma il regno non era più nelle sue mani. A quei tempi era inconcepibile avere un invalido sul trono. Nel mondo indoeuropeo il principio della sovranità temporale era percepito come il prolungamento di un’autorità famigliare perfettamente integra. In qualità di «padre del suo popolo», il re doveva godere di una buona salute mentale e fisica per esercitare la potestà genitoriale. Il concetto di «diversamente abile» non era ancora nato, per cui perdere una mano in battaglia, o tagliando la legna nel fienile, costituiva un motivo più che valido per lasciare lo scettro del comando e tornare a fare l’allevatore di capre. Nessun re doveva essere inoltre troppo vecchio per reggere il peso di una spada. La vecchiaia nell’Età del Metallo era una iattura da cui rifuggire, non solo per chi l’attraversava ma per l’intera comunità. I gruppi umani erano spesso in movimento e perennemente in guerra, avevano bisogno di uomini e di donne fisicamente efficienti che combattessero, lavorassero e si riproducessero con facilità. Nel gruppo quando un soggetto maschio toccava i sessant’anni di età (eventualità assai rara in tempi in cui la morte in battaglia giungeva sempre prematura), pensava lui a togliersi di mezzo, senza aspettare che i suoi figli lo facessero al posto suo. Tra le morti più onorevoli vi erano il salto rituale giù da una montagna o l’ultimo tuffo nel mare dall’alto di una roccia.

Privato del potere il povero Nuada passava le giornate a sospirare pietosamente, esaminandosi la protesi vergognosa che aveva minato alle radici il suo valore di capo spirituale e di combattente. Finché un giorno si presentarono alla sua porta due guaritori stranieri. Tu trova un braccio umano di uguale lunghezza e spessore, gli dissero, e noi ricostruiremo il tuo come nuovo. Furono prese le misure a tutti, decidendo alla fine che il braccio compatibile era quello del porcaro Modan. Un chirurgo fu mandato allora a tagliare l’arto adatto per portarlo ai guaritori venuti da lontano. Rimesso a nuovo Nuada divenne re per la seconda volta, risollevando così le sorti politiche della leggendaria stirpe dei Tuatha De Danann. Mentre Modan, la cui vita terrena sarebbe altrimenti finita senza scalpore, entrò legittimamente nella Storia. Correva l’anno 3311 dalla Creazione del Mondo, ovvero 1887 anni prima della nascita di Cristo. O, almeno, così raccontavano i bardi.  Una soluzione del genere oggi sarebbe improponibile. Non per niente l’antico detto popolare “darei il braccio destro per …” si è trasformato in un confuso “darei non so che cosa per …”. Inadeguatezza e mediocrità sono la cifra dell’Età Oscura, e menomare qualcuno in nome di una cosa o di una persona insignificante non avrebbe alcun senso. Diversa era la situazione quando alla guida di un popolo c’era il Migliore, l’Eroe che infiammava il cuore del popolo, il Re capace di fare la storia anziché un Signor Nessuno reclutato all’ufficio di collocamento. Solo una guida autorevole, un «capo» integro nel corpo e nella mente, poteva celebrare il Sacro in nome della comunità, ricevendo stima e rispetto in cambio. Solo ieri affermazioni simili avrebbero fatto drizzare i capelli in testa agli antifascisti in assenza di fascismo. Ma la paura di un virus, cioè della morte, sta cambiando molti punti di riferimento. Cresce l’insofferenza verso i potentati anonimi che dominano l’umanità e il disgusto per le fabbriche di opinione. Non va meglio per le istituzioni, enti astratti svuotati di significato. Anche le scienze vacillano, non potendo offrire certezze, mentre le socialdemocrazie costrette a taroccare le elezioni per rimanere in sella sono sempre meno rispettabili. Per chi/cosa si dovrebbe dare un occhio o un braccio? Ormai sono un ricordo lontano certe aristocrazie dell’antichità, autorevoli senza essere sprezzanti, i veri sovrani senza affettazione né albagia, la sana e laboriosa borghesia, il popolo genuino dotato di buon senso. Tutto morto e sepolto perché la Cupola si è pappata le categorie umane con tutto quello che c’era dentro. E comprensibilmente nessuno sacrificherebbe un’unghia per chicchessia, né per il bene del «suo» gruppo, non essendoci più alcun gruppo da salvare. Uno vale uno, è il nuovo dogma. Quando, invece, uno vale niente perché la società non sa cosa farsene della monade.

Ma la storia di Nuada non è finita. Un giorno si presentò alla sua corte un campione di nome Lúg Lámfada, che letteralmente significa «Lúg lunga mano», il cui nonno era Balor, re dei Fomóraig, una stirpe autoctona di antiche origini europee che depredava senza sosta alcuni territori dell’isola, imponendo tasse insostenibili alle tribù sottoposte al suo protettorato. Il ragazzo aveva un bell’aspetto e sfoggiava una parlantina sciolta. La potenza guerriera in lui pareva fluire sotto la pelle in fiammeggianti lingue di metallo fuso. Ma al netto della prima buona impressione, Núada volle metterlo alla prova. A quei tempi non esistevano i curricula e ciò che si diceva di saper fare bisognava poi dimostrarlo nei fatti. Al giovane venne proposta dunque una gara a fidchell, il «legno dell’intelligenza». Un gioco da tavolo simile agli scacchi che fu inventato dai nobili, a quanto sembra, per ingannare il tempo tra un attacco e l’altro durante la lunga guerra di Troia. Avvenuta, guarda caso, proprio in concomitanza con la battaglia di Mag Tuired (in lingua gaelica, Cath Maige Tuired) con cui i Túatha conquistarono Ériu. Per i guerrieri nordici di stirpe reale vincere una sfida a fidchell era una specie di obbligo di Stato, in quanto l’intelligenza era considerata emanazione della regalità. Ma anche i re d’Oriente erano soliti scambiarsi gli enigmi tra di loro come se fossero dei doni preziosi. Complicati rompicapo venivano proposti inoltre ai pretendenti di una sposa reale poiché il matrimonio dipendeva dalle capacità intellettive del giovanotto. Gli stessi oracoli si esprimevano in modo enigmatico, e sarebbe un vero spasso poter osservare oggi senza essere veduti la faccia di un campione dell’antichità davanti ai discorsi sconclusionati della politica. Lúg vinse la partita, insinuando nella mente di Núada il pensiero che forse quel giovane brillante e lontanamente imparentato con i Fomóraig avrebbe potuto aiutarlo a sbarazzarsi per sempre dei molesti vicini. Fu riunito il Gran Consiglio nella Sala dei Banchetti della fortezza di Temáir, e dopo un acceso confronto si giunse alla decisione di cedere la regalità a Lúg a tempo determinato (tredici giorni) allo scopo di risolvere il problema. Il giorno di Samhain (il 1°novembre, quando cominciava la metà «oscura» dell’anno) gli eserciti dei Túatha e dei Fomóraig si schierarono uno contro l’altro nella piana di Mag Tuired, dove trent’anni prima i Túatha avevano sconfitto i Fir Bólg. Purtroppo Núada morì nel corso di un combattimento con Balor (re dei Fomóraig e nonno di Lúg), il quale morì a sua volta per mano del nipote che, ignaro dell’identità del reale antenato, gli fece saltare la testa con un tathlum, una palla che i guerrieri ottenevano cementando il cervello dei nemici uccisi. La vittoria non servì purtroppo a fermare il declino dei Túatha, ormai bene avviati sul viale del tramonto, che finirono per dissolversi nel rimescolamento delle stirpi di quei giorni bellicosi e raminghi. Nonostante qualche bene informato sostenga ancora oggi che i loro discendenti continuino a giocare a fidchell in un misterioso regno sotterraneo. Ma questa è un’altra storia.

Troppe per essere casuali sono le analogie tra la biografia del celta Lúg (che significa «il luminoso») e il mito di Perseo, l’eroe solare che indossava il berretto frigio come Mitra e i Magi persiani. A Balor, signore dei Fomóire, viene profetizzato dai veggenti reali che morirà per mano del figlio di sua figlia e per questa ragione il re segrega la primogenita Ethné nella torre di Tór Mór, vietandole di incontrare qualsiasi individuo di sesso maschile. Ad Akrísios, re di Argo, viene predetto che morirà per mano del figlio di sua figlia e per questa ragione il sovrano segrega la giovane Danae in una torre inaccessibile, vietandole di incontrare qualsiasi individuo di sesso maschile. A dispetto delle precauzioni, il prode Cian penetra nella torre e si unisce a Ethné, che subito rimane incinta. Trasformatosi in una pioggia d’oro Zeús visita la bella Danae, che ben presto partorisce un bimbo. Balor ordina che il neonato venga gettato in mare e annegato. Re Akrísios ordina che madre e figlio siano rinchiusi in una cassa di legno e gettati in mare. Il bimbo celta cade fuori dal fagotto, viene trovato piangente in una baia e diventa un campione. Le onde greche trasportano la cassa sull’isola di Serifo, salvando madre e figlio, che crescendo rivela la tempra di un giovane eroe. Dopo qualche anno la profezia si avvera: Lúg scaglia un dardo e uccide Balor, ignaro di esserne il nipote; Perseo centra accidentalmente con un giavellotto il nonno Akrísios nel corso di una gara. L’ennesima similitudine sta nello sguardo letale delle vittime: Balor ha il potere di uccidere chiunque su cui posi semplicemente il suo occhio malefico; il peggior nemico di Perseo, Medusa, può trasformare in pietra chiunque incroci il suo sguardo. E ancora: il sangue di Balor spacca in quattro pezzi la pietra su cui Lúg pone la sua testa; il sangue di Medusa diventa fatale per chiunque lo tocchi. Non è finita: rovesciandosi all’indietro l’occhio di Balor sconvolge le schiere dei Fomóire; Perseo si serve della testa di Medusa per sconfiggere i nemici. Volendo fare una piccola digressione esotica: anche l’eroe mesopotamico Gilgamesh decapita il gigante Humbaba il cui occhio, unico come quello del Ciclope e di molti altri esseri precedenti compresi nella narrativa eurasiatica, trasforma i nemici in pietra.

 Inutile chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina. E’ sempre difficile, per non dire impossibile, stabilire a chi appartenga la paternità di un’idea. Secondo Robert Graves queste storie deriverebbero da un comune substrato neolitico, partirebbero cioè da narrazioni precedenti all’invasione indoeuropea dell’Eurasia, nonostante l’Occidente «grecofilo» faccia dipendere d’ufficio molti miti nordici da quelli greci anziché il contrario. Verosimilmente le gesta degli orbi e dei monchi sono state ricostruite dai bardi sulla traccia di antichi miti indoeuropei, dei quali rappresentano una specie di collage. La stessa vicenda di Lúg /Perseo potrebbe appartenere a una tradizione orale millenaria che scendendo a cavallo dal Nord è diventata sedentaria al Sud, dove è stata messa per iscritto.  E quando un bel momento i forti sentimenti legati alla stirpe e alla guerra finirono in soffitta, il tema della principessa segregata in una torre e raggiunta (o salvata) da un amante eroico fu ripescato dalle fiabe popolari, che romanzarono fatti di cronaca antichissimi, preservandone tuttavia il ricordo. In cosa possono esserci utili oggi queste narrazioni? Nella riflessione, sicuramente. Premesso che nessuno ha intenzione di farsi cavare un occhio o amputare un braccio, appare chiaro che neppure in un’epoca artificiale come la nostra l’uomo-ponte che traghetterà l’oggi verso il domani potrà essere poco intelligente, poco autorevole, poco coraggioso, poco rispettato. Alla Storia non serve l’ennesimo ripetitore di slogan preconfezionati e basati su previsioni inattendibili. Ogni nuova visione necessita di personaggi trasversali e non ricattabili, inseriti nel mondo ma consapevoli della profondità delle proprie radici. Persino le decantate tecnoscienze devono poggiare su solide basi culturali per stare in piedi, altrimenti crollano.

Rita Remagnino

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (ed. Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (ed. Audax Editrice). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

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