9 Aprile 2024
Breviario Ribelle

L’anno che verrà – Roberto Pecchioli

Ho un pessimo rapporto con la fine dell’anno. Già da bimbo non riuscivo a capire perché si dovesse festeggiare il tempo che fugge. Le riflessioni filosofiche infantili non potevano comprendere l’esorcizzazione della morte e, per contrasto, la necessità di sperare, l’illusione di un nuovo inizio. Tuttavia, volevo partecipare all’evento della nascita del nuovo anno, che nel mio mondo incantato non significava botti e brindisi, ma la convinzione che a mezzanotte precisa avvenisse una vera e propria staffetta tra un vecchio barbuto in disarmo – l’anno vecchio – e un giovane baldanzoso che ne prendeva il posto, l’anno nuovo.

In famiglia i bambini non erano ammessi alle cose dei “grandi” e dovevo andare a dormire alla solita ora. Sarebbe stata la mamma a raccontarmi, a cose fatte, che cosa era accaduto all’ora magica. Così l’anno nuovo arrivava in mia assenza. Una volta mia madre mi raccontò che l’anno vecchio non voleva assolutamente andarsene, poiché pensava di dovere fare ancora tante cose, e che l’anno nuovo, più forte, lo allontanò in malo modo, con il bastone. Avevo sei anni e il povero anno vecchio solo uno. Simpatizzavo con lui – forse sono reazionario da quel giorno – cacciato dopo un unico anno di servizio. E poi, perché lui era decrepito e io ancora piccolo? Misteri infantili che affiorano a ogni fine anno, specie da quando l’età incede, il tempo corre e sento di assomigliare all’anno vecchio.

Pure, bisogna assoggettarsi alle abitudini e fare qualche bilancio di fine anno. Aiuta il testo – bellissimo e sorprendente – dell’ Anno che verrà, la canzone di Lucio Dalla. Caro amico ti scrivo, inizia (anch’io scrivo al me stesso di allora) poiché “l’anno vecchio è finito, ormai, ma qualcosa ancora qui non va”. Era il 1979 quando uscì il disco, e già l’imbroglio era chiaro: “Ma la televisione ha detto che il nuovo anno/ porterà una trasformazione. E tutti quanti stiamo già aspettando”. L’artista finge di credere alle speranze: “sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno, ogni Cristo scenderà dalla croce, anche gli uccelli faranno ritorno. Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno; anche i muti potranno parlare mentre i sordi già lo fanno”. Finzione, illusione, il futuro come posticipo della speranza. Forse il bambino di allora aveva ragione a non capire: “vedi caro amico cosa si deve inventare, per poter riderci sopra, per continuare a sperare”.

E’ vero: da quando abbiamo smesso di credere che la vita abbia un senso, dobbiamo mentire di più, inventare storie fingendole vere, paradisi lontani per sopportare l’esistenza e dimenticare il filo sempre più sottile, destinato a spezzarsi. Lo sapevano gli antichi, che inventarono le Parche – Moire in greco – figlie di Giove e Temi (la Giustizia), le divinità che stabilivano il destino degli uomini. Erano tre: una filava il filo della vita; la seconda assegnava il destino e la durata; la terza recideva il filo. Neppure gli dèi potevano cambiare le loro decisioni. In fondo, la nostra vita può essere vista come la lotta impari contro il fato e la caducità, di cui sono simbolo la fine di un anno e il sorgere del successivo.

Ogni volta dobbiamo sperare, fingere festa per dimenticare, immaginare nuovi inizi. Dovrebbe essere più facile – ma non lo è, il nichilismo costa – per l’uomo occidentale contemporaneo, che, dismessa ogni altra credenza, si è attaccato al mito del progresso. Domani sarà inevitabilmente meglio di ieri. Perché dunque volgersi indietro, restare attaccati a tradizioni, modi di vita, valori che domani il progresso renderà obsoleti, perfino ridicoli? Per Jean Paul Michéa i devoti del progresso somigliano a Orfeo, il mitico cantore che cercò di riportare alla vita terrena la moglie Euridice. Commosse dal suo canto, le Erinni, arcigne guardiane dell’Ade – l’oltretomba degli antichi – permisero che Orfeo portasse con sé Euridice. La condizione era che non dovesse mai voltarsi indietro. Alle porte dell’Ade Orfeo non resistette al dubbio: Euridice era ancora dietro di lui? C’era, ma la promessa era infranta e la fanciulla tornò al suo destino.

Strane considerazioni, trucioli di mito buoni per non affrontare la realtà, metafore, simboli dell’enigma umano, l’incomprensione del destino, la ribellione dell’animale sapiente all’ordine delle cose, il cui simbolo sono le feste di fine anno, il baccano che cancella il pensiero, i brindisi, l’allegria comandata, spesso sguaiata, le speranze rinnovate nonostante la certezza che saranno presto vanificate. L’anno vecchio e quello nuovo sono assai simili, anzi non esistono. Siamo noi ad averli inventati per misurare, attraverso il corso del sole, l’unico astro che vediamo ogni giorno , un’astrazione che chiamiamo tempo.

Il lettore è spazientito: perché divaga, perché evita il tema del titolo? L’anno che verrà. Hai ragione, amico lettore: divago, giro attorno all’argomento perché ne ho paura. Lo stato d’animo è lo stesso del Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Che fai tu Luna in ciel, dimmi che fai, silenziosa Luna? La domanda che pone è la stessa che evitiamo, sfioriamo, cacciamo con ostinazione ogni momento e specialmente al cambio dell’anno: “Dimmi, o luna: a che vale/ al pastor la sua vita/ la vostra vita a voi? dimmi: ove tende/ questo vagar mio breve, Il tuo corso immortale?” Ossia, perché ci affanniamo ai bordi del nulla, dopo aver smesso di credere in Dio, finanche in forma di ipotesi, possibilità, o scommessa (la pari di Blaise Pascal) .

Che importa dell’anno che verrà? Ben probabilmente sarà simile a quello che prende commiato, succeduto a sua volta ad altri anni in chiaroscuro, con prevalenza del buio. Per questo esito a dire la mia sul futuro prossimo, a rientrare nella realtà rifugiandomi nell’eldorado infantile o nelle metafore della civiltà di cui sono erede postumo, poiché l’Orfeo postmoderno figlio di nessuno ha imparato la lezione e non si guarda più indietro. Ignaro del passato corre in tondo nel presente.

Il 2023, a dire il vero, non si farà troppo rimpiangere. La guerra in Ucraina è continuata, con il suo carico di morte, distruzione, paura. Rispetto a un anno fa, anche i più creduloni hanno capito che vincerà l’orso russo e che gli sfortunati ucraini “ semplici” ( non le classi dirigenti di servizio…) sono le vittime della volontà occidentale di tenere in scacco la Russia. Vecchia geopolitica, nuove giustificazioni. L’anno che verrà vedrà probabilmente finire quel conflitto e scopriremo la portata delle macerie, il numero delle vittime, il conto a piè di lista.

Ne sarà valsa la pena? No, risposta elementare. Tuttavia, se fossimo Black Rock, Vanguard, State Street o un altro dei giganti finanziari occidentali, la penseremmo diversamente. Avremmo comprato a prezzi di saldo il territorio ucraino e le sue risorse, guarderemmo le rovine fregandoci le mani in vista delle ricostruzione. Quanti affaroni ed affaracci: è sempre così dopo le guerre. E a noi, all’Italietta fornitrice di armi, che toccherà? Poco, temiamo. Alla Germania l’Oscar del peggior attore non protagonista. Allontanata una volta ancora dall’intesa naturale con il vicino russo, privata dell’energia per la sua industria manifatturiera, sconfitta dal nanismo politico militare, esito della disfatta di ottant’anni fa. L’Europa avrà perduto, il Grande Fratello a stelle strisce no. In difficoltà in tutti gli scenari del mondo, rafforza la presa sui vassalli (o servi delle gleba) europei.

Si sveglieranno l’anno che verrà? Ne dubitiamo, se “dai fatti occorre trarre significazione”. Allineati e coperti anche nel sostegno all’odiosa operazione di Gaza, ultimo frutto velenoso del 2023, gli europei sempre più escono dalla storia. Coperti di ridicolo, un po’ più poveri, l’anno che verrà faranno i conti con gli strascichi della crisi energetica e batteranno nuovi record nella corsa a disfarsi della loro civiltà. Tutti sperimenteranno le delizie del patto di stabilità europoide, la stretta finanziaria che impedirà per anni ogni politica autonoma e arricchirà ulteriormente i (falsi) creditori finanziari.

L’Italia sperimenterà le delizie del mercato libero dell’energia. Aumenti del gas del settanta-ottanta per cento. L’anno che verrà qualcuno dovrà scegliere se riscaldarsi o cenare. Nell’anno che verrà non cambierà il governo. Se dovesse accadere, dopo il governo Draghi e quello Dragoni-Draghetti (Draghi più Meloni e Giorgetti) avremmo il gabinetto (oops…) Dragh-schlein, con vernice arcobaleno e camera LGBT. Per il resto, business, as usual, affari come al solito. In compenso, sono morti il quasi centenario Jacques Delors, l’artefice dell’Unione Europea reale e Wolfgang Schaeuble, il cerbero tedesco che strozzò la Grecia nel 2011. Rispetto per la sua fine, non per la cura che impose: il paziente è morto. Solo l’emigrazione di massa ha fatto diminuire la disoccupazione, il malato ellenico non si è rialzato. Non è certo casuale che sia stata uccisa per prima la nazione che inventò, trenta secoli fa, la civiltà europea.

L’anno che verrà avvicinerà ulteriormente la fine e ciò che più stupisce è l’indifferenza, la voluttà suicida degli ultimi epigoni. Orfeo divenuto fluido non si volterà, non ama più Euridice, anzi neppure sa chi è. Che cosa potranno cambiare i prossimi dodici mesi? Ah, sì, rinnoveremo il parlamento europeo, l’istituzione più inutile della Terra, una mecca per i suoi settecento e passa membri, i loro aiutanti e la ricca, onnipotente burocrazia di Bruxelles. Ci divertiremo con il lungo percorso delle elezioni americane, tra colpi bassi, l’evidenza che la democrazia è sempre più una farsa e che al centro dell’impero comandano il denaro e lo Stato profondo, l’alleanza tra industria, finanza, apparati militari e agenzie riservate. Lo scoprì a sue spese un presidente che veniva dall’esercito, Eisenhower, addirittura nel 1960. I suoi moniti rimasero inascoltati. La libertà di pensiero, di stampa e di parola subiranno pesanti giri di vite. L’ Europa è all’avanguardia con il bavaglio del Digital Service Act. Sonno narcotico delle vittime: basta che nessuno vieti le dipendenze che tanto amano, sesso, droga, alcool, gioco, sballo, “diritti”.

Interessante sarà osservare le convulsioni della chiesa cattolica. I preti predicano al deserto – il giorno di Santo Stefano dodici presenti, compreso il vostro scrivano, per la messa mattutina del vescovo di Chiavari – ma riescono comunque a far danni. Chi finanzia gli scafisti, chi fa presepi in chiesa con due madri attorno al bambino, chi scrive le regole per le benedizioni omo, chi – il cardinale Zuppi – depreca che il presepe sia “divisivo” ma non spende una parola per difenderlo. Ci divertiremo vedendo all’opera la neo Chiesa, a patto, beninteso, di non essere credenti. Dopo essere stata protagonista della storia per molti secoli, e poi antagonista per altri secoli, la Chiesa, scrisse un appartato, acuto pensatore italiano, Andrea Emo, è diventata cortigiana della storia, una cocotte invecchiata dal trucco pesante, al basso servizio di un “potere che non la vuole più “ ( P.P. Pasolini).

Non saranno i rintocchi dell’orologio del 31 dicembre a cambiare le cose, dopo la mezzanotte. L’intuizione degli artisti è più fulminante dei pistolotti dei sapienti: “l’ anno che sta arrivando tra un anno passerà. Io mi sto preparando, è questa la novità”.

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