12 Aprile 2024
Punte di Freccia

L’inutile pretesa della bellezza – Mario Michele Merlino

Sala Verdi, spaziosa e nuda, all’interno del Complesso del Vittoriano, dove si accede per visitare il Museo del Risorgimento (confesso non esserci mai stato). Sento risuonare, ora con accenti addolorati ora con intenti carichi d’orgoglio rivendicativo, vecchi e reiterati richiami al ‘vero’ e al ‘buono’ e, va da sé, al ‘bello’. Patetici mi appaiono e falsi. Non che sia menzognera chi li ha pronunciati, non mi si fraintenda (sono rispettoso verso le persone e verso lo spirito che anima il dire!). Anzi. E’ studiosa rigorosa documentata affabile nei modi sicura negli enunciati serena puntigliosa convinta (lo fu anche quando, un paio d’anni fa, presentò Nei meandri). Oggi propone e si fa portavoce delle ragioni espresse nel libro Paradiso Occidente di Stefano Zecchi, professore di estetica, autore di saggi e di romanzi (suo Quando ci batteva forte il cuore, 2010, sul dramma dell’esodo da Pola). Purtroppo un repentino e imprevedibile dramma familiare (investiti mortalmente sulle strisce pedonali sorella e cognato)gli ha impedito essere presente.

Senza l’autore il possibile domandare – quell’interrogare che sempre cela l’interrogarsi – diviene vano se non muto dialogare, avendo acquistato il libro. E le presentatrici, forse colte anch’esse da questa assenza, possono solo essere interpreti o eco di se medesime. Leggerò il libro, certo, pur se mi sento già – ed è un mio limite, un torto – avverso e lontano. E ciò perché ho ascoltato l’inganno l’illusione l’alibi di quei termini con cui l’Occidente s’è fatto forza e vanto. Già da quando, letterato grandioso e suggestivo il suo essere creatore di miti – poesia, dunque –, qualche secolo prima di due millenni d.C., in quell’Atene della restaurazione democratica, il mendace filosofo, di cui conosciamo solo lo pseudonimo, ci incantò con quell’Uno a governare in armonia il mondo delle Idee, che sono caratterizzate appunto dal loro essere e vere e giuste e belle.

Da allora guerra alle opinioni, mortali per esseri mortali, preda le une e gli altri del tempo e delle circostanze, a dirla assieme all’Ecclesiaste – il quale non conosce Platone ma ha pretese d’assoluto e di eterno. L’errore sempre in agguato, ripensamento e modifica, come dare ad esse credito? Lo stesso dicasi per gli uomini, esseri in cammino, esseri contro – a due teste come si irritava Parmenide, filosofo di Elea, che un omino, quale il mio professore di liceo, si ostinava a contrapporre a Eraclito, filosofo di Efeso. E gli scettici vennero relegati al confine, fastidiosi, impresentabili, tanto simili a parenti poveri di cui non si può fare a meno in determinate e rare occasioni, ma di cui ci si vergogna alquanto. Così Cartesio, inaugurando la modernità e il dominio rinnovato della razionalità – premessa di quella ghigliottina degli illuministi e dei loro figli giacobini – irrideva allo scettico, facendo di lui un guitto inconcludente e contraddittorio. (E, qui, non rinnoverò l’ironia, stupida e vile, di cui si servì Marx, giovane e fanatico, insieme al suo sodale Engels, verso il ‘mite’ professore di istituto per fanciulle di buona famiglia, a Berlino, siamo nella prima metà dell’800, dagli occhialetti rotondi e il viso affilato, conosciuto con lo pseudonimo di Max Stirner. Se lo considerava una ‘nullità’, una sorta di santo al servizio di fantasmi, perché tanto accanimento? C’era e c’è il rischio autentico come quell’Unico gli rompesse il giocattolo del ‘materialismo storico’, della lotta di classe e della coscienza ad essi subordinata. Soprattutto facesse a pezzi ogni pretesa di rendere il mondo in pensieri categorie generi, universali e necessari, riportando a un sé unico e irripetibile, il cui fondamento si trova ‘riposto sul Nulla’).

Poi il 3 gennaio del 1889, un giovedì mattina, uno sconosciuto professore tedesco, ormai da tempo in pensione, svoltando in piazza Carlo Alberto a Torino, vide un cocchiere frustare un vecchio ronzino. Con un urlo si lanciò verso l’animale lo abbracciò singhiozzando cadde a terra svenuto. Undici anni di muta follia. ‘Cammino con le scarpe rotte’ (tre giorni dopo ultima lettera a Jacob Burckhardt), così scrisse ‘questo genio’, come lo definì il poeta Gottfried Benn. Da quella follia da quell’abisso insondabile, il mondo non fu più il medesimo, l’Occidente (‘la terra della sera’), tronfio di sé e di sé artefice della storia, dovette fare i conti con l’età del nichilismo. Con ‘la morte di Dio’, annunciata nell’aforisma dell’Uomo folle, già al tempo della Gaia Scienza.

Se Dio è morto, con lui viene meno ogni sua determinazione – la metafisica e il mondo dei valori che ad essa s’accompagnavano. Come per un qualsiasi organismo. Per breve ancora, in un corpo, crescono unghie e capelli, ma le braccia le gambe i sensi si sono irrigiditi per sempre. L’Uomo folle si volge ai ‘bravi’ borghesi, riuniti nella piazza del mercato, per ricordare come siano essi gli assassini di Dio e, di fronte a questo misfatto apocalittico, non si possano sottrarre dalla personale e collettiva responsabilità. Altrimenti, se facciamo a meno del ‘sacro’ (in termini ben più estensivi e non di esclusiva pertinenza ad un fenomeno di religione rivelata), non possiamo avere la pretesa di continuare a vivere all’ombra di quei valori di quell’etica con cui ogni religiosità s’adopera nel suo manifestarsi.

(Nella sfera del politico, ad esempio, in quello spazio ove l’uomo relaziona se stesso con gli altri tramite il lavoro il proprio tornaconto gli ideali di giustizia e di libertà, democrazia e comunismo con il loro fallimento ne sono la riprova – la società imperfetta e la morte delle ideologie hanno reso vano ogni sistema valoriale legato a tradizioni formatesi nel corso di secoli di idee e di conflitti. E il fascismo e il nazionalsocialismo – si pensi a Oswald Spengler o a Martin Heidegger – furono affascinanti espressione di una grandiosa illusione, da ‘crepuscolo degli dei’…).

Il nichilismo è una condizione, resasi dal tempo e dalle circostanze, oppure è un destino? Comporta il proprio superamento – Nietzsche si definiva colui che aveva colto il nichilismo ma anche il primo capace di andare oltre e Heidegger ci invita a riflettere come perire e tramontare non vanno confusi in quanto nel tramonto si raccoglie e si protegge l’alba a venire – o, viceversa, la decadenza è una lenta agonia che si trascina e ci trascina da più generazioni? I pensatori del tramonto, sovente vilipesi e derisi, sembrano coltivare comunque un angolo di speranza (solo Spengler fa strage d’ogni illusione chiedendo a ciascuno di noi d’essere testimoni degli eventi non creatori di riscatto).

E’ certo, però, che questo Occidente – a noi caro e dolorante – si ammanta di suggestioni se è luogo privilegiato da questa biblica invasione, da flussi ininterrotti migratori. Di quale natura sono questi richiami? Non le antiche vestigia, il Partenone e il Colosseo, le cattedrali gotiche di Chartres e di Reims, l’abbazia di Montecassino violata dai barbari stelle e strisce (dove la differenza con i dissacratori di Palmira?), non i quadri del Tiziano o la Tempesta del Giorgione, la musica di Mozart o l’irrompere di Beethoven, no, essi chiedono case popolari sussidi cellulari e supermercati perché una identità se la portano addosso e in armi. E qui, da noi (?), trovano il vuoto che s’è riempito di chiacchiere, un bla bla ipocrita e vile, su integrazione e solidarietà e, con toni più concettuosi, globalizzazione e multiculturalità. E ai mitra e bombe i gessetti colorati, la sindrome di Stoccolma…

Quasi contemporaneo a Nietzsche, questa sorta di Cassandra d’Occidente, muto e frainteso, lo scrittore russo Fédor Dostoevskij (1821-1881). ‘Solo la bellezza ci salverà’. Stefano Zecchi, nelle ultime pagine del suo saggio (non trattandosi di un libro ‘noir’ l’ho sfogliato), ricorda il racconto Il sogno d un uomo ridicolo. Ecco: lo sapevo. Contro la perdita di identità e vittima beota del ‘dominio planetario della tecnica’, l’uomo europeo deve (quale pretesa arrogante si cela in ogni inutile professore!) raccogliere la sfida in nome di quell’eterno romantico darsi dell’arte – il vero il buono il bello, ahimè – che si contrappone all’effimero al contingente al provvisorio , insomma a quel Nulla tanto odioso e odiato. E il sangue? Questo fluire, che nasconde la voce più autentica dello Spirito, non viene citato perché gli uomini ‘delicati’ non possono certo sporcarsi le mani…

Istintivo, mi sorge un confronto. Mi alzo e tolgo dallo scaffale Il cavaliere la Morte il Diavolo, avvolgente testo, di Jean Cau – muto dialogo tra l’autore e la stampa del Duerer. Seconda metà anni Settanta. Datato, forse. Oggi non vi è più l’Armata Rossa – Putin è una vaga illusione (capitalismo territoriale contro il più invasivo capitalismo finanziario) – né un giovane ufficiale a contemplare quell’immagine lasciandosi irretire, ‘egli non aveva più di vent’anni, se ricordo bene, mandava odore di cuoio e di foresta’. Rappresentava ancora una risposta; la visione dell’Occidente era ancora una risposta. Oggi quella stampa sarebbe preda del fuoco iconoclasta di qualche barbuto fondamentalista… Ad esso – e, suo tramite, a tutti noi – la lezione di Stefano Zecchi non suscita uno ‘schianto’ non una ‘lagna’, un documento raffinato, un elogio funebre verso ‘la nostra decadenza e la seduzione della notte’. Troppo poco o, di questi tempi, troppo.

 

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