12 Aprile 2024
Cultura

L’animale culturale, seconda parte – Fabio Calabrese

Come probabilmente ricorderete, scrissi un paio di anni fa una “prima parte” con il medesimo titolo di questo scritto in occasione di un episodio vergognoso, di una di quelle vergogne a cui la democrazia, questa macchina politica per negare e distruggere la libertà di pensiero, ci ha sempre più abituati. In questo caso si trattava della decisione dell’università di Salisburgo di cancellare la laurea ad honorem attribuita in precedenza a Konrad Lorenz, uno dei grandi scienziati, forse l’ultimo grande scienziato della nostra epoca, per l’accusa di “razzismo”, accusa che è come un coltello svizzero per il “pensiero unico” democratico, cioè buona per tutti gli usi, anche i più demagogici e pretestuosi.

Il titolo si riferiva a una frase di Lorenz secondo cui “L’uomo è per natura un animale culturale”. Un concetto che forse è dettato più dal buon senso che dalle ricerche del grande naturalista, ma che chiude un dibattito che ha attraversato la nostra cultura per secoli: la contrapposizione tra innato e appreso, tra natura e cultura, tra ambiente ed eredità biologica di cui si pasce la “cultura di sinistra” è in ultima analisi un assurdo, perché è soltanto la sua natura, la sua base biologica che permette all’uomo di essere un animale culturale, un creatore, un portatore, un fruitore di cultura.

Al pensiero del grande scienziato, io mi permettevo di aggiungere una mia personale considerazione: la contrapposizione tra natura e cultura e la svalutazione della prima a favore della seconda, a mio modo di vedere è un ricalco della contrapposizione cristiana fra corpo e spirito, e – del pari – della svalutazione del primo a favore del secondo, e costituisce una delle prove più convincenti che si possono portare della derivazione della sinistra attuale dal “bolscevismo dell’antichità” di cui è una versione laicizzata.

Adesso però mi sembra opportuno tornare sull’argomento e vedere di approfondire il discorso perché su questo tema esistono equivoci e fraintendimenti (in buona o in cattiva fede) a pacchi.

Io penso che sia saggio non rispondere all’errore altrui con un errore simmetrico ma, per quel che i nostri mezzi ce lo consentono, con la verità delle cose; in poche parole, se “i compagni” sostengono che due più due fa tre, noi non dobbiamo per questo pretendere che due più due sia uguale a cinque.

Quale sia il punto dolente della questione, lo si vede molto bene: se ci illudiamo o ci vogliamo illudere che la cultura prescinda totalmente dalla natura ossia dalla base biologica, allora si può arrivare a pensare che essa possa sopravvivere alla cancellazione delle etnie europee che oggi il declino demografico (provocato), i flussi migratori e il meticciato ci lasciano intravedere, che con opportuni accorgimenti educativi sarà possibile trasformare gli allogeni in “nuovi europei” dalla pelle più scura. E’ qui la radice di tutte le aberrazioni di sinistra e cristiane (perché il “bolscevismo dell’antichità” ha ormai stretto una solida alleanza con la sua versione laica-moderna) e che si apprestano a infliggerci la più mostruosa di tutte, lo ius soli, cioè la cancellazione perfino del residuo dell’idea di nazionalità.

Vi avevo citato tempo fa un illuminante scritto di Diego Fusaro di cui vi riporto nuovamente uno stralcio:

“[La sinistra] parte dalla concezione egualitaria secondo cui gli umani sono tutti uguali in quanto non c’è corrispondenza tra la genetica di un popolo e il suo carattere e cultura. Tutto dipenderebbe da circostanze storiche e ambientali. E quindi sarebbe possibile ipotizzare una società perfetta a partire da studi “scientifici”. E realizzarla tramite la distruzione del vecchio e delle identità etniche. I sinistri sono dei razzisti che si sono radicati nell’utopia. La loro realtà è solo mentale ma che ha escluso il corpo”.

E’ chiaro il motivo dell’avversione della sinistra per Lorenz? L’uomo di scienza fa piazza pulita di queste astrazioni utopiche quanto pericolose: se la capacità dell’uomo di essere un animale culturale dipende dalla sua natura, dalla sua base genetica, poiché questa base genetica non è uguale in tutti gli uomini e in tutti i gruppi umani, non sarà uguale nemmeno la loro capacità di farsi creatori e portatori di cultura. Quello che si ripropone inevitabilmente è il discorso delle razze e delle differenze razziali, la cui stessa esistenza “compagni” e democratici cercano di negare in una diuturna lotta contro l’evidenza.

Tuttavia, avendo ben chiaro tutto ciò, e sapendo che “i compagni” con l’aggiunta di cattolicume assortito stanno distruggendo l’Italia in nome di un’utopia suicida, rimane la domanda: quale ruolo hanno effettivamente la cultura, l’ambiente, l’appreso nel determinare ciò che noi siamo? Ebbene, per poco approfonditamente che si esamini la storia dei movimenti di sinistra, non si può da questo punto di vista non notare una vistosa stranezza.

Un pensatore che a mio parere è stato sottovalutato come precursore di Marx, è stato Jean Jacques Rousseau, eppure se andiamo a guardare bene, in nuce le idee di Marx in Rousseau ci sono già praticamente tutte, a cominciare dalla più folle di tutte, che basti abolire la proprietà privata per introdurre la felicità in terra (idea, tra parentesi, che non è nemmeno originale di Russeau, ma è stata copiata di peso da Thomas More, che la Chiesa cattolica ha poi fatto santo, è un’idea che ha un “marchio di fabbrica” cristiano, nel caso avessimo bisogno di ulteriori prove della continuità fra la dottrina del Discorso della Montagna e quella del “Capitale”).

Ebbene, cogliamo subito quella che sembra una contraddizione lampante: Rousseau si dichiara apertamente dalla parte della natura, condanna la cultura e tutto il processo della storia umana come allontanamento da una condizione di innocenza originaria, esalta il “buon selvaggio” non contaminato dalla civiltà, progetta un’educazione puramente negativa, basata sulla sola rimozione degli ostacoli che bloccherebbero lo sviluppo della libera spontaneità, e ne fa un libro, l’Emilio, che fu uno dei primi bestseller della storia (i suoi quattro figli, però, li affidò all’ospizio dei poveri per non doversene occupare, e anche questa in ultima analisi non è che la sinistra continuazione di una “virtù” cristiana, quella di predicare bene e razzolare male).

In realtà, la contraddizione è solo apparente. Quel che Rousseau condanna sono solo “la cultura” e le istituzioni sociali come sono stati fin allora, ma “noi, in base a un nuovo contratto sociale, costruiremo una nuova cultura e una nuova società basate sull’uguaglianza, e sarà il paradiso in terra. Naturalmente, per realizzarlo, dovremo scatenare un po’ di inferno”.

E infatti, da allora abbiamo avuto prima le stragi della Vandea e le ghigliottina, le decapitazioni su scala industriale, poi gli orrori della rivoluzione d’ottobre, i gulag staliniani, l’holodomor, il genocidio per fame del popolo ucraino, i laogai cinesi (che continuano a esistere anche oggi), i mille orrori e le mille atrocità che l’utopia comunista ha sparso per questo pianeta, due secoli esatti di orrori e sangue dal 1789 al 1989. Oggi l’utopia preferisce aggredire la realtà in maniera più subdola e “soft” con l’uccisione dei popoli attraverso la sostituzione etnica.

Premesso dunque che l’onnipotenza dell’ambiente e quindi l’idea di costruire una società perfetta manipolando opportunamente gli stimoli ambientali, cancellando semplicemente l’eredità biologica attraverso la sostituzione etnica, sono follia allo stato puro e un delitto enorme contro l’intera umanità, quale è realmente il rapporto che esiste tra natura e cultura?

Va da sé che usiamo la parola “cultura” nel senso ampio dell’antropologia, cioè tutto ciò che è appreso: l’arte, le scienze, la letteratura, ma anche saper piantare un chiodo in un muro.

La vita, ciò che distingue a prima vista il vivo dal non vivo, è la complessità, cioè l’informazione, presente in forma codificata nel patrimonio genetico degli esseri viventi e in forma decodificata nelle loro strutture anatomiche e nei loro meccanismi fisiologici. Oltre a ciò, non solo gli esseri umani, ma gli animali superiori hanno la possibilità di accumulare e trasmettere informazione non contenuta nel DNA. Un esempio molto chiaro: è estremamente difficile reintrodurre in natura un mammifero predatore, ad esempio un grande felino allevato in cattività, perché gli manca l’apprendimento delle tecniche di caccia che i suoi conspecifici in natura imparano dai genitori o dai membri del proprio gruppo familiare.

Tuttavia l’essere umano con il possesso del linguaggio verbale e del pensiero simbolico, ha compiuto un enorme “salto di qualità” riguardo a questa informazione, e qui gioca un ruolo determinante l’intelligenza, e le cose si complicano, perché l’intelligenza non è ripartita in modo uniforme in tutti gruppi umani. I neri africani, ad esempio, hanno un quoziente intellettivo medio di 70 che coincide con il limite del ritardo mentale. Senza l’influsso di altri gruppi umani, l’Africa nera non sarebbe mai uscita dal paleolitico, e l’apporto complessivo che costoro possono dare alla civiltà umana si può francamente dire nullo, e la loro funzione quella di una zavorra parassitaria. La democrazia ha inventato l’Out of Africa e altre sciocchezze basate sul nulla per nascondere questa semplice verità, che appare evidente a chiunque con i neri abbia a che fare.

Potremmo dire che la base genetica dà (o nega al disotto di un certo livello) la possibilità di creare, trasmettere, usufruire, una cultura, ma la misura in cui questa potenzialità (se esiste) può essere trasformata in realtà attuale, dipende dall’apprendimento dei singoli e delle società in cui vivono, cioè dalla cultura stessa.

In concreto, capire in che misura una qualsiasi caratteristica fisica o comportamentale umana dipenda dalla predisposizione genetica, cioè dalla natura, o dall’apprendimento cioè dalla cultura, è molto meno facile di quel che sembrerebbe a prima vista. Ad esempio, se una persona è obesa, dipende da una predisposizione genetica o da cattive abitudini alimentari, e se da entrambe in che misura dall’una o dall’altra?

L’antropologia “democratica”, chiamiamola così, ha adottato “una regola” che sembrerebbe abbastanza semplice per stabilire se qualcosa è genetico o culturale: ciò che appare comune a tutti i gruppi umani, si ritiene che sia genetico, mentre ciò che differisce tra gli uni e gli altri, si ritiene culturale. Il presupposto (del tutto falso) su cui si basa questa regola, è che la base genetica sia pressappoco uguale in tutti i gruppi umani, quindi in ultima analisi irrilevante.

Basta un minimo di attenzione e di acume per rendersi conto che “la regola” non funziona. Vi riporto un esempio che faccio spesso ai miei allievi (anche perché ho spesso a che fare con classi in netta prevalenza femminili): se un antropologo si fosse messo a studiare le società e le culture umane diciamo alla metà del XVIII secolo, sulla base di questa “regola” avrebbe dovuto concludere che la situazione di inferiorità in cui le donne si trovavano a vivere dappertutto rispetto agli uomini, in termini giuridici, politici, sociali, lavorativi, fosse il prodotto di un’inferiorità biologica, ma oggi che gli handicap di natura socio-culturale e giuridica alla parità fra uomo e donna sono stati rimossi all’interno della cultura euro-occidentale (non di tutte, finiamola di raccontare stupidaggini, signora presidenta della Camera dei deputati), vediamo che le donne sono in grado di competere con gli uomini in qualsiasi ambito professionale.

Al contrario, se c’è una cosa che presenta differenze molto riconoscibili tra le culture e i gruppi umani, sono le abitudini alimentari. Noi potremmo pensare che le considerevoli differenze che esistono a questo proposito, dipendano oltre che dalla disponibilità di risorse alimentari nei vari luoghi, da differenze tipicamente culturali, e ci sbaglieremmo di grosso: infatti, ad esempio l’assenza di latticini nella cucina estremo-orientale e in quella africana, è collegata all’intolleranza al lattosio, che è genetica e diffusissima fra queste popolazioni.

Verrebbe quasi da provare pena per gli afroamericani che soffrono spessissimo di disturbi intestinali in conseguenza di una dieta anglosassone ricca di latte e latticini inadatta al loro organismo.

Se c’è un comportamento umano a cui da sempre si riconosce essere manifestazione non della cultura ma della genetica, è l’espressione delle emozioni, eppure essa è lontana dal presentare quella somiglianza in tutti i gruppi umani che la presunzione dell’uniformità del nostro patrimonio genetico ci indurrebbe ad aspettarci. Senza andare troppo lontano, pensiamo a un funerale nell’Europa settentrionale e a uno nell’Europa mediterranea, al dolore silenzioso e composto nel primo caso, a quello ostentato e urlato nel secondo.

Nella realtà dei fatti, la relazione fra eredità e ambiente nel determinare i nostri comportamenti, è un campo di studi ancora pionieristico perché il dogmatismo democratico blocca la ricerca, sebbene sempre più ricercatori sospettino che i nostri comportamenti sociali e anche i nostri valori morali siano in gran parte determinati geneticamente.

Tuttavia, come ho detto, non è il caso di contrapporre all’errore democratico un errore di segno simmetrico negando l’importanza della cultura, come se la civiltà umana fosse qualcosa di non diverso dall’allevamento di capi di bestiame, ma di cercare invece di ristabilire la realtà dei fatti.

Notiamo per prima cosa che mentre la “cultura di sinistra” sulla carta esalta il dato culturale per escludere l’importanza della determinazione genetica, nei fatti porta al totale deprezzamento della cultura. Ne hanno dato l’esempio gli Stati Uniti a partire dagli anni ’60 quando, per permettere l’accesso ai neri ai livelli superiori delle scuole, si procedette a un massiccio abbassamento del livello degli studi, trasformando la scuola americana in un vero e proprio ignorantificio, del che però abbiamo molto poco da rallegrarci, dato che a partire dal ’68 la scuola europea ha imboccato la medesima strada.

Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, il rapporto fra natura e cultura, eredità genetica e ambiente, non è unidirezionale, ma c’è un’influenza dell’ambiente, dell’appreso sulla genetica. Il famoso genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza faceva notare che se si confrontano l’albero genealogico umano ricostruito in base alle relazioni tra le variazioni del DNA e quello costruito sulla base delle affinità linguistiche, essi presentano una quasi totale coincidenza e sovrapponibilità.

Cavalli-Sforza definisce questa coincidenza “sorprendente”, ma in verità essa può sorprendere soltanto un democratico, abituato o forzato a pensare che natura e cultura siano due realtà del tutto distinte e separate, senza rapporto reciproco.

Tuttavia, ciò non trova la sua spiegazione in un’influenza di fattori genetici sulla lingua e la cultura di un popolo: sappiamo bene, ad esempio, che un bambino adottato che cresce in un ambiente molto diverso da quello natio, parlerà la lingua del luogo dove cresce e non quella dei suoi genitori naturali. E’ invece ipotizzabile piuttosto un’influenza dei fattori culturali su quelli genetici, nel senso che una barriera linguistica fra due popoli vicini è un ostacolo allo scambio genetico, non una barriera assolutamente impenetrabile, ma un ostacolo che funziona allo stesso modo di un ostacolo fisico, ad esempio un fiume, sull’interscambio genetico fra due popolazioni di animali.

Protratto nel tempo, questo fenomeno ha prodotto la differenziazione delle lingue che conosciamo oggi, che segue l’albero genealogico delle popolazioni umane, ed è il motivo per cui la lingua è un buon indicatore della nazionalità. Buono però non significa assoluto, e finora è stato possibile solo un numero limitato e documentato di eccezioni: ad esempio gli afroamericani, in base al fatto di parlare inglese li si dovrebbe classificare come anglosassoni o addirittura germanici, il che suona francamente ridicolo.

Noi oggi stiamo andando, volenti o nolenti, verso un mondo dove le differenze genetiche e culturali tenderanno a sparire in un’umanità meticciata e imbastardita, ed è tutto da vedere se questo porterà un qualche beneficio alla nostra specie, o non sarà invece uno spaventoso depauperamento.

Sulla base piuttosto di fattori culturali e non genetici andrebbe interpretata anche la questione delle differenze (o presunte tali) di livello intellettivo fra europei e asiatici estremo-orientali. Questa differenza è stata rilevata da studi statistici condotti sul Q. I. della popolazione scolastica americana, un divario medio di cinque punti a favore dei ragazzi asiatici (considerevolmente minore del distacco di quindici punti che separa i giovani caucasici dai loro coetanei afroamericani, e in ogni caso non va dimenticato che l’afroamericano non è un nero puro ma praticamente un mulatto, e il suo dato di Q. I. medio (85) si pone giusto a metà strada fra quello del caucasico e quello del nero africano (70) che a sua volta coincide con il limite del ritardo mentale).

Tuttavia, studi successivi hanno portato a mettere in dubbio il significato di quei cinque punti e a ritenere che in generale l’uomo di ceppo caucasico non sia per nulla meno intelligente di quello di ceppo mongolico. Il fatto è che all’ingresso nella scuola elementare, questa differenza di Q. I. tra bianchi e asiatici non esiste per nulla, ma compare e si allarga a forbice nel prosieguo degli anni, il che induce a pensare che non sia legata a fattori genetici ma sia il risultato di stili educativi differenti.

I genitori asiatici sono di fatto più severi coi loro figli, impongono disciplina, pretendono l’esecuzione delle consegne, oltre che il rispetto, il prendere sul serio l’istituzione scolastica, li sottopongono cioè a un “allenamento” che ha effetti benefici non solo sull’acquisizione di conoscenze e professionalità, ma proprio sullo sviluppo dell’intelligenza, laddove i genitori di origine europea hanno un atteggiamento molto più lassista e permissivo, in tal modo privano i loro figli di questo beneficio.

Ora, questa cos’è se non una fortissima indicazione a favore dell’educazione tradizionale basata sul rispetto delle regole e sul rispetto dei ruoli (genitore, figlio, insegnante), cioè precisamente ciò che la “nuova” pedagogia diffusasi dagli anni ’60 (Benjamin Spock e altri) ha teso in ogni modo a distruggere? E noi qui in Europa non ci stiamo forse incamminando ogni giorno di più lungo la stessa china degli Stati Uniti?

L’uomo è un animale culturale, questa è la sua forza, la sua “marcia in più”; posto che ci sia la base genetica “giusta” (proprio quella che la sinistra mondialista vuole distruggere attraverso il meticciato), sono possibili le più grandiose acquisizioni, ma non si può fare a meno di rilevare che proprio mentre esalta sulla carta questa cultura per negare l’importanza della base genetica, nella pratica, in concreto la sinistra democratica e mondialista tende sempre di più a svuotarla di contenuti e significati in nome di una falsa idea di uguaglianza che significa livellamento, appiattimento oltre che eliminazione delle regole e dei ruoli.

Cultura, cioè conoscenze, regole, valori, tradizioni che danno forma alla società e scopo all’esistenza, è questo che intendiamo salvaguardare e trasmettere alle nuove generazioni in modo che possano avere un futuro.

NOTA: L’immagine che correda questo articolo ne sintetizza il contenuto: il DNA, cioè la natura, e il libro, che rappresenta la cultura, collegati dalla figura del grande naturalista Konrad Lorenz.

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